philosophy and social criticism

Kafka-Canetti

di Francesco Paolella

Nella parte di Massa e potere dedicata agli Aspetti del potere, Elias Canetti si occupa in primo luogo delle diverse posizioni che il corpo di un uomo può assumere rispetto all’ambiente e agli altri corpi: «Rango e potere si sono creati posizioni fisse tradizionali» (Massa e potere, 1981, p. 469).

Stare in piedi o stare seduti, giacere, essere accoccolarsi: ogni movimento, ogni mutamento della propria posizione, relativamente allo stare degli altri, può rappresentare la propria libertà o la propria sottomissione, la propria autonomia o la propria umiliazione.

E scrive Canetti: «È vanto di chi sta in piedi l’essere libero, senza appoggiarsi a nulla» (ivi, p. 470). Chi è in piedi, tende ad essere al centro, a controllare lo spazio attorno a sé. Dà una naturale impressione di autosufficienza e di energia, o, casomai, comunica la volontà di controllare e di dominare.

Bene, questo spunto sullo stare o meno in piedi è importante, centrale anche nelle magnifiche, appassionanti riflessioni canettiane sulle lettere scritte da Franz Kafka a Felice Bauer, riflessioni ripubblicate oggi dall’editore Guanda. Anche da quelle lettere, per una ragazza berlinese conosciuta nell’agosto del 1912, Canetti mostra quanto in Kafka contasse più di tutto il problema del potere o, per dir meglio, il suo continuo tentativo di ridursi all’impotenza, di sottrarsi a una qualsiasi forma di potere.

Fra i quattro uomini citati da Canetti nel discorso tenuto a Stoccolma, il 10 dicembre 1981, in occasione del ricevimento del Premio Nobel per la Letteratura, come «paladini» di una Europa futura e diversa da quella esistente, troviamo proprio Franz Kafka, «al quale fu concesso di rendersi piccolo, sottraendosi in tal modo al potere» (Elias Canetti, Discorso di Stoccolma, in “Annali dell’Istituto di Lingue e Letterature Germaniche, Parma, 1982-1983, p. 2).

Vediamo meglio. Il rapporto di Franz con Felice fu prima di tutto ed essenzialmente un rapporto epistolare, a distanza – il primo incontro successivo alla loro conoscenza avvenne dopo sette mesi. E anche in quella scrittura, nelle lettere scritte da Kafka (che sono le uniche che abbiamo a disposizioni di quella corrispondenza), non può che emergere, e a tratti esplodere, l’intolleranza dello scrittore praghese per ogni posizione di controllo e di superiorità. Kafka fugge (e fugge caparbiamente) dal potere (termine per forza ambiguo e con molti significati) e da ciò che minaccia di esercitarlo. Per due volte, Kafka giunse a parlare di matrimonio con Felice e, per due volte, preso dal panico di ritrovarsi poi strangolato negli “orrori” di fidanzamento, vita familiare e ménage borghese, fece di tutto per liberarsi, per farsi piccolo, fino a scomparire. Kafka vuole essere come un insetto, come una talpa.

«Bisogna mettersi per terra in mezzo agli animali per essere redenti. Stare ritti è il potere dell’uomo sulla bestia, ma proprio in questa più di ogni altra evidenziante posizione sul potere, l’uomo è esposto, visibile, attaccabile. Perché questo potere contemporaneamente è in colpa, e solo giacenti per terra in mezzo agli animali si possono vedere le stelle che ci liberano di questo potere umano che è un potere temibile» (Canetti, L’altro processo, pp. 122-123).

Canetti ci fa attraversare questo lungo carteggio rinviando, come è logico, all’altra scrittura di Kafka, e al suo bisogno di tempo e di spazio (e di silenzio e di solitudine): la Metamorfosi e il Processo in particolare vanno anche ricondotti ai movimenti di attrazione e di repulsione per Felice e per ciò che essa poteva rappresentare. Ritroviamo momenti in cui Kafka sembrava addirittura dipendere dalle lettere che riceveva da Felice, anche più volte al giorno, come se fossero l’unica fonte di energia e di tregua per la sua vita e per il suo lavoro. Scrivendole, Kafka riusciva a superare (o ad aggirare, per dir meglio) la sua introversione e il suo mutismo. Pur lontana (o forse proprio per questa ragione), Felice Bauer fu per un certo tempo il suo rifugio. Kafka non le risparmiava nulla, e fin dagli inizi della loro relazione: le scrivere della sua magrezza, della sua ipocondria, e dell’insonnia che sapeva tormentarlo. Molte sue lettere non erano che lunghe, lunghissima lamentazioni.

Ma non era sempre così semplice. Da Kafka veniva una alternanza sfibrante di lettere e di “anti-lettere”. Una invincibile “smania di tormentarsi”, lo portavano a rinunciare, a nascondersi nell’impotenza (di cui pure, in altri momenti sembrava temere le conseguenze). Ne risulta alla fine la cronaca disincantata di un legame forte, a tratti fortissimo, eppure impossibile. Kafka non smette di riferirsi al suo orrore per le cerimonie e le riunioni in famiglia (come luogo di potere) o dell’insostenibilità di trovarsi vicino a un bambino (e di tollerare il modo in cui si riducono gli adulti quando hanno a che fare con un bambino):

«Una domenica [Kafka] sperimenta a casa “i folli, uniformi, ininterrotti gridi, canzoni e battere di mani, sempre ripresi con novella energia”, con cui il padre nel corso della mattinata intrattiene un pronipote, nel pomeriggio un nipote. Gli riescono più comprensibili le danze dei negri. Ma forse, riflette, non è affatto il vociare che lo tocca tanto da vicino, già ci vuole molta forza per anche solo tollerare bambini in casa. “Io non ce la faccio, non posso dimenticare che il mio sangue non continua a scorrere, è tutto rappreso”, e proprio il desiderio del sangue, dice, è quanto si presenta sotto forma di amore per i bambini» (ivi, pp. 54-55).

Egli era fatto per altro (o così mostrava di credere), per trovarsi perfettamente solo, sepolto in una cantina buia, inaccessibile, dove – sognava – avrebbe potuto scrivere senza essere disturbato, toccato da alcuno. Eppure, per un certo tempo, Kafka amò, più che Felice, le lettere di lei, almeno fino a quando non riuscì ad emanciparsi anche da quelle.

[cite]

Tysm review
philosophy and social criticism

vol. 26, issue no. 27

july 2015

issn: 2037-0857

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