philosophy and social criticism

David Lynch

"David Lynch"

di Francesco Paolella

 

Nota su: David Lynch, Perdersi è meraviglioso. Interviste sul cinema, Minimum fax, Roma, 2012.

 

Nel pessimista si accordano una bontà inefficace e una cattiveria inappagata (Cioran)

 

Basterebbe forse un quadro, un suo quadro (I see myself, 1992) per fare una sintesi del lungo lavoro ideale di David Lynch.

In quel quadro domina ciò che è oscuro e notturno, e un taglio diagonale separa due figure umane stilizzate, scheletriche. Due mostri, terribili quanto indeterminati: uno bianco, uno nero. Due in uno, due figure contrapposte, forse un duello, forse soltanto un uomo davanti allo specchio.

La realtà, anzi le realtà dei film di Lynch sono dominate da questa dicotomia, da questa lotta senza tempo di luce e buio, bene e male. Una dicotomia che ci rimanda all’assurdità della vita, della nostra vita. Nascere e morire, il sogno e la realtà, la finzione del cinema: anche se Lynch non ha mai cercato di attribuirsi dei maestri, degli ispiratori, il suo è un cinema surrealista, che si avvicina alla realtà tanto da deformarla.

Lynch spende le sue “idee”, le intuizioni in immagini che presuppongono e permettono la creazione di un film, per andare “sotto la superficie” – sotto la superficie delle cose, dei volti, dei desideri.

Lynch è attratto da una bellezza triste, in rovina, rovinata, un “miscuglio di mistero, bellezza e tristezza” (p. 141). Ovunque può nascondersi l’orrore, la crudeltà può esplodere, assurda. I suoi film sono spesso fatti di sesso, violenza, follia, sempre più inspiegabili. Ma non sarebbe giusto dimenticare che rimane presente pur sempre una forte radice spirituale. E libertaria, a suo modo.

In queste interviste a Lynch, una raccolta che copre tutta la sua carriera dai tempi di Eraserhead (che è del 1977), torna appunto la sua difesa per la libertà creativa di un autore, e per la libertà di interpretazione di ogni spettatore. “Morbose e malate, secondo lui [secondo Lynch], sono le accuse di misoginia e pornografia che lo perseguitano fin dai tempi di Velluto blu” (p. 307-308).

Una violenza, un terrore non gratuiti, ma che Lynch – sempre sul limite del kitsch –

accoglie in sé, nella sua immaginazione, assorbendoli dall’atmosfera della provincia americana, che si è fatta via via più tesa, più ostile.

Lynch è – così appare anche a tanti intervistatori – di una “innocenza paradossale”: il suo punto di vista sul mondo sembra quello “di un bambino in preda al terrore”:

“Credo di aver subito molto l’influsso del mistero, da piccolo. Allora trovavo il mondo totalmente affascinante, era come un sogno. Si dice che chi crede di aver avuto un’infanzia felice in realtà stia reprimendo qualcosa, ma io credo di averla avuta davvero. Ovviamente avevo le solite paure, come quella di andare a scuola – sapevo che lì c’era qualche problema” (p. 198-199).

Lynch cura molto senza dubbio il suo personaggio, fra cinema, musica e fotografia; cerca (a fatica) di tenerlo a bada, per così dire; soprattutto dopo il successo planetario di Twin Peaks in televisione (. Non è un caso che siano quelle di Diane Arbus le sue fotografie preferite. Che senta Kafka come un fratello – e pensiamo soltanto che Lynch ha girato The Elephant Man, del 1980.

“Avendo prestato attenzione alle proprie ansie infantili, Lynch ha investito il materiale del suo consueto stile personale: lente dissolvenze, fasci di luce violenta, primi piani esasperati, figure che emergono dall’oscurità, inquadrature prolungate un attimo di più per cogliere il suono e la consistenza di un luogo o di un oggetto. Lynch è interessato alle deformità facciali, ai rumori esagerati, ai giochi di parole perversi e ai dialoghi di una banalità comica. I personaggi possono essere dettagliati fino al ridicolo” (p. 97).

Ma, dicevamo, ciò che resta è pur sempre un bisogno fin esagerato di libertà, di poter fare ciò che vogliamo. Lo scandalo Lynch – pensiamo alle reazioni della critica all’uscita di Velluto blu (1986) – consiste forse proprio nella “religione” delle (proprie) idee, che lo stesso autore americano segue da vero integralista. Senza voler garantire al pubblico significati  morali o politici, né gerarchie di valori. Ciò che conta è l’estetica:

“La gente si è messa in testa che Dorothy [la protagonista di Velluto blu, interpretata da Isabella Rossellini] rappresentasse tutte le donne, anziché essere soltanto Dorothy. E’ lì il problema. Se lei è soltanto Dorothy, e quella è la sua storia – e io la vedo così – allora il resto va bene. Se invece rappresenta tutte le donne, non ha senso. Non tornano i conti. Sarebbe completamente falso, e avrebbero ragione ad arrabbiarsi.

Le idee sono la cosa più strana che ci sia. Se ne stanno sospese là fuori, e tu le catturi e ci costruisci qualcosa. A quel punto nella tua mente appare la storia: di colpo l’afferri, affiora in superficie, si manifesta, e puoi andartene nella tua bottega e darle forma” (p. 126-127).

 

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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013

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