Francesco, un contestatore pieno di speranza
di Marco Dotti
«Non voleva ridurre il vangelo a misura d’uomo. Non voleva essere “ragionevole”. Apparteneva a quella razza di uomini che non vogliono sapere nulla e che il mondo finisce per spezzare finché sono sulla terra, ma che riescono vittoriosi al di là della morte. San Francesco d’Assisi è mai stato più vivo di oggi, a differenza dei grandi personaggi del suo tempo?».
Così, nel suo Frère François, pubblicato dalle Editions du Seuil nel 1983, lo scrittore cattolico Julien Green, ammirato da Walter Benjamin e massimamente amato da Paolo VI, concludeva un affresco dedicato al Vangelo come forma vitae del santo.
Un santo «umanizzato», sottratto all’aneddoto, ma proprio in forza di questo ancor più legato a quel carisma che, secondo Green, avrebbe potuto, in nome del doppio movimento «altissima povertà – umanissima speranza», contribuire al progetto di un complessivo «reincanto del mondo».
Francesco, concludeva Green, «voleva salvare il mondo, ma ha salvato la speranza». A Francesco si sono rivolti in tanti e la letteratura non è stata immune – nei suoi picchi e nelle sue cadute – dal richiamo attualizzante del santo, specie quando anche nel suo ambito apparentemente angusto e formalizzato si è ripresentata con forza una domanda per tanti, troppi anni elusa in altri contesti, non necessariamente più vitali: «Che fare?».
Quella domanda a cui molti – lo scriveva l’ultimo Pier Paolo Pasolini, nei rifacimenti della Meglio gioventù – hanno sovrapposto e infine sostituito un più rassicurante (per loro) e irridente (per tutti noi) «che farci?», seguito dalla conseguente alzata di spalle. A un rigore francescano sembrano indubbiamente ispirarsi anche i versi del suo Appunto per una poesia in terrone, in cui il poeta bolognese scrive: «Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo. (…) Nessun compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari ». Ma davvero Francesco è il santo della speranza oppure, come lo stesso Pasolini suggeriva, è ai suoi attimi di solitaria disperazione che bisogna guardare? Sarebbe dunque ancora, sempre e soltanto per noi e mai per l’altro, che «si spera»?
Ecco dove si pone, per Green, la questione del «che fare »: oltre il dubbio tecnico, va salvata la speranza. Ma quale speranza? A un secondo polo delle riflessioni su Francesco sembra così collocarsi la piccola, ma interessante variazione e in corso d’opera di Marguerite Yourcenar. Interrogata da Matthieu Galey proprio sul «che fare?» dinanzi ai problemi del mondo è ancora a Francesco e al tema della speranza (che in questo caso coincide con una non-speranza) che la Yourcenar fa ricorso. Non l’attesa in sé, non lo sperare qualcosa – espoir a cui inevitabilmente consegue il désespoir – ma una esperance senza oggetto che rinasca dopo che ogni attesa è stata consumata. Il passaggio da esperance a espoir è reso, in tutta la sua tensione, dal contrario di espoir che è désespoir ovvero disperazione, mentre non c’è «disperanza ». Per questo esperance sembra rientrare tra quelle parole che, in qualche modo, oppongono resistenza, non cedono.
Scrive la Yourcenar: «Non ci si salva da soli. (…) Francesco è il maestro di tutti, (…) il contestatore di tutti i contestatori, colui che gettava le sue vesti in faccia al padre, ricco mercante di stoffe, che amava la povertà per se stessa come alcuni di noi imparano nuovamente ad amare. E non dimentichiamo che Francesco si rotolava nudo nelle spine per vincere le debolezze della carne, cosa che la maggior parte di noi non accetterebbe dì fare. Ma lo capisco: voleva essere libero anche nei confronti della propria carne ». Francesco, prosegue la Yourcenar, ci indica una necessità: «Bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana qual è, accettare i suoi limiti e i suoi rischi, avere un rapporto diretto con le cose». Anche se è impossibile, «bisogna provare a farlo. Nella Bhagavad-Gita, c’è un passo in cui Krishna dice a Arjuna: “Lotta, come se la lotta servisse a qualcosa; lavora, come se il lavoro servisse a qualcosa”. E vicino a noi ricordiamo il motto di Guglielmo d’Orange: “Il n’est pas nécessaire d’espérer pour entreprendre”».
