Nietzsche e gli ebrei
DI Vivetta Vivarelli
A Capodanno 1938 Louis-Ferdinand Céline inviò all’amico W. Strauss il suo pamphlet fresco di stampa Bagatelles pour un massacre, accompagnandolo così: “Je viens de publier un livre abominablement antisémite. Je suis l’ennemi n° 1 des juifs”.
A fine 2011 Riccardo De Benedetti con Céline e il caso delle “Bagatelle” (edizioni Medusa) ha cercato, se non di negare, almeno di offuscare questa evidenza, secondo un’intenzione subito colta da “Il Giornale”: “Lo scrittore maledetto si è portato addosso per tutta la vita il marchio dell’antisemitismo più rabbioso – ma De Benedetti cerca di interrompere il cortocircuito intellettuale”.
Variamente contestato in rete, De Benedetti in questi giorni ha reagito allargando il discorso: “Giuntina ha appena mandato in libreria Nietzsche e gli ebrei, antologia degli scritti del filosofo sugli ebrei. Vivetta Vivarelli antepone alla sua antologia due saggi di studiosi che sostengono che il rapporto tra N. e gli ebrei sia diverso da quanto finora raccontato. Lo fanno, tra l’altro, con un argomento abbastanza spiazzante e cioè riconoscendo a N. in molti passaggi il tono e le modalità espressive dell’ironia e dello scherzo. Predominante in Céline delle Bagatelle è il tono del grottesco e del Grand Guignol rabelaisiano. Ovvio i contesti diversi e l’anacronismo: a N. viene imputata (e nel libro di Giuntina confutata, vedi qui) un certo anticipo del nazismo, a Céline vengono imputate, giustamente ma senza poterne dimostrare il diretto nesso di causa, le conseguenze. È un bel pasticcio… perché è evidente che il libro di Guntina cerca di sollevare la lettura di N. dal sospetto di antisemitismo, con Céline, che comunque non è un filosofo, non possiamo farlo per ovvi motivi di testualità, ma il problema del senso e del rapporto con gli ebrei si dovrebbe porre almeno con la stessa finezza di strumenti che giustamente si pongono in essere quando si tratti di Nietzsche.”
Insospettito assai, ho avuto in merito uno scambio di e-mail con la Vivarelli, mia vecchia compagna di studi tedeschi (allieva di Mazzino Montinari, è sua la nuova edizione critica della Nascita della tragedia), la quale ha sintetizzato: “Mi stupisce abbastanza, ma neanche troppo, un accostamento forzato, come sa bene anche chi lo ha fatto, tra i due autori, non soltanto per le diverse epoche storiche, ma soprattutto perché in N. appare evidentissimo un preciso ‘percorso’ filosofico, per non parlare degli studi (accuratissimi e continui) storici, filologici e di storia delle religioni, le quali vengono poi interpretate come grandi sistemi ermeneutici. Basta leggere i suoi scritti al di là di qualsiasi interpretazione settaria per vedere come N. comincia ad avvertire, con un intuito sorprendente, già attorno gli anni ottanta i pericoli del nascente antisemitismo, per cui si mette a combattere in maniera accanita, quasi ossessiva, la vuota retorica della canaglia antisemita. Ciò non toglie che permangano negli scritti stereotipi sugli ebrei (parla ad esempio del detestabile ebreo Goldschmidt – traduttore di Dostoevskij – ‘col suo tedesco da sinagoga’ in una lettera del marzo 1887), come pure attacchi virulenti contro l’ebraismo rabbinico da cui deriva il cristianesimo. Ma il tenore delle considerazioni, non solo quelle ufficiali dei grandi aforismi sugli ebrei, ma anche quelle più private degli appunti postumi e delle lettere, è di una ripetuta e ostinata contrapposizione del loro Geist a quello dei tedeschi a sfavore di questi ultimi. L’osservazione più pretestuosa di De Benedetti è proprio quella dell’analogia sul filo del ‘tono e delle modalità espressive dell’ironia e dello scherzo’. Su questioni così tremendamente serie il tono di N. non ha nulla del grottesco rabelaisiano: quando rovescia contro gli antisemiti le ragioni degli antisemiti lo fa con un sottinteso ironico – ma questo fa parte della sua difesa di quel Geist inconciliabile con qualsiasi forma di fanatismo che gli appare così minacciato nel Reich guglielmino.”
