philosophy and social criticism

Il governo dell’uomo indebitato

"Maurizio Lazzarato"

di Marco Bascetta

È dall’inizio della crisi e poi con sempre crescente insistenza che in Europa si sente parlare di «virtù». Ne parlano i governi, ne parlano gli organismi dell’Unione, ne scrivono quotidianamente gli editorialisti della grande stampa. Di espressioni come «paesi virtuosi», «politiche virtuose», «bilanci virtuosi», «comportamenti virtuosi» siamo letteralmente subissati. Il ritorno alla virtù è la promessa che i governi «responsabili» rivolgono ai mercati , alla Bce, alle agenzie di rating, a Berlino e a Bruxelles e, paradossalmente, anche alle proprie cittadinanze per le quali la vita virtuosa si traduce perlopiù in una vita grama fatta di bassi salari e disoccupazione, di smantellamento dello stato sociale e consumi declinanti, di un divario sempre più abissale tra i primi e gli ultimi, di una desolante mancanza di prospettive. Del resto, il connubio tra povertà e virtù è un tema classico della predicazione d’ogni tempo. 

Vizi come virtù

C’è davvero da rimpiangere, nel dilagare di queste retoriche del sacrificio virtuoso, quella narrazione delle origini (suggestivamente riassunta ne La favola delle api di Bernard de Mandeville,1704) che faceva onestamente discendere il rigoglio dell’industria e dei mercati dai vizi e dall’avidità che mettevano – e tutt’ora mettono – in movimento la macchina economica. La parola d’ordine della virtù potrebbe fungere da leitmotiv del Governo dell’uomo indebitato, come recita il titolo che Maurizio Lazzarato ha scelto per il suo secondo lavoro dedicato alla centralità del rapporto creditore/debitore nel mondo contemporaneo (Deriveapprodi, Roma 2013). Il debito non è, infatti, un puro e semplice rapporto economico, nemmeno una obbligazione giuridica, ma una vera e propria forma di governo che combina la coercizione esogena con l’interiorizzazione di una colpa, di una dipendenza, di uno stato di assoggettamento, determinando la condizione presente e ipotecando quella futura. E che segna un passaggio decisivo nell’appropriazione capitalistica dalla centralità del profitto, che ha dominato i due decenni della ricostruzione postbellica e del boom, a quella della rendita e dell’imposizione fiscale. La prevalenza di queste due forme e la loro interrelazione mettono fine alla favola liberale dello «stato minimo» come condizione principale della libertà e della dinamicità di impresa e della conseguente emancipazione degli individui da antiche condizioni di servitù. Rivelando, al contrario, il ruolo decisivo dello stato nel garantire le condizioni dell’accumulazione e la continuità della rendita finanziaria. Mostrandoci come la logica deterritorializzata del capitale non possa darsi senza riterritorializzazione statatale. Cosicché è addirittura uno «stato massimo» quello che ci troviamo di fronte nel governo della crisi, nonché una mutazione sostanziale della «governamentalità».

Diversamente da quella natura flessibile e adattabile al mutare delle circostanze, plastica e interlocutoria che le aveva attribuito Michel Foucault, essa assume oggi i tratti «dell’imposizione, del divieto, della norma, della direzione, del comando, dell’ordine e della normalizzazione». In poche parole, «la governamentalità diventa, in maniera irreversibile, autoritaria».

Questo processo che possiamo agevolmente osservare nelle minuziose regolamentazioni imposte dagli organismi dell’Unione europea, nel proliferare degli strumenti di valutazione e controllo in ambito nazionale e sovranazionale, nei vincoli sempre più stretti imposti dai trattati e dalle direttive comunitarie, ma anche nell’azione crescentemente invasiva che i governi nazionali esercitano sulle condizioni di vita e sulle residue libertà delle rispettive cittadinanze, ci suggeriscono due conclusioni. La prima è quanto sia patetico invocare la protezione dello stato-nazione (peraltro estinto da un pezzo), o dello stato sociale che gli è succeduto, contro i meccanismi di valorizzazione del capitale globale e i suoi tentacoli finanziari. La seconda è chiederci se non dobbiamo abbandonare del tutto il concetto di governance, se, insomma, nelle nuove condizioni di accentramento, parlare in generale di «governamentalità» abbia ancora un senso.

In realtà, anche nella sua versione autoritaria, la «governamentalità» ci dà ancora conto dell’articolazione del comando su più livelli e della fittissima rete di regole che presiede al funzionamento del mercato. Inoltre la tirannia del debito non poggia solo sull’interiorizzazione di una colpa, sull’organizzazione della propria vita in termini di restituzione infinita di ciò che si è ricevuto (dal sistema del credito bancario, secondo la versione liberista, dal sistema sociale, secondo l’economia eterodossa di Aglietta e Orléan), ma anche sul fatto che il rapporto creditore/debitore attraversa e lacera lo stesso soggetto. Il risparmiatore e il salariato si fronteggiano e si combattono all’interno della medesima persona.

La pervasività del sistema finanziario ci ricorda minacciosamente di essere anche beneficiari di ciò di cui siamo vittime, ci avverte che se l’imposta non salverà le banche dal fallimento saranno prima di tutto i nostri soldi ad andarci di mezzo. Va da sé che il «risparmiatore», salariato o pensionato che sia, è saldamente conficcato in un sistema di regole su cui non esercita alcun controllo. La governance ideologica e materiale di questa condizione si è però rivelata capace, almeno fino ad ora, di mantenere, soprattutto il declinante ceto medio, in uno stato di attonita rassegnazione e di sufficiente fedeltà elettorale ai partiti della «virtù» solvente e alle loro «grandi intese».

