Il dio ermafrodito
di Raffaele K. Salinari
«Che altro è, Signore, il tuo vedere, quando mi guardi con occhi pietosi, che il mio vederti? Vedendomi, mi concedi di poterti vedere, tu che sei il Dio nascosto. Nessuno ti può vedere, tu che sei il Dio nascosto. Nessuno ti può vedere, se non gli concedi di esser visto. Il tuo esser visto è il tuo vedere che ti vede. Vedo in questa tua immagine quanto tu ti sei abbassato, Signore, per mostrare il tuo volto a tutti quelli che ti cercano. Mai chiudi gli occhi; mai li distogli e, anche se mi distolgo io da te quando mi volgo completamente ad altro, tu non muti, per questo, né gli occhi, né lo sguardo».
È l’anno 1453; quell’anno, il 29 maggio, Costantinopoli cadeva sotto i colpi dei cannoni ungheresi di Maometto II e Niccolò da Cusa scriveva la sua riflessione sullo sguardo divino nel De visione dei ispirandosi al Polittico di Gand del pittore fiammingo Rogier van der Weyden. In questa opera lo sguardo del Cristo sembra seguire lo spettatore ovunque, fin nei recessi della sua stessa anima. Per il mistico Cusano, come per Meister Eckhart, Dio è colui che tutto vede ma che, proprio per questo, deve a sua volta essere visto: la creazione ri-guarda il Creatore: «L’occhio con il quale io guardo Dio, è lo stesso occhio con il quale Dio guarda me; il mio occhio e quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere, e riconoscere ed amare».
Per Eckhart dunque, vedere è sempre Vedere l’Uno nell’uno, cioè attivare un gioco di sguardi perspicui che riflette l’Uno nel molteplice ed il molteplice nell’Uno. Anche per Cusano è la visione che dispiega l’Essere sino ai suoi limiti essenziali facendolo tornare all’Unità primigenia con il Non Creato, l’Universale indifferenziato al di là del tempo e dello spazio, immerso nell’eternità del vuoto essenziale.
Il muro del pardiso
E allora, cosa separa ogni singolo sguardo da questa visione ricongiungente? Perché pur camminando ogni giorno nell’anima del Mondo noi non ne percepiamo la bellezza? Quale siepe dell’infinito «dell’ultimo orizzonte il guardo esclude»? Cusano avanza un’immagine suggestiva: è il «Muro del Paradiso» che nasconde Dio alla vista degli uomini; eretto dalla coincidenza dei contrari, i suoi cancelli sono difesi dal più alto spirito della Ragione, che ne impedisce l’accesso sinché non viene sopraffatto (De visione Dei 9,11).
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Giasone deve condurre la nave oltre le rocce Simplegadi che, sbattendo l’una contro l’altra, ostruivano l’accesso ai Dardanelli: anch’esse metafora materiale delle dualità che impediscono il fluire della vita che non sia in grado di ricomporle.
Sono dunque le coppie dei contrari (vita-morte, essere-non essere, bello-brutto, buono-cattivo…) che, legandoci ai fenomeni di una realtà mutevole, impediscono di scorgere l’Unità tra tutte le manifestazioni del Mondo, e quindi spingono l’essere ad azioni distruttive, o di difesa, a seconda di circostanze che dovremmo invece poter vedere come parti di un Tutto che ci ri-comprende.
Ma esiste, da sempre, una figura simbolica, un monomito, che ipostatizza il superamento dei contrari e ci rimanda così, col suo significato, alla relazione originaria tra creatore e creazione: l’androgino.
La sua figura nasce dai miti cosmogonici che si ritrovano in tutte le culture: quando all’inizio dei tempi il cielo e la terra erano una cosa sola e fu necessario separali per creare il mondo. Essi erano maschio e femmina appunto, intimamente uniti. Ritroviamo questo racconto dalla Teogonia di Esiodo, all’Edda nordica passando per le cosmogonie egiziane e babilonesi sino a quelle polinesiane.
Nell’interpretazione della Genesi data dal Midrash Rabba (8,1) l’androgino è l’essere originariamente creato: «Dio creò l’umanità a sua immagine, ad immagine di Dio egli la creò; maschio e femmina egli la creò». Alla domanda su quale fosse questa immagine divina, la scuola rabbinica risponde chiaramente: era una immagine androgina. Quella «e» che congiunge maschio e femmina, esprime infatti una vera e propria compresenza tra la parte maschile e quella femminile, che solo in seguito verranno separati dando vita alla dualità primigenia che la relazione erotica cercherà sempre di ricomporre.
Al seguito di questa scissione seguirono tutte le altre che cagionarono la cacciata dal Paradiso e la conseguente erezione di quel «muro dei contrari» che ci esclude dalla vista del Volto: il nostro stesso volto originario.