Infine, a ulteriore chiarimento mi ha allegato il file della premessa al suo libro, consentendomi di fare del tutto il miglior uso – che per me è questo che vedete. (dario borso)
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Presentiamo qui i passi a mio parere più significativi di Nietzsche sulla questione ebraica. Il rischio di omissione è ovviamente implicito nel concetto stesso di scelta. Chiariamo subito che le occorrenze (sotto le voci Juden, jüdisch, Semiten) riportate nell’indice dell’edizione tedesca Colli-Montinari sono circa 300. Un centinaio sono quelle delle lettere. Tali occorrenze aumentano in maniera vistosa fino a diventare una sorta di leitmotiv negli appunti dell’ultimo periodo. Proprio nell’ultima fase la scelta ha dovuto essere necessariamente più drastica. Uno dei criteri con cui è stata operata la selezione è stato comunque quello di bilanciare i passi più elogiativi con quelli più critici. A chiunque non sfuggirà il sostanziale cambiamento di tono nelle fasi successive a quella wagneriana, quella in cui Nietzsche riconoscerà più tardi di avere sacrificato le sue idee “alla propria venerazione”. Ma al contrario di chi scorge una sostanziale continuità tra le diverse fasi, mi pare che proprio la virulenza degli attacchi del primo Nietzsche dia senso e valore alla svolta nell’epoca dello spirito libero. Il suo è un percorso intellettuale quasi unico nel rovesciamento delle proprie posizioni, come aveva chiaramente riconosciuto Thomas Mann. Nella fase della Nascita della tragedia il giovane Nietzsche, che già da studente mostrava di condividere pregiudizi eidiosincrasie del suo tempo, assorbe il sostanziale antisemitismo del mondo che lo circonda, non solo quello dei suoi cattivi maestri, Schopenhauer e Wagner, ma anche degli ambienti accademici in cui si forma: si pensi ad esempio alle stoccate antiebraiche dell’amico Erwin Rohde, che paiono talora esemplificare il contrasto pretestuoso tra Atene e Gerusalemme. Ma anche in questa prima fase Nietzsche non giungerà mai agli accenti estremi di Rohde o dell’amico aristocratico Carl von Gersdorff, anche perché comincia presto a crearsi degli anticorpi. Il primo è sicuramente il suo senso storico, il metodo genealogico, per cui non crederà mai a delle realtà statiche, ma le esplora sempre come fenomeni in formazione e in divenire, ne dissotterra le radici, ne svela condizionamenti e motivazioni profonde; poi la scelta definitiva di un’assoluta libertà e onestà intellettuale, costi quello che costi. Altri anticorpi sono letture come quella di Montaigne, che lo accompagnerà per tutta la vita, ma anche di antropologi che lo portano a considerare la chiusura delle nazioni e la difesa delle razze come un atavismo, un residuo arcaico. Resta comunque il fatto innegabile che i virulenti attacchi anche in epoca tarda contro il giudaismo e Paolo di Tarso sono in realtà compresi nel principale obiettivo polemico di Nietzsche, l’attacco al cristianesimo e dunque all’intera tradizione ebraico-cristiana. Questa viene incolpata, dal punto di vista filosofico, di dare un senso forte e assoluto alla parola “verità” raccogliendo l’eredità del platonismo, sostituendosi a interpretazioni religiose aperte quali il politeismo, e legandosi a tutto ciò che Nietzsche aborre: la fede, le convinzioni, il fanatismo.
