philosophy and social criticism

Franco Rella: «Pericolosi e stranieri, siamo tutti in esilio»

di Marco Dotti

Gli scrittori, insegnava Hans Urs von Balthasar, «sono creatori di luoghi aperti, dove emergono problemi fondamentali e si spalancano finestre». Abbiamo bisogno di finestre aperte, nel chiuso di un discorso pubblico sempre più arroccato dietro muri e confini.

A lungo professore di estetica alla facoltà di Designi e Arti dell’Università IAUV di Venezia, Franco Rella pratica la filosofia come un luogo di frontiera, di scambio e contaminazione fra territori. «La mia ipotesi», racconta, «è che siamo e ci muoviamo in uno spazio di mezzo, sul confine di ciò che è stato e di ciò che sarà di noi». Attraversiamo un territorio su di un treno in corsa e, quando ci sporgiamo dal finestrino, vediamo immagini, ascoltiamo parole, incrociamo vite.

Oggi, che migrazioni,e conflitti sono diventati la cifra del nostro tempo, Rella invita a guardare la dimensione dell’esilio come «figura di uno stato esistenziale o mentale». Un territorio dell’umano che dobbiamo – tutti – attraversare.

Pericolosi e stranieri

Il suo Immagini e testimonianze dell’esilio (Jaca book, 2018) si apre con una riflessione sull’ “essere nudi di fronte al mondo”. 
Credo sia una condizione legata all’esilio. L’esilio è una dimensione metafisica, non fattuale o storica. Ed è la dimensione di chi si sente sradicato, direbbe Simone Weil, nell’assenza di luogo. Esilio: la condizione in cui tutti, prima o dopo, in qualche situazione della nostra vita, ci troviamo. Una condizione che sembra poter lacerare la nostra pelle e fluire dentro di noi. Come se fossimo scorticati dinanzi all’urgenza del mondo, delle cose, degli esseri che ci stanno accanto. Simone Weil forse ha colto anche questo, quando ha parlato della sventura che è la dimensione in cui il mondo stesso entra dentro di noi in un momento in cui ci troviamo completamente indifesi.

Franz Kafka è un figura emblematica di questo esilio metafisico…
Kafka è l’uomo dell’esilio, forse come nessun altro. Lo afferma più volte in una lettera a Milena, quando dice di sé che è l’uomo delle foreste, l’uomo al di fuori, l’uomo altro. Oppure, nel Castello, c’è una scena in cui arriva e la parola dell’ostessa che lo accoglie è: «lei è totalmente straniero e lei non è nulla». Ciò nonostante – questa è la seconda parola che lo raggiunge – «lei è assolutamente pericoloso».

Nudità e pericolo, una situazione che si ripropone quotidianamente sotto i nostri occhi…
L’esule è totalmente indifeso, nudo di fronte al mondo e al tempo stesso è percepito come una totale alterità, in sé pericolosa. Nel mio libro non si parla, se non nella parte finale, della situazione attuale e di ciò che vediamo ogni giorno, ma è certo che questa dimensione dell’esilio, come vissuta da Kafka, ricorda moltissimo la dimensione di questi dannati della terra che girano il mondo. Totalmente indifesi, totalmente nudi, letteralmente nudi e nello stesso tempo percepiti come totalmente altri e totalmente stranieri. Un nulla, come dice l’ostessa a Kafka, che è al contempo pericoloso.

Si potrebbe supporre che Kafka parli da una costellazione superata, qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle. Un mondo che non c’è più…
Invece ci troviamo esattamente nell’esilio di cui ci sta parlando. Stiamo vivendo questa condizione, anche perché la condizione dell’esilio è il vero territorio in cui l’uomo si trova confrontato faccia a faccia con se stesso e con il mondo. Ed è una situazione di grande tensione. Quella stessa nudità, questo essere spogliato di fronte al mondo è la condizione dell’essere indifeso, che prova vergogna. Non a caso, Milena scrive in una lettera a Max Brod che Franz, ossia Kafka, è come un uomo nudo in mezzo a uomini vestiti. Se dobbiamo concludere su cosa sia l’esilio non ci sono parole migliori: essere nudi in mezzo a gente vestita.

