La fede del diavolo
di Antonino Pagliaro
Indagini rigorose fatte da specialisti della materia hanno accertato che i diavoli si possono distinguere, a parte l’ordinamento gerarchico, che è affare loro, in due grandi categorie: diavoli settentrionali e diavoli meridionali; per essere più precisi, diavoli nordici e diavoli propriamente italiani. Quelli nordici sono orribili mostri, che risultano dalla combinazione degli elementi meno simpatici dell’animalità, rettili, pesci degli abissi, ali di pipistrelli, becchi di rapaci, code di draghi, e simili; sì che veramente passa la voglia di averci a che fare, e magari di parlarne. Se ne può vedere la fedele immagine nei quadri Hieronimus Bosch, fantasioso pittore, che fiorì nei Paesi Bassi fra la fine del Quattrocento e il principio del Cinquecento, e i cui Giudizi universali e le cui Tentazioni di Sant’Antonio allietano l’occhio del visitatore nelle più famose pinacoteche di Europa; ma prima e dopo lui molti altri pittori nordici, i Brueghel, Lucas van Leyden, Manndyn, il Civetta, Huys, Gossaert, Mathias Grünewald, Lochner e altri ancora si dedicarono con impegno non minore a dipingere il brutto demoniaco di casa loro. Il diavolismo nostrano (a parte l’influenza straniera, a cui lo stesso Michelangelo non si è saputo sottrarre) è un’altra cosa: nel tipo nostro la malignità e l’imbroglio sostituiscono come attributi quelli della bestialità e della ferocia; in fin dei conti, un paio di corna di modeste dimensioni, una faccia camusa come se vedono in giro, una barbetta a punta, una gola di fuoco (ma quando il muso è chiuso la fiamma non si vede), una coda corta o lunga a volontà, uno o due piedi di caprone, fanno un diavolo che si può dire perfetto.
Chi voglia averne una immagine abbastanza precisa non ha che da sfogliare il codice antonita della biblioteca Laurenziana di Firenze; vedrà come i diavoli che tentano sant’Antonio non sono affatto più brutti dei guerrieri africani o polinesiani, quando sono mascherati per la danza. Forse il vero tipo del diavolo nostrano è ancora meglio rappresentato da quel diavoletto nero, che si invola dalla testa dell’invasato guarito, nel noto dittico di Murano a Ravenna: piccolino, svelto, capace di albergare nei precordi di un uomo senza fare troppo ingombro.
Fu proprio uno di questi diavoletti domestici, che, capitato profugo in una bella cittadina sulle sponde dell’Adriatico, si insediò, senza nemmeno chiedere permesso, nella mole prosperosa di un ricco mercante di mezza età. Era quella un’epoca in cui i diavoli giungevano a frotte nella penisola da ogni parte di Europa; dalla Spagna specialmente, dove la Santa Inquisizione non dava quartiere, e dal Nord, dove la famosa bolla del 1484 e soprattutto il Martello delle streghe (Malleus maleficarum) di Jacopo Sprenger e di Enrico Institore avevano svelato ai Germanici le magagne dei demoni locali e la loro nefanda complicità con le streghe. Dal mare arrivavano talvolta in volo, portati da tremendi uragani che essi provocavano, oppure si nascondevano nelle stive dei bastimenti, suscitando ammutinamenti di ciurme, risse e altri guai. Dal Nord scendevano per solito mescolandosi ben camuffati fra le turbe pie dei pellegrini. Quelli che erano stati scacciati con il fuoco dai corpi delle streghe e degli invasati preferivano venire in volo, per rinfrescarsi ai gelidi venti delle Alpi. Erano ancora così infocati che, al loro passaggio, la neve si scioglieva sui picchi e ci volevano giorni, prima che le aure profumate dei monti disperdessero l’odore di zolfo bruciato che si lasciavano dietro. Giunti in Italia, si mimetizzavano con il tipo locale e si rinfrancavano un poco, perché la gente per temperamento lasciava fare: diavolo più, diavolo meno. Ma poi anche in Italia erano state prese misure ad hoc, sebbene non così severe come al Nord e in Ispagna. E così, scacciato da un luogo all’altro, da un corpo all’altro, un vecchio diavolo, piccolo ma ferrigno, andò a sbattere nella cittadina adriatica, terrorizzato dal pensiero che un’altra spinta non lo facesse andare a finire fra gli infedeli in Oriente, dove la sua carriera si sarebbe chiusa nell’ignavia e nell’ignominia.
