philosophy and social criticism

La conchiglia e il labirinto

di Raffaele K. Salinari

«A Ravenna tanta miseria, ma mosaici di splendore inaudito…» È così che nel 1903 Gustav Klimt commenta il suo viaggio nell’antica capitale bizantina. Pur corpulento e pigro il caposcuola della Secessione viennese si pone incontro alle tessere policrome traboccante di «impressioni artistiche molto forti». L’influenza esercitata su di lui dai mosaici ravennati fu tale che, da quel momento, per ammissione stessa dell’autore che si riteneva «il solo pittore oltre Velázquez», è possibile leggere i suoi quadri come una sorta di mosaici composti da piccoli quanti di colore tenuti insieme da impercettibili tratti di pennello.

Ma le suggestioni legate a quel viaggio si sarebbero nel tempo condensate soprattutto nella ricchezza e l’opulenza del disegno resa attraverso l’uso decorativo dell’oro. L’artista austriaco si spostava raramente da Vienna ma, abile mosaicista nonché figlio di un orafo, non poteva sfuggire alle suggestioni di quelle opere d’arte. Dal suo soggiorno nella città adriatica scriveva di tanto in tanto lettere alla madre, suggerendo percorsi ideali tra i monumenti della città. In una di queste cita un piccolo e poco conosciuto gioiello visto nella Basilica di San Vitale: «C’è un labirinto raffigurato sul pavimento di fronte all’altare: è un percorso di purificazione che conduce al centro del tempio e che… quando lo si percorre… fa sentire più leggeri». La sensibilità artistica dell’autore della litografia Teseo ed il Minotauro aveva colto appieno il significato del simbolo che si svolgeva ai suoi piedi.

 

Il labirinto di San Vitale

Chi si trovasse a visitare la chiesa di San Vitale dovrebbe dunque, ad un certo punto, distogliere lo sguardo dai meravigliosi mosaici bizantini e posarlo sul mistico labirinto descritto da Klimt, che si trova proprio di fronte all’altare. Si tratta di un dedalo marmoreo a percorso unicursale il cui cammino è dunque chiaramente determinato, smentendo così, ma solo in apparenza lo vedremo, la definizione che ne dà Virgilio nel sesto canto dell’Eneide come luogo in cui entrare è facile «ma tornare indietro, questa è l’impresa, la difficoltà». Questo tipo di labirinto, definito anche «classico», è quello che gli inglesi chiamano labyrinth, mentre quello dotato di diramazioni e trappole è detto multicursale o «manierista»; in inglese maze.

Eppure, al di là dell’apparente semplicità delle volute, il disegno esprime una carica simbolica unica nel suo genere, che lo vede rientrare appieno nella definizione virgiliana, non tanto per la difficoltà del percorso meandrico, quanto per la densità immaginale che evoca, costringendo così il percorritore all’interno di una molteplicità di piani a dir poco vertiginosa, che cominciano proprio dal suo enigmatico punto di partenza: l’ingresso, infatti, si trova, anzi è in diretta continuità, con l’effige di una conchiglia.

L’evoluzione del disegno sembra dunque procedere dall’interno delle valve aperte, quasi dipanarsi lungo il corridoio meandrico, per poi giungere al suo centro, di fronte all’altare, facendo così sembrare il luogo di arrivo la meta di una invisibile perla che, espulsa dalla conchiglia, sia infine rotolata sino a quella locazione. Il significato di questa immagine è ineffabile, eppure la sensazione che si ha nel percorrere le volute che prendono le mosse dalla conchiglia la riporta immancabilmente alla mente.

Altro enigma che interroga il visitatore è il senso delle tessere triangolari, vere e proprie frecce direzionali, che procedono nel senso opposto a quello del cammino di ingresso, quasi a voler indicare con certezza la via del ritorno. Non esistono altri esempi di questo binomio labirinto-conchiglia in tutta l’Europa cristiana e, pur se la presenza disgiunta dei due motivi è storicamente determinata all’interno delle chiese, risalendo al Medio Evo, la loro coniunctio simbolica è certo molto più antica, arcaica, prendendo le mosse dal costruttore stesso della prigione del Minotauro, il mitico architetto Dedalo.

Come, quando e perché nasce allora il labirinto di San Vitale, che significati esprime il congiunto dei due simboli? La datazione della sua origine è ancora incerta: alcuni sostengono che sia addirittura coevo alla Basilica stessa; molto probabilmente è stato quantomeno rimaneggiato nel secolo XVI, più precisamente nella sua metà, in quanto si ritrova un progetto riferito alla sua ristrutturazione, con le stesse proporzioni e misure, cioè un diametro di tre metri e mezzo, all’interno del famoso IV libro de I Sette libri dell’architettura di Sebastiano Serlio bolognese in cui egli tratta sul: «disegno delle maniere de cinque ordini, cioè Dorico, Ionico, Toscano, Corintio e Composito», pubblicato in Venezia nel 1550.