Sembra una profezia…
George Steiner ha detto che Kafka, in qualche modo, h prefigurato Auschwitz. L’aveva visto. Un racconto come Nella colonia penale è ciò che di più vicino all’orrore di Auschwitz che sia mai stata scritta. Ma Kafka ha visto anche la condizione degli spogliati di oggi. Spogliati di ogni bene, di ogni storia, di ogni identità e proiettati in un mondo parallelo, a fianco di quelli che predicano il post-umano (diventare simili a dei)…

Alto e basso, convivono in un uno stesso schema sociale la nudità di una condizione per molti aspetti disumana e la superbia della condizione post-umana…
Il post-umano è la mitologia del superuomo che dispone di se stesso attraverso le tecnoscienze. Eritis sicut Deus, come sta scritto nella Bibbia. Ma accanto a questo mondo dove emerge una simile mitologia, c’è il mondo degli spogliati, un’umanità tormentata, dilabrata, ferita ma in cui si può riconoscere il profilo più profondo dell’essere umano e delle cose che lo costituiscono. Questa umanità non ha mitologia, né voce.

Nei territori dell’umano

Il post-umano è un troppo pieno, un pieno che cancella quello spazio interstiziale, quello Zwischen come lo chiamava la Arendt, in cui nasce la relazione. 
Al contrario, l’esilio come condizione è qualcosa che si avvicina allo svuotamento, alla kenosisPer quanto possa apparirci paradossale, lo svuotamento è la condizione che crea spazio per la relazione… Il post-umano, nella pretesa di superarle, rende statiche le frontiere. L’esilio, al contrario, le mette continuamente in crisi… 

La parola limite, confine, frontiere, interstizio torna continuamente nel mio lavoro e nei miei libri. L’interstizio è stare sulla linea di confine, essere qui e altrove nello stesso tempo. Oggi come oggi, il confine che un tempo veniva stabilito come luogo di separazione si sta ibridando. Diventa un luogo indefinito, una sorta di atopos, di atopia. Il confine è un non-dove, un luogo privo di luogo, ma dove nello stesso tempo è lo spazio dove possono coesistere i transiti più straordinari. Certamente la frontiera nella storia è stato l’ambito di conflitti, massacri e violenza. ma è anche il luogo in cui si sono fatte grandi scoperte spirituali. Parlo di scoperte di dimensioni inimmaginabili, giunte sempre quando si è arrivati al punto in cui ci si sa davvero mettere di fronte all’alterità. Questa dimensione della frontiera, che è sempre stata vissuta come transito e contaminazione, oggi si radicalizza. Da un lato, assistiamo al t

entativo di chiudere la frontiera, ed è quello che stanno facendo i cosiddetti “sovranisti”. Ma nello stesso tempo, dobbiamo capire che quest’ansia di chiudere la frontiera mostra come la frontiera stessa sia diventata molto porosa. L’ossessione della chiusura indica che, in realtà, questa chiusura non potrà mai avvenire. Oramai ci troviamo confrontati con un’umanità che si muove, che ci attraversa, che respingiamo e che accogliamo… La dimensione della frontiera è ormai irrefutabile ed è diventata il luogo elettivo del nostro tempo.

Un muoversi sopra e oltre la linea, come la scrittura, che è un movimento di transito fra interstizi…
La scrittura autentica – non la scrittura accademica o espositiva – in cui chi scrive si mette in gioco e si espone al rischio è uno strumento straordinario di scoperta e, nello stesso tempo, di sprofondamento in se stessi. La scrittura come scoprirsi – torniamo al tema della nudità – e come scoperta – qui, ci si presenta il tema dell’alterità – di luoghi inaspettati e inattesi, ma che ci abitano da sempre. Come se scrivendo entrassimo in territori nuovi, capendo che quei territori sono stati nostri da sempre.