Il mercante era uno dei cittadini più stimati per ricchezza e per saggezza; e quello, con l’acuto intuito che è proprio della sua specie maligna, vi aveva scoperto un terreno particolarmente propizio al suo lavoro. Una volta in balìa di quell’ospite indiscreto, il poveruomo divenne l’opposto di quello che era prima. Da serio e contegnoso, divenne sboccato e violento; e la sua giornata fu tutto un litigare con moglie, commessi e clienti. Quel che è peggio, da avveduto e onesto negli affari, divenne così trascurato e azzardoso che non gliene andò più bene una. Fu chiamato un medico; e questi, che era di buoni studi e, soprattutto, aveva assimilato quel tesoro di saggezza clinica, che è racchiuso nelle pagine del De effectibus magicis del celebre protomedico Petrus Pipernus beneventano (autore anche dell’aureo studio De nuce maga beneventana, dove sono svelati tutti i pravi segreti dello stregame più qualificato), azzeccò la giusta diagnosi. Tentò dapprima i segreti fisici, per sottrarre all’invasore il suo dominio: fra diete, salassi e beveraggi, nel giro di poche settimane il paziente si ridusse una larva con gli occhi spiritati, che trovava forza solo per recitare insulti complicati contro la moglie e il prossimo. Al posto del vino, di cui era appassionato, gli facevano ingoiare di forza infusi delle erbe più strane e di altri ingredienti, unghia d’alce, fiele di orso, e simili. Ma il maligno era saldo come un’ostrica sullo scoglio. E anche gli scongiuri più gagliardi, eseguiti alla perfezione da un famoso specialista fatto venire da Napoli, non giovarono a nulla. Alla fine, un consulto di medici, convocato per sgravio di coscienza dal medico curante, confermata la diagnosi, si trovò d’accordo nel ritenere che oramai non rimaneva altro rimedio se non un solenne esorcismo in Piena regola. Era necessario ricevere il permesso da Napoli e, intanto, l’illustre collegio consigliò ai familiari di provvedere una reliquia miracolosa, possibilmente, data la gravità del caso, una scheggia del legno del Santo sepolcro.
Un vecchio padrone di barca, dovendo fare rotta per l’Oriente, accettò volentieri la commissione, previo un congruo anticipo di scudi d’argento: contava di potere fare l’acquisto in qualche porto della Palestina. Ma in realtà, dato che la stagione era burrascosa e che il denaro ricevuto gli aveva tolto la voglia di rischiare, non andò oltre l’altra sponda dell’Adriatico e, fatto passare qualche mese fra un’osteria e l’altra, si mise sulla via del ritorno. A mano a mano che si avvicinava l’ora dell’arrivo, il pensiero di come trarsi d’impiccio con la gente che l’aspettava, chi sa con quanta ansia, diventava un assillo. Alla fine si lasciò tentare. Prima chiese in ginocchio perdono al Signore (erano ancora in mare e non si sa mai), poi con il coltello staccò un pezzettino di legno dal fasciame della barca, lo avvolse in un ritaglio di damasco, che per un caso conservava nella borsa del rammendo, e lo racchiuse dentro una bella tabacchiera d’osso. Arrivato felicemente in porto, si affrettò a portare la falsa reliquia alla moglie del mercante, e la presentò con tante manifestazioni di religioso rispetto, che la povera donna Per l’emozione quasi venne meno. Ne ricevette il compenso pattuito e molte benedizioni.
Il giorno della cerimonia, la piazza davanti alla chiesa madre era sgremita di popolo. Il brusio della folla era rotto dalle urla dell’invasato, che era stato portato a forza su una lettiga; e che sembrava avere ritrovato tutte le sue forze per caricare di insulti la moglie, i parenti, il medico, e il mondo tutto. Quando il sacerdote, accompagnata dal diacono, apparve sulla piazza, tutti gli occhi si fissarono sulla reliquia che egli teneva in mano e i cuori si riempirono di commozione e di attesa. La cerimonia si svolse secondo il rito, in una atmosfera di raccoglimento e di compunzione. Anche l’invasato in ginocchio attendeva immobile e silenzioso (le forze del maligno ospite erano oramai all’estremo). Alla fine il sacerdote recitò con voce imperiosa il terribile esorcismo di san Zenone, quello che incomincia: Exorcizo te immunde spiritus, tentator diabole… Giunto all’amen toccò con la piccola scheggia la fronte dell’invasato. Immediatamente si diffuse nell’aria un forte odore di zolfo bruciato e si udi una voce sottile pronunziare come in un sibilo: « Fede mi scaccia, non legno di barca ». Il vecchio marinaio, che era presente, allibì. Ma intanto un sorriso pacificato aveva spianato la faccia contratta del mercante e i suoi occhi, non più spauriti, brillavano di gioia. Seguirono lacrime e abbracci fra le acclamazioni della folla.
[Articolo tratto da Ironia e verità, Rizzoli, Milano 1970]
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tysm literary review, Vol 1, No. 3 – march 2013
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