Proprio questa gabbia interpretativa appare intollerabile al filosofo del multiprospettivismo, che si riconosce invece nelle posizioni degli scettici greci, negli attacchi di Lessing a coloro che si credono in possesso della verità, ma anche nella parole attribuite a Pilato: “che cos’è la verità”. In particolare, come è stato rilevato nel Nietzsche-Wörterbuch, Nietzsche negli ultimi scritti usa la parola “semitico” in senso metaforico come cifra per “spirito sacerdotale”, uno spirito che per lui contraddistingue il libro ariano per eccellenza, il codice Manu. Il contrasto, che va delineandosi nel periodo della Genealogia della morale e dell’Anticristo, tra un periodo arcaico della storia di Israele, col suo “paesaggio eroico”, e la successiva decadenza legata a un processo di “Entnatürlichung” deve ricondursi, come è stato dimostrato, alla lettura dei Prolegomena zur Geschichte Israels di Julius Wellhausen.
Un’altra fonte che Nietzsche utilizza, pur distanziandosene in varie occasioni, per la storia della religione ebraico-cristiana è Ernest Renan. Proprio sottolineando l’intima connessione tra cristianesimo e ebraismo Nietzsche sconfessa l’idea di un “cristianesimo ariano” quale veniva proposta dagli antisemiti. Inoltre anche l’idea di una religione naturale dell’antico popolo ebraico, che in quanto tale non era una prerogativa dei popoli ariani, appariva, come ha notato Andrea Orsucci, inaccettabile alla pubblicistica antisemita di quegli anni. Non è certo un caso che gli stessi nazisti lo giudicassero un autore pericoloso e di fatto inservibile (si veda ad esempio il giudizio del futuro deputato nazionalsocialista Theodor Fritsch, con cui Nietzsche ebbe il rovente scambio di idee nelle lettere riportate in questo volume). E tuttavia tanto i nazisti che i loro avversari, come Lukács, tentarono di farne un distruttore della ragione o un precursore del nazionalsocialismo avvalendosi spesso di immagini e parole ad effetto avulse dal loro contesto, come ad esempio la famigerata “bestia bionda” (questa linea interpretativa comincia a sgretolarsi negli anni ’50 a partire dall’America, con Walter Kaufmann, il suo traduttore in inglese di origine ebraica).
Gli stessi nazisti, a una lettura più attenta, avevano dovuto fare i conti con i ripetuti attacchi di Nietzsche contro gli antisemiti e i tedeschi in generale. Un ideologo del regime come Baeumler tentava di ascriverli con imbarazzo al fatto che il filosofo non aveva trovato riconoscimenti in patria. Uno dei più importanti studiosi di Nietzsche, Wolfgang Müller-Lauter, che ricorda la sua prima riluttanza a leggere l’autore della Nascita della tragedia, racconta come il suo libraio, nel 1942, gli avesse consigliato un volume del wagneriano Curt von Westernhagen, Nietzsche, ebrei, antiebrei, appena uscito a Weimar. Questo libro venne recensito nel “Völkischer Beobachter” da un comandante delle SA, Heinrich Härtle.
Nel 1937 Härtle aveva scritto un libro (Nietzsche e il nazionalsocialismo) in cui sosteneva che solo un nazionalsocialista pienamente consapevole poteva comprendere la filosofia di Nietzsche, deplorando tuttavia che al filosofo mancasse l’esatta cognizione di “Volk”, stato e razza. Härtle, che già aveva dovuto digerire a fatica l’anti-antisemitismo di Nietzsche, attaccò duramente Westernhagen, colpevole a suo dire di aver dato un’immagine deformata del filosofo mettendo insieme, col pretesto di una questione secondaria come il suo atteggiamento nei confronti degli ebrei, tutte le cose negative che aveva scritto. Secondo Härtle il libro del wagneriano aveva generato l’odio contro Nietzsche, e proprio come avrebbe potuto farlo, per un sentimento di vendetta, un ebreo oppure un gesuita.