In Oltre il confine, Cormac McCarthy scrive che anche Dio ha bisogno di un testimone. Oggi, chi testimonia il mondo? Gli intellettuali? Gli scrittori? 
La testimonianza è una responsabilità. Tutti dobbiamo testimoniare il mondo che ci circonda, come se il mondo senza la nostra testimonianza potesse addirittura sparire. Lei prima ha usato la parola greca kenosis, intesa come un luogo in cui si scopre lo svuotamento di tutto, ma non di un’umanità residua. Ebbene, persino Cristo sulla croce ha chiamato Dio a testimone quando ha gridato: «perché mi hai abbandonato?». Dio stesso divenne testimone di quel momento cruciale. La testimonianza è necessaria. Se rileggiamo la conclusione di quel testo immenso che è Moby Dick di Melville. capiamo: la figura della nave che si inabissa e porta con sé persino un frammento di cielo e Ismaele – che nella tradizione biblica era il figlio bastardo di Abramo, avuto con Agar – che galleggia su una bara… Tutt’attorno gli squali rimangono con la bocca chiusa, come se fosse serrata da lucchetti e non lo possono uccidere. Lo scrittore indica che qualcuno doveva sopravvivere, qualcuno doveva raccontare testimoniando ciò che era successo. Il racconto dà una consistenza alla realtà, che altrimenti la realtà non avrebbe.

Senza sovrapporsi, ma compenetrandola…
Proprio all’inizio della Nausea, Sartre scrive che in qualche modo è la storia quella che ci mette in rapporto con il mondo e con la realtà. La storia che raccontiamo, la nostra testimonianza. Il mondo, senza storie, non avrebbe la consistenza che ha. Non sarebbe mondo, senza gli infiniti racconti che noi facciamo a noi stessi e agli altri.

Lontani dal luogo comune

C’è una scrittura che attraversa il mondo e diventa testimonianza, ma c’è anche un “racconto” che pretende di rendere statico il mondo, sigillando le frontiere, amplificando il luogo comune. Flaubert avrebbe parlato di “stupidità”… Oggi vince il luogo comune, lo stereotipo, la stupidità diventa sistema…
Kundera ricorda che l’Ottocento, tra le tante scoperte che ha fatto, ne ha fatta una cruciale: la bêtise. È un paradosso, ma c’è una verità nelle parole di Kundera. Nessuno aveva mai parlato della stupidità come ne ha parlato Flaubert, che ne tratta come di qualcosa che affonda addirittura il mondo. Flaubert parla di bêtise come parlerebbe del diavolo o del male assoluto. Non c’è che un crimine al mondo, scrive, e quel crimine «è la stupidità, bisogna odiarla con tutte le nostre forze».

Si installa nel luogo comune, lo amplifica e, sotto pelle, passa di bocca in bocca o, oggi, da social a social…
La stupidità, intesa come la intende Flaubert, è male totale, ma al tempo stesso è la banalità del male. Un male che non si riconosce come tale, perché è nascosto dietro le frasi fatte che giustificano qualsiasi orrore e quindi circola liberamente. Da questa constatazione nasce il terribile pessimismo di Flaubert che termina il proprio percorso personale e di scrittore con l’immagine di Bouvard e Pécuchet, due persone che scrivono, scrivono, scrivono come se scrivere fosse un atto autistico senza aperture al mondo.

Lo storytelling in assenza di storie da raccontare: il vuoto…
Se la scrittura perde significato, la bêtise ha vinto. Bouvard e Pécuchet cercano di scrivere su tutto e di tutto e quando uno dei due chiede lumi all’altro, l’altro gli risponde: «scrivi e basta». Anche il ragionamento più acuto, anche il discorso della scienza più esatta se non è in grado di criticare se stesso e di mettersi in discussione innesta una fiducia fideistica che diventa bêtise ovvero l’incapacità di guardarsi in faccia e guardare, anche criticamente, i propri strumenti culturali e intellettuali finisce per consegnare tutti al calderone.

Concludiamo sul tema da cui siamo partiti: la nudità come condizione dell’esilio. C’è anche un credersi nudi, quando invece si indossano abiti di scena…
Anche la nudità è un abito di scena, se diventa il sopracciglio aggrottato del filosofo che giudica, ma evita il contatto con l’umano. Dobbiamo attraversare invece i territori più autentici dell’umano, essere nudi per scoprire, scoprendoci. Aprirci al rischio, pensare.

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TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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