philosophy and social criticism

La morte in italia

Francesco Paolella

Il dottor Siegfried Iseman, sepolto al cimitero di Spoon River, fu condannato come truffatore e imbroglione perché si era messo a vendere un Elisir di Giovinezza, tradendo la propria vocazione di medico, o meglio lasciandosi travolgere del “sistema”.
Ma si può essere, come medici, degli “imbroglioni” anche in un altro senso, a fin di bene – a fini terapeutici potremmo dire: quando si tratta, cioè, di mentire, o almeno di omettere la verità nella sua crudeltà, a un malato terminale, ormai condannato a morire.

È lecito evitare a un moribondo la consapevolezza della propria fine? Oppure è, anzi, necessario, per garantirgli la maggior tranquillità possibile nei suoi ultimi giorni? Non è un tormento inutile la verità in questi casi? La storia della medicina ha visto dominare per secoli e secoli questa posizione “caritatevole” (e paternalistica). Solo negli ultimi anni, nel mondo anglosassone prima e poi anche in Europa, questa “tradizione ippocratica” sul non dire la verità a proposito di diagnosi e prognosi, è entrata almeno un po’ in crisi. Il rapporto di potere, “naturalmente” asimmetrico, fra paziente e medico si è modificato, e per molte ragioni. Rispetto al passato, si ha più fiducia nei medici e nelle loro cure; d’altra parte, l’autorità assoluta dei dottori è stata vincolata ai diritti dei malati, a cominciare dalla questione del consenso informato. Più in generale, le idee di vita e di morte stanno conoscendo una profonda trasformazione, dovuta innanzitutto alle possibilità a disposizione dei medici per “tenere in vita” più a lungo i corpi malati e per eliminare inutili sofferenze.
Marzio Barbagli ci spiega in Alla fine della vita appunto questi cambiamenti, mettendo in questione un assunto che, nei decenni scorsi, sembrava inattaccabile, ovvero: la società moderna avrebbe ormai un solo tabù: la morte; la morte sarebbe costantemente rimossa, negata, silenziata. E una prova eclatante di questa “negazione della morte” consisterebbe nel fatto che, oggi, quasi tutte le persone vadano a morire in un letto d’ospedale. Si tratta, indubbiamente, di un mutamento evidente rispetto anche soltanto a un secolo fa. Pur con molte differenze da paese a paese e, per stare al caso italiano, da regione a regione, si è imposto un nuovo modello nell’“arte del morire”: non più in casa propria, con attorno i propri cari, il medico di fiducia e il prete, ma in una struttura sanitaria, sicuramente più anonima e meno accogliente, ma alla quale si è incominciato via via a dare più fiducia. Come ben si può vedere, la questione del “dove si muore” non è soltanto una questione macabra e tutto sommato secondaria, ma ci porta inevitabilmente a ripensare alla storia della salute e della medicina nelle nostre società degli ultimi secoli. Nonostante questa imponente “ospedalizzazione” della morte (come, per altri versi, della nascita: quasi più nessuno partorisce in casa), è pur vero che è rimasto forte e diffuso l’ideale della buona morte, del poter morire nel proprio letto. E’ un ideale che, mosso da diversi motivi di ordine culturale, religioso e sociale – e che, in primo luogo, dipende dal tipo di rapporti familiari dominanti – non deve però essere assolutizzato. Come Barbagli mostra bene nella prima parte del libro, non è vero che nei secoli passati, quando la vita sarebbe stata più semplice e meno corrotta dalla modernità, fosse così naturale morire in casa. Pensiamo soltanto alle frequenti, terribili epidemie che sconvolsero costantemente la vita europea: durante una pestilenza, i contagiati morivano da soli, abbandonati da tutti, senza nemmeno un funerale e una tomba. E’ anche vero che a lungo, e ancora fino agli inizi del Novecento, gli ospedali sono stati luoghi dove andavano a morire i più poveri e i più soli. Si aveva molta paura degli ospedali, che erano comunemente visti come luoghi pericolosi (per le infezioni in primo luogo) e, appunto, degradanti. Anche per questo era la famiglia, anche e sopratutto per i più ricchi, il luogo ideale per farsi curare e dove, semmai, spegnersi.
I successi della medicina hanno potuto molto: è evidentemente cresciuta la fiducia nei medici nel corso degli ultimi decenni. E questo non soltanto per l’efficacia delle terapie e, in generale, per le possibilità di curare il malato, pur senza guarirlo, date dalle terapie del dolore e dalle cure palliative. E’ questo un tema difficile e, per certi versi, ancora scabroso. Anche in Italia, pur con mille differenze da luogo a luogo, strutture come gli hospice per i malati terminali si sono imposte e, anzi, stanno via via sostituendo gli ospedali come luoghi in cui le persone muoiono. Entriamo così nel campo del “fine vita” e della condanna al dolore che, a sentire alcune voci “critiche”, ancora oggi sembrerebbe non evitabile per ragioni etiche, nonostante tutti i progressi medici e le disposizioni contro l’accanimento terapeutico. Come dicevamo, c’è alla base di questi cambiamenti una nuova concezione della vita e della morte, così come dello spazio di autonomia che va riservato al malato. In questo tempo di malattie sempre più lunghe, un tempo in cui non si muore più per un’infezione o un’epidemia ma a causa soprattutto di patologie degenerative, bisogna ripensare il significato stesso della medicina e dei suoi limiti deontologici. In questo senso, anche se forse sviando un po’ dall’argomento centrale del libro, sarebbe stato utile leggere qualche pagina di Barbagli dedicata a quello che è ormai un vero “fantasma” incombente quando si parla di fine vita, specie in Italia: la Svizzera, con i viaggi verso la morte assistita in un clinica, di cui ogni tanto sentiamo raccontare e di cui avremo ancora a che fare in futuro.

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