Il polo escluso della “fraternità”
di Marco Dotti
Si possono punire per legge discriminazioni e ingiurie, imporre uguaglianze formali di ogni ordine e grado e favorire ogni sorta di libertà. Ma non è possibile fondare la fraternità né imporla per decreti e ingiunzioni esterne.
Anzi: il prezzo da pagare per ogni libertà garantita dall’alto e per ogni uguaglianza sancita a colpi di emendamenti e cavilli è, spesso, proprio la fraternità – lemma dimenticato, nodo irrisolto del moderno che riaffiora in ogni frangente critico. Sulla fraternità si regge, o cade, tutto ciò che variamente chiamiamo società civile, sociale, corpi intermedi, comunità.
I termini della triade laico-moderna «liberté, egalité, fraternité», al contrario di quanto avviene nella trinitas cristiana, non si intergenerano. Libertà, uguaglianza, fraternità sono sicuramente complementari ma, osservaEdgar Morin, «non si integrano automaticamente tra loro». Di conseguenza, il loro equilibrio è fragile e richiede una continua attività di tessitura e interconnessione.
Possono certamente esistere forme “legali” disolidarietà sociale che, in qualche misura, traggono spunto o fanno il verso alla fraternità: dalla previdenza al sussidio di disoccupazione, fino alle derive tragico-parodistiche del nostrano reddito di cittadinanza. Ma sono paliativi artificiosi, organizzati burocraticamente e, nel peggiore dei casi (ed è il caso del RdC), configurano rendite di posizione che non generano processi. Sintomi di quella patologia che coincide con la brama di un potere governativo-pastorale e di uno stato d’eccezione permanente che vorrebbe stordire e gestire ogni risorsa sociale autonoma.
Ripetiamolo senza posa: tutto ciò che non si rigenera, degenera: vale anche per la fraternità, ma questo la rende ancor più preziosa, fragile come la coscienza, fragile come l’amore la cui forza è tuttavia inaudita
Anche senza gli eccessi tipici del nostro Paese, va detto che nessun provvedimento dall’alto, per quanto ben strutturato, potrebbe comunqe surrogare la matrice del rapporto di fraternità: il legame caldo tra persona e persona, tra comunità e persona. La fonte della fraternità, spiega Morin in La fraternità, perché? (trad. di Nicola Manghi, pagine 70, euro 11), un aureo libretto edito da poco dalle Edizioni Ave, è in noi. Per il sociologo e filosofo francese, dire «in noi» significa primariamente porsi una questione sul soggetto. Si potrebbe pertanto sostenere che la fonte della fraternità risieda in una ontologia intimamente relazionale.
Ogni individuo, spiega Morin, proprio in quanto soggetto ha «due quasi-software in sé». Il primo è un software egocentrico, fondato sul nesso «me-io» che lo situa e lo posiziona nel mondo e gli permette di nutrirsi, difendersi, vivere. Il secondo è il rapporto «noi-tu»: l’empatia originaria, la relazione, un noi dentro il quale l’io può uscire dalla membrana solipsistica e realizzarsi pienamente.
Affermare, come fa Morin, che nessuna fraternità può essere imposta dall’alto o dall’esterno significa collocare a questo livello intimo, originario e profondo le fonti della fraternità.
Mutualismo, associazionismo, cooperazione attiva sono alla base della fraternità aperta. Una fraternità dove il “noi” non è regressivo, ma inclusivo delle differenze.[1] Le specie più adatte alla sopravvivenza, aveva d’altronde già intuito nel 1902 un critico del darwinismo sociale, il geografo anarchico Pëtr Kropotkin, sono le specie che cooperano.[2] L’uomo fra tutte.
Cooperazione e conflitto, spiega però bene Morin, non si negano a vicenda e, fatto che sfuggiva a Kropotin, convivono in forma complementare soprattutto nelle società complesse. Un antagonismo permamente attraversa le nostre società, rendendo al tempo stesso sempre possibili e sempre fragili le relazioni associative.
Scrive Morin: «Mutuo appoggio, cooperazione, associazione, unione sono componenti inerenti alla fraternità umana. (…) Nonostante ciò, la fraternità umana, e questo sin dalla sua dimensione famigliare, porta in seno delle potenzialità rivalitarie. Polemos è presente in forma virtuale in ogni fraternità e può manifestarsi tramite la rivalità e questa può ricorrere a Thanatos, come indica l’uccisione mitica di Abele da parte di Caino».
Sempre la fraternità vive su un crinale incerto, costitutivamente in bilico tra generazione e devastazione: «Polemos e Thanatos possono introdursi nell’Eros di una comunità e distruggerla», spiega Morin. Per questo «la fraternità deve rigenerarsi senza posa, giacché senza posa essa è minacciata dalla rivalità».
Considerazioni elementari, ma non autoevidenti soprattutto oggi, dove l’unico orientamento certo sembra essere quello del «disastro di civiltà» e del «senso apparentemente euforico di un transumanismo che crea un uomo aumentato, quando il problema fondamentale dell’umanità in questo stadio critico e trasformatore della propria avventura» è, invece, quello di ricomporre il legame spezzato con la fraternità. Ma è proprio nel sapere implicito di quelle comunità di pratica e di valori che, per convenienza e abitudine all’approssimazione chiamiamo “società civile”, che va cercata la risposta.
La fraternità affettiva, matrice e fonte delle solidarietà sociali, nella lettura di Morin, deve sapersi trasformare: da «mezzo per resistere alla crudeltà del mondo deve divenire scopo, senza smettere di essere mezzo». Lo scopo di questa fraternitas-communitas non è un burocratico termine ad quem, una scadenza oltre la quale tutto è dato o non dato. Lo scopo è dies a quo, punto comune da cui incessantemente ricominciare.
La fraternità, in questa chiave, è «un cammino» e un destino. Un nuovo mindset per una società civile non gregaria né parassitaria. Un processo, non una (modesta) presa di potere tramite occupazione di spazi. Perché, spiega Morin, «ripetiamolo senza posa: tutto ciò che non si rigenera, degenera: vale anche per la fraternità, ma questo la rende ancor più preziosa, fragile come la coscienza, fragile come l’amore la cui forza è tuttavia inaudita».
Questa fraternità sembra infine coincidere con quella che lo stesso Morin altrove ha chiamato comunità di destino, ovvero coscienza e consapevolezza di un legame comune e di una comune appartenenza alla Terra.
«Comunità di destino», ha spiegato in tempi non sospetti Morin, «è la coscienza di appartenere ad una Patria più grande di tutte le altre che non è la negazione di tutte le altre, ma è la Terra-Patria. Sentirsi una comunità di destino significa avere una coscienza planetaria, ossia divenire consapevoli che siamo tutti figli di questa Patria, siamo fratelli e sorelle di questa Patria» [3]
Note
[1] Cfr. Martin Novak, Supercooperatori. Altruismo ed evoluzione: perchè abbiamo bisogno l’uno dell’altro, Codice edizioni, Genova 2012.
[2] Pëtr Kropotkin, Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione, a cura di Giacomo Borella, Eleuthera, Milano 2020.
[3] Edgar Morin – Cristina Pasqualini, ”Ri-scoprirsi identità connesse”, Studi di sociologia, 4 (2005), p. 416.