Gli appestati
Francesco Paolella
Pavese. Wilde. Pasolini. Camus. Sono “miti” sempre citati. Marcello Veneziani descrive gli angoli più nascosti nelle loro idee e nelle loro vite e, soprattutto, gli aspetti più sgradevoli al senso comune del lettore medio italiano. E lo fa accostandoli, in questa lunga teoria di cento Impresentabili (sono più di 500 pagine), ad altri autori, del tutto dimenticati o del tutto maledetti, sostanzialmente perché “fascisti”, ma che per lo stesso Veneziani sono stati anche “luminosi oscurantisti”. Non si negano qui responsabilità, errori e, talvolta, pensieri aberranti. Ma non ci si ferma a tutto ciò.
Questo libro è uno dei tanti libri scritti da Veneziani. Qualcuno forse storcerà il naso vedendo che qui ci si occupa di un suo lavoro: Veneziani fa parte di quella serie di autori, giornalisti ecc. “di destra”, ai quali molti fanno fatica a dare retta e ai quali non si dovrebbe, sempre secondo un’opinione ancora diffusa, dare spazio. Con una sufficienza fuori dal tempo, le idee di Veneziani e di alcuni altri vengono ancora trattate come se fossero sporche o contaminate. Non si deve certo crederli delle vittime di un qualche complotto. Di sicuro, però, la storia culturale repubblicana ha convissuto con un buco nero molto ingombrante: la cultura di destra. Per decenni, è stata negata la stessa possibilità logica che la destra, più o meno “fascista”, potesse esprimere una cultura, potesse avere idee alte e produrre libri di valore. Così, inevitabilmente, si è creato un sottosuolo, popolato da pensatori, narratori, poeti e storici sopravvissuti a loro stessi, alla propria sconfitta e alla propria emarginazione.
Ma, come si diceva all’inizio, Veneziani non “canta” soltanto Jünger, Pound o Evola, ma anche Simone Weil, Debord, Sciascia e Mounier. Da ognuno di esseri cerca di trarre qualcosa, un frammento utile a costruire una contro-storia intellettuale, votata a recuperare il valore della tradizione, delle radici, della conservazione. Le voci descritte da Veneziani sono voci solitarie, e tragicamente solitarie. Sono voci contro il mondo. Sono voci di poeti costretti a rimanere nell’oscurità, di filosofi sostenitori di idee “cattive”, di uomini compromessi dalla vicinanza (magari solo “spirituale”) a regimi orrendi. La storia di questo sottosuolo è comunque utile per illuminare con una luce diversa la vita culturale italiana (e occidentale) dell’ultimo secolo. E per mostrare quanto il furore ideologico, le chiusure settarie, le inquisizioni letterarie ci abbiano privato di veri talenti e di qualche genialità.
Non mancano fra questi ritratti alcune opinioni critiche e, in particolare, verso alcuni “mostri sacri” della cultura italiana: Gramsci, Bobbio ed Eco su tutti. Forse soprattutto l’autore de Il nome della rosa è preso di mira qui come un vero “cattivo maestro” nel diffondere pregiudizi e come protagonista di quella selezione preventiva che, per decenni, ha negato alla destra il diritto ad avere una cultura forte e riconoscibile.
I giudizi di Veneziani paiono a volte forzati, ma la sua scrittura “di parte” esprime bene il disagio profondo che molti provano davanti al degrado della vita morale e politica italiana. Degrado delle élites, degrado del dibattito culturale, degrado dell’editoria (per non dire del giornalismo, ormai in agonia). Il suo punto di vista, da “conservatore anarchico”, mostra bene il “nichilismo stanco” in cui siamo immersi, e si scaglia contro la massificazione consumista e narcisista dominante. C’è indubbiamente anche della retorica nelle sue parole e non occorre necessariamente – come invece fa lui – rifugiarsi in giudizi inutilmente apocalittici. I nemici oggi sono per Veneziani l’ateismo e “l’edonismo marx-occidentale”. La perdita delle radici e l’ossessione dell’uguaglianza contro ogni spirito gerarchico, hanno prodotto sono una uniformità depressa. Così Veneziani sembra quasi rimpiangere la stessa, vecchia lotta di classe, sostituita per lui da un culto sterile della diversità. Del vecchio “Intellettuale collettivo”, devoto al PCI e che minacciava e scomunicava con facilità anche intellettuali amici, come Pavese, non resta che la decrepita cultura dell’antifascismo, ormai antistorica e persino grottesca. In Italia non ci sono conservatori, ma soltanto “moderati”. La cultura liberale è ufficialmente ovunque e ovunque debole. Dall’altra parte, non ci sono più comunisti, ma solo antirazzisti e antifascisti (e vedremo nella prossima campagna elettorale quanto spesso torneranno questi “temi”). L’americanizzazione della vita culturale e sociale italiana (fatta di “demagogia” e “plutocrazia”, altro obiettivo polemico ricorrente nel libro) non lascia più spazio ai “corpi estranei”. E’ già qualcosa poter riconoscere, purtroppo solo a posteriori, il fatto che “conservazione” non significhi sempre e per forza ottusità e pensieri volgari.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
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