Al di là delle interpretazioni che mirano comunque ad appiattire o a semplificare il pensiero di Nietzsche, va detto che questi condivide fino all’ultimo pregiudizi o luoghi comuni sugli ebrei (contro la finanza ebraica, i caratteri da parvenus, gli ebrei orientali). Uno di questi è l’insistita descrizione dell’ebreo come commediante, attore nato, che lui cerca di motivare storicamente ma che si appoggia anche alla sua convinzione, più o meno ironica, che Wagner stesso sia ebreo. E qui va sottolineata una strategia stilistica che è stata notata negli scritti di Nietzsche: usare le armi retoriche degli antisemiti contro di essi: dunque sono loro “i malriusciti”, sono loro che dovrebbero essere cacciati dalla Germania e dall’Europa. In Ecce homo dichiara di non sopportare la “razza tedesca”. Non solo: il sottile veleno di Nietzsche si insinua anche nelle lettere alla sorella, moglie dell’antisemita Bernhard Förster. Nella lettera per il compleanno di lei, del 5 giugno 1885, ironizza sul fatto che il marito, vecchio antisemita, la chiami con un appellativo ebraico, Eli; e come augurio le invia una frase di una lettera agli Efesini di Paolo di Tarso (pure ti auguro “che tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra”).
Il tema dell’ebraismo diventa uno dei temi centrali negli ultimi anni di vita cosciente, in cui Nietzsche ritorna a ripetere e a variare in maniera quasi ossessiva gli stessi argomenti, sentendosi tra l’altro coinvolto sul piano personale dal fatto che il cognato, in nome delle sue idee, aveva trascinato la sorella Elisabeth in un’impresa fallimentare.
Per quanto non possa sfuggire l’accento drammatico che talora assume per Nietzsche l’intera questione, esiste anche un aspetto che non è stato quasi mai messo in luce, ovvero l’ironia, la vena umoristica, l’umor nero che va accentuandosi negli anni. Tra l’altro egli tenderà a identificarsi con l’“adorable Heine”, quintessenza de “l’esprit de Paris”, che probabilmente rilegge e riscopre anche attraverso i francesi. In un frammento dell’autunno 1887 afferma che nella sfera dell’arte gli ebrei hanno sfiorato la genialità con Heine e Offenbach. In un altro del 1888, che essi rappresentano un antidoto contro la chiusura nazionalistica. In Ecce homo tributerà a Heine un riconoscimento che si accompagna a una sorta di identificazione sul piano dello stile ma anche, a ben guardare, sul piano di un’identità nazionale non ben definita. Nietzsche, come Heine, non si sente interamente tedesco: “Un giorno si dirà che Heine e io siamo stati di gran lunga i primi artisti della lingua tedesca – a una distanza incommensurabile rispetto a tutto ciò che con essa sono riusciti a fare i tedeschi puri e semplici”. Questo riconoscimento è di un’importanza cruciale se si pensa al fatto che Nietzsche, nella sua fase wagneriana, aveva dileggiato Heine proprio per il suo virtuosismo stilistico, e sembrava condividere la tesi di Wagner che gli ebrei, in quanto estranei alla lingua nazionale, non potessero essere autentici poeti. Ora l’argomento dell’estraneità viene orgogliosamente affermato come un privilegio che spiega tra l’altro la profonda consonanza col poeta ebreo. La stessa sensazione di parentela spirituale induce Nietzsche ad attaccare astiosamente l’“ebreo” Avenarius perché “affossa” Heine, a deridere gli antisemiti che non sanno neppure cosa sia l’intelligenza (“Geist”) o l’esprit; e infine ad additare Heine, il grande mediatore delle culture, come un modello che sul piano educativo è più importante per la Germania dello stesso Goethe, come si legge nelle lettere qui presentate nell’ultima sezione.
Paul Celan, nell’agosto del 1959, in un momento in cui era amareggiato per il suo rapporto con Theodor Adorno (“che credevo essere ebreo”), confessa nella dedica all’amico Reinhard Federmann di avere scritto il suo Colloquio in montagna “in ricordo di Sils-Maria e di Friedrich Nietzsche che – come sai – voleva far fucilare tutti gli antisemiti”.
TYSM REVIEW
VOL. 24, ISSUE NO. 24
MAY 2015
ISSN: 2037-0857
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