Non è necessario sperare per intraprendere. È a questo grumo di domande che, pur nella divergenza apparente delle letture, ogni volta rimanda quel Francesco che, come voleva Green, «non è mai stato più vivo di oggi». Forse mai come oggi, infatti, sottolinea Giovanni Miccoli nella premessa al suo Francesco. Il santo di Assisi all’origine dei movimenti francescani (Donzelli, Roma 2013), assistiamo a una attenzione particolare, persino «inedita come fatto di massa per i tempi recenti». Attenzione rivolta proprio al carisma del Santo e alle implicazioni del suo modo di essere e del suo messaggio. Il lavoro di Miccoli riprende alcuni suoi saggi già editi in volume nel 1991, per i tipi dell’Einaudi, sotto il titolo Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana. Viene qui aggiunta una interessante e stimolante introduzione di poche pagine, titolata Otto secoli dopo: il santo e il Papa, sulla quale è impossibile non soffermarsi. Che anche in apertura di un corposo e rigoroso saggio di storiografia ci si ponga la domanda è, evidentemente, segno che la domanda non può essere elusa: perché ancora Francesco? Dopo che il 13 marzo scorso, in quinta votazione, il Conclave ha eletto papa il gesuita Jorge Mario Bergoglio e questi ha scelto proprio il nome «Francesco», la questione si carica di nuove intensità. A fronte del carisma e della popolarità, infatti, in otto secoli nessun papa si era mai arrischiato a assumere quel nome.
A quali aspetti del Francesco storico guarda Bergoglio? Quali le ragioni profonde della scelta? Dove affondano le proprie radici? A quali speranze – essendo «speranza », nella sua doppia declinazione, una delle parole chiave di questi suoi primi mesi di pontificato – guarda? Come leggere, infine, le parole del gesuita Pedro Arrupe che, nell’agosto del 1976, al congresso eucaristico internazionale di Filadelfia ammoniva: «il mondo d’oggi ha bisogno di un nuovo Francesco»? Domande che rimangono sullo sfondo complessivo di un lavoro di alta storiografia come quello di Miccoli ma che, non di meno, proprio perché oltre alle cose esistono le situazioni e i contesti, non cessano di interrogare il lettore, specialista o non, che dal libro di Miccoli può trarre non poche, sicure indicazioni per affrontare seriamente una riflessione sul tema della povertà come forma vitae.
Sabato 16 marzo, in Aula Paolo VI, davanti ai rappresentanti dei media, il nuovo Papa offriva una ricostruzione semplice, breve, persino autoironica e apparentemente di basso profilo della sua scelta: «Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero».
Il santo viene così letto attraverso tre aspetti della sua vicenda: Francesco è uomo di povertà; Francesco è uomo della pace; Francesco è uomo che ama e custodisce il creato. Ma Bergoglio sembra auspicare qualcosa di più e di diverso riferendosi al desiderio di una Chiesa povera e non solo accanto ai poveri («come vorrei una Chiesa povera e per i poveri! »).
Altre domande, altre questioni: che cosa significa «una Chiesa povera»? Domande che rimangono aperte, così come lo erano per San Francesco che, abbandonando l’abito da eremita che pur era riconducibile a una categoria sociale e indossandone uno senza garanzie, simile a quello dei comuni laboratores, si rivolse per tre volte al Vangelo, trovandosi finalmente dinanzi tre passi (così almeno stando alla Legenda Maior S. Francisi di Bonaventura: Matteo 19,21; Luca 9,3; Matteo 16,24) che gli fecero dire: «Questa è la nostra vita e la nostra regola».
tysm literary review
vol. 12, no. 20
OCTOBER 2014
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