Eros il primo dio
Le divinità egiziane, prima di quelle greche ed ebraiche, furono ermafrodite: lo è Hapi, il dio del Nilo, l’altra è Mut, la Grande Madre dotata insieme di organi sessuali maschili e femminili, rappresentazione della natura naturans. Queste due divinità rinviano al primordiale dio solare Atum che, mediante masturbazione, o semplicemente sputando, crea la prima coppia della cosiddetta Grande Enneade, Nut e Geb, cielo e terra. Il mito narra che se ne stavano sempre uniti e impedivano alla vita di germogliare, così Atum ordinò di dividerli.
Secoli dopo, Platone, nel Convivio (178), fa sostenere a Fedro che Eros: «È annoverato tra i più antichi dei, e questo è un onore. Di questa antichità abbiamo una prova: Eros non ha né padre né madre, e nessuno, né in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito». E dunque anche lui è androgino e, come il Dio della Bibbia, crea una razza di creature a lui pari che poi, per volere di Zeus, padre-padrone degli dei e degli uomini, saranno ridotti ai due generi così come li conosciamo.
Nello stesso dialogo, infatti, il filosofo fa narrare ad Aristofane questo mito: «Nei tempi andati la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c’erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l’ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. […] Finivano con l’essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dei e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo. Allora Zeus e gli altri dei si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza.
Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. Io credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. […]
Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra. Si abbracciavano, si stringevano l’un l’altra, desiderando null’altro che di formare un solo essere. […] E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l’uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza.
E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell’uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario. […] Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l’anima sua metà, recuperando l’integrale natura di un tempo».
Questo concetto lo troviamo anche nel Cantico dei Cantici, evidenziato dal cabalista Giuseppe Abramo, nell’introduzione del suo pregevole studio. Dopo aver ricordato che nel Talmud è detto che «Tutto ciò che Dio ha creato in questo mondo, l’ha creato maschio e femmina», osserva: «Questo correlarsi di parti, questa affermazione che la polarità essenziale di tutta l’esistenza è quella maschile-femminile, nella Cabala è contenuta nelle parole, peraltro prese a prestito dal Talmud, Due che è quattro. Ci troviamo di fronte ad un sistema nel quale l’Uno diventa due, che in realtà è quattro, che si unisce diventando due, il cui scopo è di rivelare l’Uno».
Anche nello Zohar, il Libro dello splendore, il testo cabalistico più misterioso, si dice che «ogni anima e ogni spirito, prima di penetrare in questo mondo, sono composti da un maschio ed una femmina uniti in un solo essere».
Ermafrodito e Dioniso
Ovidio, nelle sue Metamorfosi (Libro IV), narra il mito della nascita di un altro personaggio che discenderebbe direttamente da questa concezione platonica del genere umano; di un essere cioè appartenente ad entrambi i generi, scaturito dalla relazione tra una Ninfa ed il bellissimo figlio di Ermes ed Afrodite. La storia ci dice che questo fanciullo, oramai sedicenne, era solito, come Narciso, avventurarsi nei boschi popolati dalle Ninfe. E fu una di queste, Salmace, che vedendolo nudo mentre si bagnava nella sua fonte, si infiammò d’amore e lo volle con sé per sempre. Così fuse il suo corpo a quello del ragazzo trasformandolo in un essere che aveva le caratteristiche di entrambi: Ermafrodito.
Anche Tiresia, l’indovino che aveva risposto incautamente alla domanda di Zeus e Giunone su chi, tra il maschio e la femmina, godesse di più nell’atto sessuale, svelando il segreto della predominanza femminile – così venendo punito dalla dea con la cecità e ricompensato da Zeus con la preveggenza – era stato in grado di dire il vero poiché nella sua vita aveva vissuto sia come uomo sia come donna.
Ma esiste certamente un’altra divinità che incarna questa ambivalenza positiva, simbolo delle due forze che si ricongiungono per dare alla Vita la possibilità di fare il suo corso attraverso il tempo: Dioniso. Figlio di Semele, donna mortale, e di Zeus per la mitologia greca, il dio che viene dalla Tracia altro non è, in effetto, che Shiva stesso, il Principio androgino di distruzione e ricostruzione del Mondo. Dioniso è una divinità decisamente trans-gender, passa cioè da maschio a femmina, ma compie anche il cammino contrario: dal femminile al maschile; usando una metafora chimica riferita agli isomeri possiamo dire che è anche cis-gender.
