philosophy and social criticism

Che fine ha fatto il burkini?

Marco Dotti

Le notizie hanno un andamento carsico: escono, creano scompiglio e ritornano sotto terra. Salvo poi riapparire quando meno te lo aspetti. Ricordate il burkini? Sì, il costume da bagno integrale, usato in Italia da poche decine di donne musulmane, e non troppo dissimile dai costumi delle nostre nonne.

Nell’estate 2016, non era il “caldo epocale”, non “la temperatura percepita” e nemmeno il “caso-Ong”, ma il burkini a tener desta l’opinione alimentando ridde di voci, dibattiti, interpellanze e interrogazioni parlamentari e appelli alla “difesa della civiltà”. Nella calda estate (calda come ogni estate) 2016, “burkini” era stata la parola-immagine più ricercata dagli italiani sul web.

A destare scandalo e scalpore fu soprattutto questa fotografia, pubblicata su siti e riviste, rimpallata da giornali e telegiornali:

Burkini Vietare

Fino a che qualcuno si chiese – cosa che dovrebbe esser fatta per ogni immagine – chi fosse il soggetto ritratto. E scoprì che si trattava della giornalista e conduttrice televisiva inglese Nigella Lawson. Una donna musulmana? Tutt’altro. Lawson è sposata con un ebreo e scelse il costume per evitare scottature alla pelle.

Un caso emblematico, anzi simbolico di quell’incomprensione di fondo che ora è al centro dell’agile, davvero utile libretto di Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, Il burkini come metafora(Castelvecchi editore, pagine 96,euro 12). Un lavoro, quello di Allievi, che va dritto al punto: come può, un costume usato da poche centinaia di donne, diventare addirittura un problema di ordine pubblico? Come è possibile – ma siccome è stato possibile, è bene prendere sul serio il tema – che sia riuscito, per un’estate intera e anche più, a saturare nello spazio pubblico l’intero campo di riflessione sull’Islam in Europa?

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