philosophy and social criticism

La verità

di Eugenio Baldi

Regia e sceneggiatura: Hirokazu Koreda, Titolo originale: La vérité, Lingua originale: francese, inglese
Paese di produzione: Francia, Giappone, Anno: 2019, Durata: 106 min, Genere: commedia, drammatico
Casa di produzione: 3B Productions, Bun-Buku, MI Movies, France 3 Cinéma
Cast: Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Clémentine Grenier

Al regista Hirokazu Kore’eda è stato assegnato l’onorevole compito di inaugurare la 76ª edizione del Festival del Cinema di Venezia, responsabilità che il famoso regista giapponese ha deciso di affrontare osando. Koreda infatti, realizza per la prima volta un’opera che, nella versione originale, è in lingua francese e non come usualmente in giapponese, e proprio la Francia è il principale paese di produzione.

In questa pellicola corale troviamo quindi un cast che tra gli attori principali (tutti in ottima forma) vede in Ethan Hawke l’unico attore non-transalpino.

Kore’eda affronta ancora una volta il complesso tema dei rapporti familiari e lo fa ponendoci di fronte a un gruppo di individui del tutto particolare. Il collante che lega tutti i membri della famiglia è proprio il mondo del cinema: Lumir (Juliette Binoche), figlia della famosa star Fabienne (Catherine Deneuve), è la sola nel gruppo a non fare l’attrice ma la sceneggiatrice.

La pubblicazione dell’autobiografia di Fabienne sarà la scusa per Lumir, suo marito Hank (Ethan Hawke), attore statunitense di produzioni di serie B e la loro figlia Charlotte (una bravissima Clémentine Grenier) per raggiungere momentaneamente Parigi e Fabienne, impegnata sul set di un film, allontanandosi così dagli Stati Uniti dove vivono per esigenze professionali.

Qui si risveglieranno antichi dissapori tra Lumir e Fabienne dovuti alla poca dedizione che quest’ultima ha sempre avuto nello svolgere il suo ruolo di madre e le loro discussioni saranno proprio il mezzo grazie al quale scopriremo di più sul passato di questo nucleo familiare del tutto particolare.

La fotografia è ineccepibile, gestita con grazia e senza virtuosismi che sarebbero sembrati barocchi in una pellicola dal respiro molto posato e viene perlopiù gestita in interni: insieme alla casa di Fabienne e al set del film, infatti, gli abitacoli delle auto trovano molto spazio, sono luoghi dove assistiamo ai dialoghi più malinconici, accompagnati spesso da una suggestiva pioggia parigina. 

 

La malinconia è uno dei temi portanti della storia a cui assistiamo, Fabienne soffre per la giovinezza perduta e, probabilmente, per le troppe volte in cui ha rinunciato a seguire la crescita di Lumir; tutto questo viene da lei mascherato con un carattere arrogante e acido e con continue critiche mosse nei confronti dei suoi colleghi di set, definiti dall’attrice come incompetenti e assolutamente non al suo livello, nella consueta abitudine di voler insistentemente sottolineare il suo glorioso passato.

L’inciso “probabilmente” è necessario anche a causa del titolo stesso del film: i problemi da sempre presenti in questo particolare rapporto madre-figlia vengono citati nelle loro discussioni o pescati da tratti della biografia, distribuita col titolo di La Veritè; titolo che si rivelerà sin da subito ironico date le falsità in essa contenute per alterare, ovviamente in positivo, la figura di Fabienne come madre affettuosa e presente e come talento cristallino, sin dalla giovane età. 

Ciò che Lumir infatti recrimina a Fabienne è la sua continua assenza, il suo essere una bugiarda patologica, il pensare perlopiù a se stessa e l’essere una arrampicatrice sociale.

Nel corso di una cena in famiglia l’attrice ammetterà di essere andata a letto con un produttore per ottenere il suo primo ruolo di rilievo e questo alle spese di Sarah, ai tempi una sua collega e amica.

La veridicità, appunto, di tutto ciò che sentiamo da parte di Fabienne deve essere automaticamente messa in discussione, così facendo il finale stesso del film risulta in un certo modo aperto e lascia perplesso lo spettatore, abituato a una maggiore efficacia da parte dell’autore giapponese.

Sarah è in realtà un personaggio fondamentale, sebbene sia solo nominato e mai messo in scena: era una cara amica di Fabienne che, come ripetutamente sostenuto da Lumir, si sostituirà a lei nel ruolo di madre, vista la sua continua assenza, Sarah viene inoltre ricordata da tutti come un’attrice dal talento straordinario e rimpianta per la sua precoce dipartita. Lo spettatore, grazie ai continui riferimenti e a paragoni fisici tra lei e l’attuale collega di Fabienne, riesce a farsi un’idea piuttosto definita di questa sorta di Godot ancora così importante per i rapporti che legano tra loro i protagonisti.