Tutta la sua vita è circondata dalle donne, tanto che viene accusato di essere effeminato quanto da esse è influenzato. Dioniso è, in realtà, l’anello di congiunzione tra la figura della Grande Dea mediterranea, la Potnia minoica dalla quale tutto emanava, e il sopravanzante patriarcato greco simboleggiato dalla regalità di Zeus sulle divinità femminile del panteon classico. La sua androginia non è dunque tanto un dato permanente come fatto anatomico, quanto un modo d’essere sociale e psicologico che rende perfettamente ante litteram la differenza tra sesso e genere.
Egli è quindi transgender nel senso più attuale del termine, possiede cioè al tempo stesso le caratteristiche culturali e cultuali di entrambi i sessi. Più di ogni altro storico delle religioni Bachofen ha insistito nel configurare Dioniso come il «dio delle donne», persuasore e seduttore dell’animo femminile. Il principio di vitalità appassionata simboleggiato dal dio della «Zoè indistruttibile», come lo definisce Kerenyi è, per Bachofen, essenzialmente femminile, come ci ricorda il compianto Furio Jesi nel suo Letteratura e Mito.
Da vero simbolo transgender Dioniso stesso dissolve le forme: nulla di fisso deve esistere tra il maschile ed il femminile; il suo nome, infatti, tra i tanti del dio «della vita indistruttibile», è anche quello di Lysios, colui che scioglie: e lysis significa, appunto, scioglimento, dissoluzione, liberazione, transito ed anche quel districarsi dell’intreccio che caratterizza la fine della Tragedia, in origine il ciclo della nascita morte e rinascita del dio, come ci ricorda Nietzsche.
«Tutto è Dioniso» afferma Schelling nella Filosofia della rivelazione, riecheggiando, di proposito, quel «Tutto è Shiva», principio dell’Induismo. Ma la figura del dio che ha molti nomi, e che suscita in sé attraverso questi nomi molti dei, è qui soprattutto Zagreus: il Dioniso orfico, che muore e rinasce, portando con sé, nella morte, il mondo passato e promettendo di essere, nella sua rinascita, la possibilità del mondo venturo. Dioniso, infatti, è esso stesso passaggio e trasfigurazione, pluralità e unità del divino.
Dioniso è dunque un dio di passaggio, in tutti i sensi, di tutti i sensi; un dio sinestetico – come le droghe psichedeliche – nel quale il delicato ed instabile equilibrio tra razionale ed irrazionale, tra vita e morte, tra natura e cultura, tra Eros e Thanatos, tra io e mondo, maschile e femminile, ordine e caos, sarebbe stato superato e umiliato dalle nuove religiosità monoteiste, gerarchiche e patriarcali, più adatte a staccare completamente l’uomo dalla comune appartenenza all’anima mundi e condurlo così verso quell’antropocentrismo ottuso e totalizzante che viviamo oggi: quando lo spreco sembra l’unica necessità, e il misticismo un retaggio ancora in odore di eresia.
Questo punto mediano, ma non mediato, questa particolarissima forma di conjunctio oppositorum, possiamo definirla col termine «dionisiaco».
Dionisiaco è dunque un polisema che comprende sia il «chi» della divinità alla quale si riferisce, come descritta da Nietzsche ad esempio in opposizione all’«apollineo», sia il «cosa» sensazionale che può ancora oggi vivere una semplice persona ebbra di vino. Ognuno di noi cerca e vive momenti dionisiaci, la cui determinante essenziale altro non è che la percezione immediata ed istantanea di tutti gli opposti che la vita contiene: un precipitarsi nella totalità dell’essere senza frapposizioni di sorta; ed è il suo bimorfismo sessuale e sessuato a permetterlo.
Lungo la linea del tempo, l’Arte che ha più di ogni altra, in Occidente ma non solo, cercato di riprodurre fattivamente questa condizione, è certamente l’Alchimia che, con la sua ricerca dell’androgino ermetico, si propone di condurre l’esperienza dell’operatore all’ineffabile coagulo della materia e dello spirito. Il Rebis filosofico è questo: il tentativo operativo di ricreare nell’athanor la forma originaria dell’Unità perduta. E così, dato che la materia operata trasforma l’operatore, alla fine dell’Opera sarà egli stesso ad essere ricondotto a questa condizione, a ritrovare il Volto perduto del deus absconditus.
What Cosmic jest or Anarch blunder, The human integral clove asunder, And shied the fractions through life’s gate? Quale scherzo cosmico o errore dell’Anarca / ha spaccato l’essere umano integro / e ha lanciato i frammenti attraverso la porta della vita? si chiede Melville nella sua ricostruzione dell’Adam Qadmon, l’uomo cosmico creato a immagine e somiglianza del Grande Androgino, il Macroprosopo di cui ci parlano i testi cabalistici.
