Essere Luigi Reitani
di Dario Borso
La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa: ma se la prima volta fu tragicomica, cosa sarà la seconda?
Come noto, nel 1999 Craig Schwartz, archivista innamorato della collega Maxine Lund che non lo bada, raccogliendo una cartella scagliata contro il muro in uno scatto d’ira, scoprì un passaggio segreto attraverso cui entrò nella mente dell’attore John Malkovich.
Conobbi Elisa Biagini alla 2a edizione del Premio Baghetta di poesia 2008 dove si classificò terza dietro Livia Chandra Candiani e Vivien Lamarque: non la rividi più, ma mi rimase dentro.
L’8 novembre scorso il germanista Luigi Reitani sul Sole24ore stroncava la mia traduzione di P. Celan, L’antologia italiana (Nottetempo, pp. 228, 12 €) per le “soluzioni lessicali antiquate”, gli “improvvisi scarti di registro stilistico” e le “discontinuità nel tradurre le stesse espressioni”, elogiando solo “le note, che però Borso ricava per buona parte dal commento di Barbara Wiedemann tralasciando – ed è grave – di menzionare la sua fonte. Una felice vena creativa emerge invece dalla traduzione di Elisa Biagini”, della quale “non c’è dubbio che vada nella direzione auspicabile di un ripensamento delle strategie traduttive”.
L’antologia celaniana di Elisa Non separare il no dal sì (Ponte delle Grazie, pp. 112, 12 €) non era ancora uscita, ma una settimana dopo ricevetti da Fahrenheit-Radio3 un invito a partecipare il 23 novembre, centenario della nascita di Celan, a un dialogo pomeridiano con lei. Confermai subito, pensando che l’avrei, se non rivista, almeno risentita, ma all’ultimo venni depennato dalla conduttrice per ristrettezza di spazio-tempo.
Impegnato sul fronte Reitani , diversi giorni dopo venni informato da un collega di uno streaming celaniano del 23 novembre sera (qui), dove li vidi appaiati che si chiamano per nome, si danno del tu…
Il giorno dopo, parecchio scosso, acquisto l’antologia di Elisa, mi butto sulla prima poesia, Corona: è tempestata di “Noi” in posizione di soggetto (sei in 18 versi brevi), notoriamente obbligatori in tedesco ma da noi no. Vado perplesso a fondo testo per capire: non ci sono note, solo una paginetta con “Gli originali tedeschi sono tratti dai volumi: Mohn und Gedächtnis, Deutsche Verlag-Anstalt 1952/1982”… Alt! A parte che sarebbe Verlags, perché due date? La stampa è durata 30 anni? No. Sono due edizioni? No. Torno al frontespizio, e vedo lo stesso titolo con “©1952/1982”…
Furente, vorrei scagliare il librino contro il muro, ma torno alla paginetta per verificare: c’è una sfilza di “edizioni di poesie e prose consultate” che termina con: L. Reitani, ‘Siamo una sola carne con la notte’. La poesia di Paul Celan, in Sul crepaccio. Riflessioni/traduzioni, Anterem ed. 2014”. Chiedo immediatamente al prestito interbibliotecario una scannerizzazione, che mi arriva due giorni dopo: così il 4 dicembre entrai nella mente di Reitani.
Il saggio, uscito originariamente sull’annale 2012 di “Comunicare letteratura”, parte d’emblée con Notturne raggrinzite: la scorro veloce fino al v. 18, quello con cui Reitani sul Sole24ore chiudeva l’elenco di “soluzioni antiquate” sbottando: “persino pagano il fio”. Lui invece traduce “scontano la colpa che animò la loro origine, / la scontano verso una parola / che esiste a torto, come l’estate”. Abbonandogli pure un esiste per sussiste-besteht, che significa “verso una parola”?
Lo spiega evocando l’occupazione nazista della Bucovina, con strascico di pogrom e deportazioni: “In questa landa della storia il solo paesaggio possibile è l’inverno, e l’estate è una menzogna, al pari della fede in un Dio onnipotente e salvifico”. Per la proprietà transitiva, rovescia cioè la similitudine in “l’estate esiste a torto, come una parola”, ritraducendo però torto con menzogna e parola con fede in Dio.
L’operazione non è indolore, anzitutto perché si allenta il rapporto speculare fra torto e colpa, e poi perché, anche in conseguenza di ciò, la parola si allaccia a “quel Dio che si fece parola, verbo, e rappresenta l’origine e il fine di tutte le cose”. Reitani pensa al dio ebraico o a Dio tout court, solo che utilizza una terminologia neotestamentaria (crasi di Gv 1, 1 “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” e Gv 1, 14 “E il Verbo si fece carne”) e persino tomistica (invece che la fine di Apocalisse 1, 8, il fine di Summa contra Gentiles III, xvii, 1).