Dopo queste premesse, che confermano come tutto sommato ci si trovi davanti a un buon film, la conclusione finale è che l’opera non riesca però del tutto a lasciare il segno.

Quello che non ci aspetterebbe da un regista sensibile e profondo come Kore’eda è la sostanziale superficialità di una trama tutto sommato scontata, che ha uno svolgimento banale e che non scava realmente a fondo nelle psicologie e nella profondità dei protagonisti: ciò è vero soprattutto per quanto riguarda Fabienne e Lumir, intorno alle quali ruota gran parte della narrazione.

Ciò che stupisce è perlopiù la leggerezza con cui viene gestita la finale – tanto attesa quanto ovvia – riappacificazione fra le due. Lumir sceglie di fidarsi di alcune confessioni della madre – di cui però sa di non poter essere troppo sicura data la tendenza a mentire di Fabienne – e quest’ultima invece realizza l’importanza del tempo perso con la figlia grazie al film a tema familiare che sta girando al momento. In realtà, probabilmente, è stata semplicemente una ritrovata vicinanza che le ha fatte prima scontrare in modo definitivo e poi chiarire in virtù del naturale, anche se sopito, affetto che provano vicendevolmente.

 

Se, purtroppo, le due protagoniste della pellicola sono vittime di una scrittura poco profonda, gli altri membri della famiglia sono ben più meritevoli di attenzione e a loro va il valore aggiunto della pellicola.

Hank infatti, a discapito del poco spazio dedicato, è sicuramente uno dei personaggi più interessanti. Kore’eda ci mostra tutto il suo talento nel caratterizzarlo e dargli una buona profondità, nello spazio di poche battute: egli infatti è un bravo amante, marito e padre e attore di serie B, cosa che, grazie a una correttezza morale non comune, comunque non lo spingerà ad approfittare della fama e delle conoscenze della suocera per compiere un salto di qualità. 

Ex-alcolista, a volte troppo semplice e a tratti ingenuo, alla fine risulta un uomo buono che pur non parlando una parola di francese, si trova a suo agio nella casa della moglie, i cui abitanti sembrano però non venirgli mai incontro ostinandosi a non parlare mai la sua lingua.

Charlotte, sua figlia, è caratterizzata nel più classico degli stilemi orientali: è una bambina solare, un po’ ingenua ma molto intelligente e sensibile; questi elementi, supportati dall’ottima prova attoriale di Clémentine Grenier, la rendono un personaggio irresistibile, è una figlia e una nipote molto amata e per questo le scene che la coinvolgono sono le più tenere e le più godibili.

Infine, l’ex-marito di Fabienne: anche se volutamente messo in scena in modo caricaturale, è un uomo più attento alla realtà che lo circonda di quanto non lo sia l’ex-moglie e appare naturale il fatto che si siano divisi, egli è gentile, solare e ha attenzione per tutti, cosa che non si può certo dire di Fabienne.

Kore’eda riesce con poche inquadrature e altrettante battute ad introdurci bene questi personaggi, al punto da farci immaginare come potrebbero comportarsi nei contesti e nelle situazioni che vengono omesse dalla narrazione a cui assistiamo e, nell’intimità familiare, fa sì che ognuno interagisca con gli altri, creando un ambiente molto realistico e spesso molto dolce, quasi mai stucchevole.

È sicuramente vero che l’originalità della trama non è una condizione necessaria per la realizzazione di un film riuscito, che può (o deve) essere anche supportato da una sceneggiatura solida, prestazioni attoriali convincenti, un comparto tecnico funzionale a rendere il film “compiuto” in ciò che vuole trasmettere e una buona gestione dei tempi; è innegabile che con La Veritè ci si trovi davanti a un buon film, ma anche ad una pellicola che dà la sensazione di non essere un progetto veramente riuscito, soprattutto pensando al curriculum del suo realizzatore e alle profonde ed emotive analisi psicologiche che hanno sempre contraddistinto la scuola europea ed asiatica, in particolare, appunto, quella francese e quella giapponese.

In questo senso risulta quasi ironica una frase perentoria che troviamo inserita dentro questa pellicola: “Ogni film deve avere un messaggio, un significato.” In La Veritè, probabilmente, è proprio ciò che manca.




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TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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