Shiva ed il Bodhisattva
Come fa notare Joseph Campbell nel suo Le maschere di dio, la differenza radicale tra Oriente ed Occidente riguarda proprio la relazione dell’umanità con il Creatore: mentre in Occidente questo è separato dalla sua creazione, in Oriente esso mantiene una presenza sia immanente – emanazione continua – che trascendente – la sua essenza è imperscrutabile – essendosi, al tempo stesso, sia indiato in tutte le molteplici forme della realtà, i «diecimila esseri», sia oltre il Mondo.
In Oriente due sono le figure centrali androgine per eccellenza: Shiva ed il Bodhisattva Portatore del Loto, colui che «Guarda verso il basso con pietà», così chiamato per il sentimento che porta verso tutte le creature ancora prigioniere della ruota del Samsara: il ciclo delle reincarnazioni dovute alla Triplice Illusione che le lega all’esistenza. Egli, infatti, mentre stava per varcare l’ultima soglia ed entrare nel Nirvāna, la dimensione del vuoto totale, dell’esistenza-non-esistenza perfetta ed inalterabile, sottratta alla temporalità dei fenomeni, al velo di Maya che con la sua coltre crea una parvenza di realtà, decise di restare nel mondo contingente per aiutare tutte le creature a raggiungere la buddità.
Nirvāna deriva da nir che significa «via da», e da vana, letteralmente «soffiato», cioè un soffiare via la fiamma del Triplice Fuoco, il che equivale ad estinguerne il potere su di noi. La parola, dunque, significa, in sanscrito, il «Dissolversi del triplice fuoco del Desiderio, dell’Ostilità e dell’Illusione». Le stesse tentazioni cui si era, alla fine di una lunga battaglia mistica, sottratto il Budda nella sua contesa contro Kāma-Māra, cioè Desiderio-Ostilità: «Quando l’involucro della falsa consapevolezza è stato distrutto, ogni essere è libero da ogni paura, al di là di ogni mutamento» dice il Prajna-paramita Sutra.
In Cina ed in Giappone questo Bodhisattva – termine che designa «colui che è illuminazione» – viene raffigurato sia in vesti femminile sia in vesti maschili. Avalokiteśvara è il maschio, Kwan Yin è la femmina, la Madonna dell’estremo oriente, come viene definita. Ella-Egli ha compreso che il tempo e l’eternità sono aspetti di un’unica esperienza, due momenti dello stesso non-duplice ineffabile; cioè l’essenza del Gioiello del Loto: Om mani padme hum.
Joseph Campbell, nel suo L’Eroe dai mille volti, ci conferma che le divinità bisessuali non sono rare nel mondo del mito, poiché esse conducono la mente oltre l’esperienza oggettiva in un regno simbolico dove il dualismo non esiste. Questo è il significato dell’immagine del dio bisessuato; egli-ella simboleggiano l’identità tra eternità e tempo; il risvegliato in vita, infatti, il jīvan mukta, comprende che il Nirvāna non è altrove o quando se non nel qui ed ora del Mondo, del quale alla fine egli vive l’infinità bellezza: il Volto di dio. L’iconografia tibetana simboleggia l’unione tra eternità e tempo attraverso la figura dello Yab-Yum unione sessuale della figura maschile e femminile, tanto esecrata dai critici cristiani.
Nel Taoismo il Tao, la via, è essa stessa bisessuata. Anche qui sarà la sua divisione in maschile e femminile a produrre l’ingannevole opposizione tra noi ed il Mondo. E dunque bisogna ricomporre questa dualità in una dualitudine, una polarità non oppositiva, attraverso un continuo assecondamento dei ritmi naturali.
Questo concetto è ben conosciuto anche dall’Induismo, nel quale «colui che vive col cuore concentrato nello yoga, che tiene in considerazione tutte le cose, si vede in tutti gli esseri, e tutti gli esseri vede in se stesso, comunque viva vive in Dio» come dice la Bhagavad Gitā (6, 29, 31).
E chi è lo yogi cosmico se non Shiva, il Dioniso indiano? Nella sua forma detta Ardhanārīśvara il «Signore Mezzo Donna», egli viene raffigurato unito nello stesso corpo con la sua sposa Śakti, colei che porta ad effetto il suo potere divino di meditazione profonda. Le raffigurazioni che lo mostrano sotto i piedi della sua metà femminile Kāli, invece, la sposa terrifica del momento distruttivo e rigenerativo, ci dicono che le coppie di contrari formano una unità e che ciò che appare come una immagine crudele – la dea sopra il corpo del dio mentre brandisce una spada ed una testa mozza – altro non è che il suo sogno nascosto: sotto la dea nera sono, infatti, rappresentati due aspetti del dio, uno visibile, addormentato, l’altro invisibile, al di là degli eventi e dei mutamenti, oltre persino la meraviglia del dio ermafrodito.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 26, issue no. 27
july 2015
ISSN: 2037-0857
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