Malgrado gli sbandamenti, ora si evince il senso ascoso di “scontano la colpa verso”: pagano la colpa a, che poi è la versione di Bevilacqua nel Meridiano Celan 1998, cui Reitani aggiunge l’interpretazione della parola come equivalente a Dio, per continuare a tradurre: “Una parola – lo sai: / un cadavere. // Lasciaci lavarlo, / lasciaci pettinarlo, / lasciaci volgere / il suo occhio al cielo”, vv. 21-26. Dio è morto e gli fanno il funerale, previo ok di un non specificato tu. Così sarebbe, se il lasciaci + infinito non fosse come in inglese formula imperativa di prima persona plurale e Schuld abtragen an non significasse pagare la colpa “per” qualcosa, mica “a” qualcuno (v. dizionario dei Grimm e di Wahrig).
Quale sarà mai allora la parola? Celan aveva già risposto quattro anni prima, nel 1948, in Tardo e profondo, dove a parlare sono gli ebrei stessi contro i persecutori che “gridano: voi bestemmiate!” e macinano nei lager “la bianca farina della Promessa”, ebrei che all’accusa replicano “Lo sappiamo da tanto”, fin dall’origine, “Lo sappiamo bene, / venga la colpa sopra noi”. Ed è tutto chiaro: la parola è la Promessa di un Messia ridotta a cadavere, ma con gli occhi rivolti al cielo (ultima a morire?).
Reitani intanto prosegue “Paul Antschel divenne Paul Celan. L’uomo si fece poeta. Con un centro segreto […] la Shoah. Celan non la descrive, non la evoca, non la racconta. La vive. Anche quando le parole sembrano musica e scelgono la forma nobile dell’arte tedesca, l’arte della fuga, per parlare di morte”. Dopodiché traduce Fuga di morte, dove Celan non solo la evoca, ma la racconta descrivendone persino la pratica da poco nota di far ballare i morituri.
Giusto il rinvio all’arte della fuga: non si capisce però perché l’aguzzino del lager, che Celan epiteta di Meister tedesco, in Reitani diventi “mastro”, “forma antiquata per maestro, ancora nell’uso in alcune qualificazioni professionali: m. carpentiere, m. falegname” (Treccani), quando Celan aveva raccomandato di tradurre “maestro” perché sottinteso di musica (cfr. il mio Celan in Italia, Prospero ed. 2020, p. 79).
La mia traduzione della Fuga è la più tartassata in assoluto, anzitutto per la “soluzione lessicale antiquata” del v. 5 “gioca coi serpi” al maschile, solo che Treccani: “sèrpe, s. f. (letterario o regionale anche masch.)”, non antiquato.
Il v. 5 in Reitani suona: “Nella casa ci abita un uomo che gioca coi serpenti”, ma la relativa nell’originale non c’è, ché altrimenti in der spielt mit den Schlangen il verbo starebbe in fondo (der quindi è “lui”).
E che ci fa quel “ci” assai poco nobile da italiano substandard diastrarico se non diafasico, e comunque popolaresco, quando nel verso prima in den Lüften, che in tedesco standard significa “in aria”, per improvviso scarto di registro stilistico è reso con un nobilissimo ma men che improbabile “nei venti”?
Casa per Haus è corretto, e ricompare due versi dopo in tritt vor dem Haus tradotto invece con un “si affaccia alla porta”, non solo errato lessicalmente perché treten indica moto-varcare e non stasi affacciarsi, ma anche irrispettoso della ripetizione, consostanziale in Celan al fugato (e a portata di mano nostra: “esce dalla casa”).
Distratto in casa sua, Reitani è attento in casa mia tanto da imputarmi discontinuità nel tradurre la stessa espressione ai vv. 16 e 18, dove l’aguzzino comanda agli ebrei stecht tiefer ins Erdreich e stecht tiefer die Spaten, da me resi con “scavate di più il terreno” e “affondate di più le pale” perdendo così la ripetizione di stecht. Il guaio è che stechen è sia intransitivo come al v. 16 sia transitivo come al v. 18, e in italiano non c’è un verbo con analoga qualità. Lui invece se la cava con “scavate più a fondo” e “più a fondo le pale”, dove manca non solo la continuità ma pure il verbo (e il terreno).
Al v. 17 in compenso traduce er greift nach dem Eisen con “estrae il pugnale”, e al v. 30 er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau con “ti centra col piombo preciso ti centra il suo dardo” compiendo il miracolo di far compiere all’aguzzino la stessa operazione con tre armi diverse: pugnale-pistola-arco. In realtà è “estrae il ferro” inteso come pistola e “ti centra con palla di piombo ti centra preciso”.
Il mistero della trinità ha però una spiegazione: il v. 29 termina con sein Auge ist blau/“il suo occhio è azzurro” e il nostro v. 30 con genau/“preciso” – ma Reitani voleva tener la rima e presumeva d’esserci riuscito mutando l’occhio in sguardo (che però non ha colore) e la pallottola in dardo (NB l’aguzzino avrebbe dovuto avere quattro mani).