Ma il labirinto, come la conchiglia, entrano tra i motivi architettonici sacri al cristianesimo molto prima, già verso il XII secolo. Dopo aver vissuto una lunga fase legata, in Europa, al suo mito più conosciuto, ed essersi nel frattempo, o al medesimo tempo, disseminato in tutto il mondo, da Cnosso all’Africa australe, dalla Finlandia alla Nuova Guinea, dall’America latina alle steppe asiatiche, in varie forme, materiali e funzioni, ecco che le contingenze storiche legate al Medio Evo lo riscoprono come protagonista di un cammino sacro che porta, nel microcosmo dei suoi meandri, il percorso dell’anima individuale verso la verità eterna del Cristo, il nuovo Teseo distruttore del Male.

La forza simbolica del labirinto si dispiega in tutta la sua potente suggestione dunque, proprio nel periodo in cui la Chiesa riprende ed organizza il dialogo tra micro e macrocosmo sviluppando, in quei secoli tormentati che porteranno al Rinascimento, un complesso di cosmologie in cui il Mondo, e l’uomo al suo centro, altro non sono che il sunto della più vasta creazione divina.

Qui comincia a dipanarsi il vasto sistema delle corrispondenze, delle analogie, delle «segnature» tanto care al Medio Evo neoplatonico e che culmineranno poi nel Seicento nelle grandi wunderkammer dell’epoca barocca, per poi tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e della sua separazione tra le discipline scientifiche.

Di quelle «segnature» dirà Paracelso nel IX libro del trattato De natura rerum, che appunto si intitola De signatura rerum naturalium. «Nulla è senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova» (Paracelso, III,7,131). Anche Jacob Boheme, nel suo Signatura Rerum dice che: «La segnatura sta nell’essenza ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende […] così anche il segno della natura è, nella sua figura, un essere muto […]. Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il maestro che può suonare il suo strumento». Ecco che allora il labirinto appare agli occhi della sensibilità medioevale come uno strumento che l’anima inquieta potrà utilizzare per ricavarne nuova armonia, riconciliarsi con l’assoluto, poiché anche certe immagini su un pavimento di pietra sono segni dell’interiore mondo spirituale che chiede di esprimersi, di risuonare.

Ma, essendo la Cattedrale a sua volta una immagine della Gerusalemme Celeste, il labirinto non poteva che rientrare appieno all’interno della cartografia dell’epoca. Un labirinto su pergamena lo troviamo infatti, come vero e proprio sigillo ecclesiale, di una «Mappa Mundi» dell’Inghilterra, nella cattedrale di Hereford; risale al XII secolo. Qui la relazione tra mappa e labirinto suggerisce il riconoscimento del possibile, anzi certo, errore umano di fronte alla rappresentazione grafica del Mundus, di cui così chiaramente parlano Boezio nel suo De Consolatione philosophiae o ancor più esplicitamente Onorio di Autun nel suo Imago Mundi. L’immagine del Mondo come labirinto dunque, il labirinto come immagine del Mondo; se la forma grafica influenza la forma mentis e viceversa, il gioco di specchi dello sguardo medioevale, ancora non aperto alla modernità prospettica rinascimentale, trova nel dedalo la forma corrispondente perfetta, l’equilibrio tra conoscenza possibile e mistero insondabile, tra ciò che può e deve essere percorso ed il cammino impedito dai limiti stessi della comprensione umana che si arrende di fronte alla potenza del Numinoso. Quando l’uomo getterà sul globo la sua rete fatta di meridiani e paralleli per cercare di ingabbiarlo, la dimensione invisibile, la sua «trama nascosta», si ritirerà in dimensioni ancora più sottili.

L’assunzione del labirinto come motivo sacro è anche favorita dalla tendenza naturalmente ludica di quei secoli, in cui si assiste ad una progressiva cristianizzazione di degenerati riti pagani, molti dei quali avevano oramai assunto la forma di un semplice gioco, come bene dice Huizinga nel suo Homo Ludens: «La vita medioevale è piena di gioco, piena di elementi pagani che hanno perduto il loro senso sacrale e si sono convertiti in puro scherzo. La cultura medioevale non era più arcaica, aveva da elaborare in gran parte un materiale tramandato, di contenuto sia cristiano che classico».

Ed il complesso mitologico del labirinto, il suo mitologema, era particolarmente adatto a questa elaborazione: il percorso tortuoso ed oscuro, decisamente infero, il cammino verso il centro nel quale si trova una figura mostruosa e maledetta, mostruosa perché maledetta, il necessario aiuto divino per sconfiggere il Male e tornare così «a riveder le stelle»; tutti gli elementi strutturali del mito potevano subire una trasmutazione in chiave cristiana e dunque porre il labirinto all’interno del luogo di culto, rinominandolo; finalmente esso verrà ribattezzato Cammino verso Gerusalemme, come già verso la fine del XII secolo lo troviamo definito.

Anche René Guénon nel suo Simboli della Scienza Sacra ci ricorda che: «Se il punto a cui arriva quel percorso rappresenta un luogo riservato agli eletti, allora esso è veramente un Terra Santa, nel senso iniziatico dell’espressione; in altre parole quel punto non è che l’immagine di un centro spirituale, così come lo è ogni luogo di iniziazione».

