Alice nel Paese di Alice Rohrwacher
Alice Rorhwacher in questa seconda prova, dimostra di sapere leggere nei corpi e nei cuori altrui, semplicemente. Non trascurando sangue, lacrime e dolore (e leggera meraviglia).
Alice nel paese delle Meraviglie
Regia: Alice Rohrwacher Con: Maria Alexandra Lungu – Sam Louwyck – Alba Rohrwacher – Sabine Timoteo – Monica Bellucci – Agnese Graziani Anno: 2014
di Giulia Zoppi
Loubia Hamra di Narimane Mari (Algeria-Francia, 2013) è il film che più di ogni altro ultimamente ha risvegliato in me la passione smisurata per il cinema in quanto testimonianza di vita ed espressione di resistenza, lotta e coraggio di stare al mondo.
Passano gli anni e più mi convinco che al di là dei formalismi e delle cifre stilistiche autoriali, ciò che ricerco in una pellicola (in senso di film tout court) è la vicinanza alla realtà e il suo farsi tale, che solo un certo teatro, che si vede pochissimo in giro, è in grado di restituire.
Da qualche tempo e in misura ancora minore purtroppo, rispetto ad altri Paesi, anche in Italia si sta risvegliando l’interesse per l’infanzia e l’adolescenza come materia magmatica e pulsante per un cineasta che voglia raccontare il mondo.
Tra gli ultimi acuti osservatori dell’infanzia nella nostra recente cinematografia si ricordano Antonio Capuano (in parte anche Antonietta De Lillo), durante gli anni ’90 del secolo scorso e Francesca Archibugi, mentre sappiamo che per tradizione (salvo Luigi Comencini a cui Asia Argento si rifà nel suo ultimo lavoro Incompresa), i nostri Autori hanno sempre puntato il loro sguardo altrove, relegando l’infanzia e l’adolescenza a puro mezzo decorativo se non a comparsa inerte e priva di afflato vitale (il problema si ripresenta in misura esponenziale nella mediocre fiction tv prodotta in Italia).
Eppure il binomio “donna- regista/ film su bambini e/o adolescenti” ha prodotto opere decisamente interessanti, un titolo su tutti Tomboy di Céline Sciamma (Francia, 2011), a testimoniare che lo sguardo femminile, almeno in ambìto europeo, è avvantaggiato (non si può dire questo per il cinema americano dove Opere meravigliose sull’argomento sono firmate da uomini) nel maneggiare l’argomento con sensibilità e delicatezza.
Se Loubia Hamra è capace di riconciliare una cinefila incallita alla Settima Arte, ciò è dovuto ad una mirabolante e sorprendente carica estetico eversiva raramente presente nelle cinematografie che circolano nei circuiti distributivi, è altresì del tutto meritato il premio ad Alice Rohrwacher autrice e sceneggiatrice de Le Meraviglie, all’ultimo festival di Cannes, per la freschezza e la sincerità di una storia che gode di un tocco ruvido e privo di ammiccamenti e di una veridicità che si rifà alla miglior tradizione documentaristica italiana, priva di orpelli e furbizie, quanto ricca di silenzi, spazi e (intensi) campi lunghi.
Le Meraviglie racconta la semplice quotidianità di un nucleo famigliare trilingue (il tedesco del padre Wolfgang e della zia Cocò, il francese approssimativo della madre Angelica, l’italiano delle quattro bambine) che vive in un casale tra l’Umbria e la Toscana, producendo un miele di provata delizia e purezza, lontano dalla meschinità del mondo, non senza sofferenza e al limite della sussistenza.
All’interno del gineceo composto da Angelica, le quattro figlie piccole e la zia, spicca per intelligenza e senso del dovere Gelsomina la più grande delle figlie, impegnata senza sosta nel lavoro di apicultrice, forte del rapporto simbiotico con il padre che sembra però ignorarne il desiderio di fuga e la voglia di autodeterminazione, al di fuori della sua stretta, sin troppo soffocante.
Se Wolfgang pretende che la vita giri intorno al suo ideale di giustizia (un ideale socratico il suo) senza mezzi termini e con fare sbrigativo e spesso rude e violento, non ne è tanto convinta Angelica, sua moglie, delicata ma forte presenza tutoriale, divisa tra il ruolo di madre e quello di moglie.
Ciò che accade intorno alla famiglia, l’arrivo di un bambino tedesco Martin, uscito dal riformatorio e lasciato a loro in affido, nonché la presenza epifanica di Monica Bellucci nelle vesti di una fata televisiva, aprono un piccolo varco nella dolce e silenziosa Gelsomina, assurta qui ad eroina romantica, capace di sopportare ogni sorta di fatica, come nella migliore tradizione del Bildungsroman.
Nella semplice vicenda che li riguarda, all’interno di un plot dove accade pochissimo ma si vede moltissimo (questo è il cinema!) si muovono delicate come miele le promesse che le bambine sapranno mantenere quando, finalmente adulte, lasceranno l’alveo familiare. Una condizione di diversità la loro, se rapportata a quella dei bambini delle città o dei piccoli paesi, in quanto isolate, prive di ricompense (quando il padre regala a Gelsomina un cammello, la ragazzina si sgomenta per la scelta oramai inappropriata per lei) ma fortemente ammantate di magia, perché la natura è un mistero continuo e insondabile e nulla è più avventuroso che affrontarla e domarla.
Qualcuno ha ventilato la possibilità che si tendesse ad un’Arcadia perduta, a me pare che in questo western all’italiana (il genere a cui lo ascrivo, insieme a quello fantastico) invece, si raccontasse “solo” un lacerto di vita. Quella vita che pochissimi registi sanno raccontare al di fuori della loro sceneggiature rassicuranti e scritte secondo regole consolidate.
Alice Rorhwacher in questa seconda prova, dimostra di sapere leggere nei corpi e nei cuori altrui, semplicemente. Non trascurando sangue, lacrime e dolore (e leggera meraviglia).
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TYSM LITERARY REVIEW, VOL. 10, NO. 15, JUNE 2014
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ISSN:2037-0857