5 dicembre, altra data fatidica poiché scoprii che Reitani sull’Indice mi attaccava di nuovo negli stessi termini e un mio ex-studente mi difendeva (qui). A preoccuparmi fu soprattutto costui, poiché rimembrando i bei tempi linkava un mio vecchio pezzullo, dove a proposito di Hölderlin sostenevo esserci “ancora molto da fare se l’ultimo italiano, e primo a tentar la rima, dice di averlo fatto ‘naturalmente al prezzo di una inevitabile alterazione del lessico’”.
Ormai ero entrato nella mente di Reitani, e avrei voluto uscire all’istante, ma non potevo più: leggendo il mio link, si sarebbe riconosciuto e mi avrebbe accusato di non menzionare la fonte – ed io ero certo di non essermela inventata, quanto ignaro del luogo donde l’avevo tratta
Tento la fortuna e googlo la frase: tre link, ma tutti del mio pezzullo. L’avrò letta a suo tempo in Sormani sul Meridiano Hölderlin da lui curato, ma a parte che è un malloppo di 2000 pagine, era sabato, ponte dell’Immacolata fino a mercoledì, aggiungici un paio di giorni perché mi segnalino la disponibilità (grazie Covid!)… Torno su google, digito “Hölderlin Reitani” sperando in qualcosa, e trovo più segnalazioni di Hölderlin Übersetzen, Folio Verlag 2020, raccolta di saggi dove, dato il titolo, difficile che la frase non ci sia. La traduco in tedesco e googlo: niente. Smanetto, trovo l’indice e scopro che un saggio di quelli l’ho già letto: Fehl und Fahnen. Googlo, mi si apre questo documento (qui). Lo divoro in diagonale: parla della poesia Vocazione del poeta che conosco a malapena… proseguo finché incrocio Metà della vita che avevo tradotto e postato in rete.
Reitani tratta solo della chiusa, dice che da quando il primo editore von Hellingrath interpretò Fahnen-bandiere come Wetterfahnen-banderuole, tutti gli si accodarono: “Delle forse 30 traduzioni in italiano ce n’è solo una che non rende Fahnen con banderuole. È la mia”. A supporto cita un brano da Un intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry: “Ricordo una sera d’inverno, quando dopo il lavoro ci trascinavamo malamente al passo dall’area I.G.-Farben al lager sotto lo snervante links zwei, drei, vier dei kapò, e io davanti a un edificio in costruzione notai una bandiera sventolante [wehende] per Dio sa quale motivo. Im Winde klirren die Fahnen [Al vento stridono le Fahnen], borbottai associando meccanicamente”.
Fin qui cita Reitani, Amery prosegue raccontando di aver ripetuto il verso ad alta voce senza però provare una qualche emozione come sempre gli era successo, e conclude: “La poesia non trascendeva più la realtà. Stava lì come un mero enunciato oggettivo”. Reitani invece, dopo la citazione: “Per Améry questo verso ad Auschwitz è solo suono vuoto. Proprio in base a questo esempio egli vuole dimostrare che le poesie nel lager erano vane. Lo scenario che evoca è però in netto contrasto con la sua propria tesi. Ché dove mai ‘stridono’ le bandiere se non ad Auschwitz? Il verso di Hölderlin si conferma proprio in una situazione storica dove ogni bandiera è una menzogna che ‘stride’”.
Ritorna la menzogna, come un incubo iperrealistico. Reitani correva molto già con la parola degli ebrei, di fantasia e paralogica. Qui ad es: “in una situazione storica” – storica lo aggiunge lui, ché la situazione nella chiusa è meteorologica: “al vento”, siccome senza vento una banderuola non stride.
Di più: Reitani riporta la “variante” Wetterfahne, ma un suo sinonimo altrettanto in uso è Windfahne (come da noi segnatempo/segnavento). Anche la bandiera di Auschwitz ha a che fare col vento: sventola, e pure ciò ha favorito l’associazione meccanica di Emery. Quanto a Hölderlin, non sottovaluterei il caso analogo di Zeiten-tempi per Jahreszeiten-(tempi dell’anno)-stagioni, frequente in lui perché risolutivo di questioni metriche.
Reitani invece preferisce premere una seconda volta sui pedali della menzogna e della Shoah, con in più un pizzico di internazionalismo proletario: tutte le bandiere sono menzogna, e quindi non sventolano ma stridono. Stridono cioè rispetto alla realtà, in quanto la contraddicono, ci fanno a pugni – in italiano, mentre l’onomatopeico klirren-tintinnare/cigolare di metalli non ha in tedesco tale estensione metaforica: può riferirsi a cose, a persone (portanti un’armatura), ed eccezionalmente a parole quanto al loro supporto fonetico, non già al significato, sicché un tedesco mai direbbe qui la menzogna klirrt, ma casomai in Widerspruch steht/è in contraddizione, con la situazione storica appunto.
Come reagiranno allora i tedeschi davanti a questa pagina di Reitani? Se fanno le vacanze al Garda, penseranno che è italiano, altrimenti un marziano. Ma questo è l’ultimo dei miei problemi, mentre il primo è di uscire dalla sua mente e il secondo di evitare la fine di Craig che, fecondata via John Maxine, si trovò incastrato nella mente della loro figliola.