Il significato iniziatico del labirinto è adesso all’interno di una cornice microcosmica che vedeva, in quei secoli, l’oggettiva difficoltà per un pellegrino di recarsi a Gerusalemme, e dunque la necessità di sostituirla con altri «luoghi santi»: Compostela, Loreto, e naturalmente la stessa Roma. Non a caso in questi anni troviamo i labirinti più belli e «funzionanti» all’interno di certe chiese; quello della cattedrale di Chartres ad esempio, il cui sviluppo complessivo supera i 250 metri, viene ancora percorso in ginocchio dai fedeli.

J.B.F. Gérunez scrive nel suo Descrizione della città di Reims, che il labirinto della Cattedrale veniva considerato come l’interno del Tempio di Gerusalemme. D’altra parte la deambulazione circolare, favorita dalla forma dedalica unicursale, è una pratica potente; nella Bibbia, ad esempio, gli Ebrei «circuambularono» le mura di Gerico per farle cadere con una atto di magia evocativa di svolgimento labirintico. Molte sono la chiese con labirinti, in Italia ricordiamo quello di Santa Maria in Trastevere che, con i suoi quattro metri di diametro, doveva essere molto bello in origine.

 

La conchiglia ed il labirinto

Ma la conchiglia che relazione diretta ha col labirinto? Dove si trova la base analogica che lega i due simboli? Qui entriamo nell’aura del fascino che sempre promana dalla permanenza dei significati attraverso la mutazione dei loro significanti. Conchiglia e labirinto, abbiamo detto, sono legati sin dagli inizi nella figura dell’artefice Dedalo. Il mito che riguarda l’autore della vacca artificiale in cui Pasifae «si imbestiò nelle imbestiate schegge», come dice Dante (Purgatorio XXVI, 87) per congiungersi al toro di Poseidone che poi la feconderà dando nascita al Minotauro, ci dice anche della sua prigionia all’interno del labirinto stesso, ad opera di Minosse, e della successiva fuga in Sicilia, precisamente a Camico, ospite di re Cocalo.

Ma il re cretese voleva a tutti i costi vendicarsi dell’onta subita a causa delle capacità tecniche dell’architetto e dunque si recò personalmente sull’isola per scovarlo. A questo proposito escogitò un trucco che ebbe successo. Presentandosi in incognito come un ricco mercante disse che avrebbe dato una forte somma di danaro a chi fosse riuscito a far passare un filo tra le volute di una conchiglia. Dedalo cadde in trappola vincendo la sfida: fece passare un filo sottile attorno al corpo di una formica e poi spalmò di miele le volute di una conchiglia. L’insetto mangiando il dolce nettare le percorse e così Dedalo venne riconosciuto da Minosse, ma le figlie del re, o Dedalo stesso, riuscirono a uccidere il cretese versando acqua bollente nel suo bagno.

E così la forma del labirinto e quella della conchiglia si sovrappongono nella mente di Dedalo e possono essere parimenti manipolate poiché derivano entrambe dalle stesse figure semplici: il meandro e la spirale, motivi archetipici che significano da sempre, ed in ogni luogo, l’eternità della Zoé, della Vita che scorre su se stessa ed in se stessa senza interruzioni. Come il filo di Arianna scorre nel labirinto, così un altro filo scorre tra le volute della conchiglia.

A San Vitale dunque due labirinti si rispecchiano l’uno nell’altro; la conchiglia è semplicemente una forma naturale della costruzione artificiale di Dedalo. Ecco dunque che l’oggetto naturale, sottoposto alle stesse leggi dell’analogia e della sussunzione da parte del cristianesimo, scivola nei secoli procedendo dai suoi significati simbolici originari: prima scrigno della vita, supporto alla nascita di Afrodite, emblema delle potenze primordiali legate all’acqua, la fonte di tutte le virtualità, diventa ora ricettacolo di altre acque salvifiche, benedette, racchiuse nelle acquasantiere che compaiono nelle chiese in questa forma esattamente quando vi entra il labirinto.

Secondo la simbologia cattolica, allora, già descritta da Giovanni Damasceno nel VII secolo d.C., «Il fulmine divino è penetrato dentro la conchiglia più pura, Maria, e ne è nata una perla oltremodo preziosa, il Cristo». Questo rovesciamento lo vediamo compiuto nella celebre Pala Di Brera di Piero della Francesca in cui la conchiglia che sosteneva l’erotico corpo della Venere di Botticelli è ora posta alla polarità opposta, sulla testa della Vergine, al sommo della scena: segno inequivocabile di corrispondenza simbolica.

È oramai diventata la conchiglia dei pellegrini sulla via di San Giacomo di Compostela, il viaggio mistico che ancora compiono iniziati e non iniziati verso la stessa purissima luce, quella da sempre rinchiusa nel buio più profondo del labirinto.

Ma, in onore alle divinità delle origini, ogni volta che immergiamo le dita nelle conchiglie acquasantiere, ricordiamoci come la piccola increspatura che ne scaturisce è ancora il corpo di una ninfa acquatica.

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tysm literary review, Vol. 8, No. 14,  April 2014

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