Debito politico

Il governo dell’uomo indebitato è nel senso più pieno e proprio un governo politico. Il suo strumento principale è l’imposta e, naturalmente, l’apparato coercitivo necessario a riscuoterla. Scrive Lazzarato: «Decidendo chi deve pagare (i non responsabili della crisi) e dove deve confluire il denaro raccolto (ai creditori e alle banche responsabili della crisi) l’imposta garantisce la riproduzione in tutto e per tutto politica di un’ ‘economia’ e dei suoi rapporti di potere». Il suo scopo non è il risanamento dei bilanci ma appunto la riproduzione perenne di questa asimmetria. Gli zelanti predicatori della «virtù» si sforzano invece di sostenere in ogni modo che tutti siamo responsabili della crisi, avendo preteso di «vivere al di sopra dei nostri mezzi». Tradotto significa che, attraverso il conflitto, i soggetti sociali avevano dirottato a favore del miglioramento delle proprie condizioni di vita risorse sottratte alla valorizzazione capitalistica (con sommo disappunto dei mercati), e che ora il governo della crisi ad essa intende ricondurle con ogni mezzo necessario.

Attraverso una vera e propria guerra di classe dall’alto, condotta da quell’unica classe che si è «ricomposta intorno alla finanza, intorno al potere della moneta di credito o al denaro come capitale». Per spiegare la quale ritorna più utile Carl Schmitt e l’accento posto sulla priorità della decisione politica che non i tanti analisti dell’economia di mercato impegnati nell’improbo compito di restaurarne la presunta razionalità.

Di fronte al blocco della valorizzazione del capitale, alla paralisi degli automatismi economici innescata dalla crisi, il neoliberismo rimette in campo la sua «politicità» in forma di stato «massimo», di ipertrofia della regolamentazione giuridica, di governo autoritario e di imposizione fiscale, e cioè di quel meccanismo di cattura della ricchezza che il conflitto sociale era riuscito (molto parzialmente) a disperdere nei diversi strati della società industriale. Il fisco, deposta ogni funzione redistributiva, spende tutto il suo impegno in un’opera di concentrazione della ricchezza a favore della rendita finanziaria. Al cui centro sta appunto il rapporto inesauribile tra creditori e debitori.

Marx ci aveva insegnato che nel capitalismo i rapporti tra persone si davano come rapporti tra cose. Ora quei rapporti tra cose tornano a darsi come rapporti tra persone che tirano in ballo onore, credibilità, virtù, eticità. Sensi di colpa e senso del dovere. Responsabilità individuali e collettive, che non hanno mai avuto modo di esercitarsi nella realtà e che però non mancano di presentare il conto. Il governo dell’uomo indebitato illumina il rapporto politico che istituisce quello economico mettendone a nudo l’arbitrarietà. Ma è questa una caratteristica che mal si concilia con gli aspetti «macchinici», assiomatici, semiotici che Lazzarato (seguendo Deleuze e Guattari) attribuisce al sistema capitalistico, e secondo i quali i rapporti sociali (o i rapporti tra persone) si darebbero nella forma di rapporti numerici, di «enunciati operativi», di flussi di segni incardinati nella struttura stessa del sistema, che assoggettano e condizionano senza via di scampo gli agenti economici e sociali.

Per via di sottrazione

Il concetto di una assiomatica «politicamente stabilita» resta comunque problematico poiché tra l’automatismo e la forza, tra la decisione e la procedura ordinaria permane un campo di tensione. E la crisi non fa che accentuarne l’intensità. Che poi la decisione politica si inscriva nell’orizzonte della valorizzazione del capitale e della sua necessità di colonizzare sempre nuove sfere può essere certamente pensato come un processo circolare, che non sembra presentare però le caratteristiche operative di una «macchina».

La risposta al governo del debito, che per sua natura tende a riprodursi all’infinito poiché racchiude e incorpora l’asimmetria tra dominanti e dominati essendone la condizione necessaria, non può essere che un processo di riappropriazione, una mobilitazione che investe i rapporti di potere e contrappone blocchi di interessi confliggenti.

Ma a questo aspetto più classico della «mobilitazione», senza il quale nessuna rottura sarebbe possibile, Lazzarato affianca un momento di «smobilitazione», di inoperosità o sottrazione, di rifiuto dei ruoli e delle identità, senza il quale non si darebbe alcuna apertura del possibile (o dei possibili) e i contendenti continuerebbero a rispecchiarsi gli uni negli altri, disputandosi una posta consueta. Questo secondo aspetto, e la mutazione antropologica che gli sarebbe propria, permangono tuttavia in quella dimensione di estrema indeterminatezza che, così come nell’ esperienza dell’«uomo indebitato», combina fattori politico-economici e fattori esistenziali. Se questo rappresenti una debolezza o possa trasformarsi in una forza solo le lotte a venire potrano rivelarcelo.

Certo è che nel rapporto tra creditore e debitore la sottrazione è un fattore decisivo, e la sua natura «politica» del tutto evidente.

[da il manifesto, 12 novembre 2013]

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tysm literary review, Vol 6, No. 9,  November 2013

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