Le lacrime degli uomini
di Simona Chiapparo
Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, Einaudi, TORINO 2013.
Sulla Via Sacra che collega la polis Atene al luogo – l’antica Eleusi, oggi sobborgo industriale
di Elefsina – in cui si celebravano i Mysteria in onore di Demetra e Persefone, l’esperienza di avvicinamento alla dimensione iniziatica rivela le traiettorie di un viaggio attraverso la storia secolare dell’umano.
A Demetra (la cui vicenda materna di perdita della propria figlia Persefone ispirò i Misteri Eleusini) è dedicato uno dei cosiddetti Inni Omerici che in realtà erano “proemi”, ossia qualcosa che precedeva (e annunciava) il “percorso” del canto epico. Demetra “chiusa nel suo dolore” che vaga in lacrime e Niobe, madre che piange la morte dei suoi dodici figli
– evocata da Achille nell’Iliade – compongono la trama pulsante e finale della trilogia “nostalgia – ira – morte” strutturante l’impianto sotteso a Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci.
Suggestiva e intensa indagine in materia di antropologia omerica, il libro di Nucci è anche una preziosa cartografia, attraverso cui provare ad affrontare l’ambiguo e caotico presente. Nel momento storico odierno, si è continuamente alla ricerca di un’efficace anestesia rispetto alle parole e alle immagini di straordinaria disumanità, da cui si viene quotidianamente raggiunti. L’uccisione, senza sosta, di bambini nelle recrudescenze del conflitto medio-orientale; i genocidi etnico-religiosi, come la recente strage della comunità degli yazidi e gli altri eccidi generati da strategie di “chirurgia politica” – per dirla con Arjun Appadurai – fino alla drammatica e reiterata morte in mare di migliaia di migranti extracomunitari.
Nucci racconta come gli antichi sapessero bene che l’esercizio della potenza logora e annienta non solo i vinti, ma anche gli stessi vincitori. Se in nome della forza si assimilano a cose gli esseri umani assassinati e lasciati morire, quella medesima forza trasforma in cose anche coloro che la impiegano (e chi vi assiste). Cita Simone Weil che, nel suo Saggio sull’Iliade, afferma come “la violenza stritola quelli che tocca”: così Matteo Nucci spiega come, ascoltando il poema omerico, i greci fossero indotti a confrontarsi sulla comunanza di destino tra vinti e vincitori.
Un mondo, quello omerico, la cui stirpe è contraddistinta dall’ira che muta, si inabissa o trabocca nelle lacrime, ma non si estingue mai. Ira che si amplifica, genera brutalità e distruttività, per divenire finalmente vitale, perché – osserva Nucci – i greci comprendevano che ogni guerra partoriva non solo morte. Partoriva anche nuovi equilibri, nuove forme e nuova vita. E non è un paradosso, elaborato dagli antichi quale possibile registro difensivo dall’angoscia di morte.
È osservazione consapevole delle leggi biologiche che governano sia gli uomini che la natura. La medesima cognizione che mostra ad Eraclito come polemos abbia un’eccezionale e vitale fecondità. Sebbene ciò si manifesti spesso attraverso il dissidio, l’odio e, soprattutto, attraverso la sofferenza. Una dinamica che Matteo Nucci esamina nelle etimologie dell’altro celebre poema omerico, analizzando come il nome Odisseo deriverebbe da una struttura verbale, i cui significati non esprimono solo l’ “odiare”, bensì anche il “soffrire”. Quindi, sottolinea Nucci, lungi dall’essere un semplice poema di avventure dall’indubbio fascino per studenti bambini, l’Odissea è un’ode all’uomo che vede e conosce, necessariamente ed inevitabilmente, grazie alla sofferenza. Quell’uomo che nacque dall’impasto di terra e di lacrime, forgiato da Prometeo che poi gli concederà il doloroso e fondamentale dono del fuoco.
Sulla scia di questa sofferenza, che riempie di lacrime gli occhi degli eroi omerici, attraverso le tracce lasciate dai pochi frammenti del perduto Ciclo di poemi epici, Nucci arriva ad approfondire il tema della nostalgia che ispira il viaggio del memoria.
Viaggio che disorienta, perché se analizzando il presente si disvela il passato, da quello stesso passato viene rivelato il futuro.
Ad Elefsina le rovine dell’odierna civiltà industriale contrastano con l’immutabile vitalità dell’originaria Eleusi che le sopravvive, quasi come profezia sulla fine che attende l’odierna società info-mediatica che, a tutti costi, rifugge il dolore di chi versa le lacrime. Lo aveva compreso Platone che pur costretto a rinnegare l’epoca omerica degli eroi piangenti, non poteva fare a meno di esplorazioni notturne nei bassifondi portuali del Pireo. Dove si era più volte recato – come Matteo Nucci ricostruisce – per scrivere l’incipit del primo dialogo contenuto nella sua opera più importante, la Repubblica. Esplorazioni attraverso un’umanità dolente, come una sorta di precoce discesa agli inferi, prima della morte, come un’ineludibile esperienza di salvifica iniziazione.
Riflettere su tutto questo significa scegliere consapevolmente di esporsi al mondo spietato e atroce che ci circonda, con la mente completamente aperta al contatto con le lacrime degli altri uomini. Quelle lacrime che, come il sudore, lo sperma, la linfa, scorrono attraverso il corpo umano e lo rendono vitale. Perché, scrive Matteo Nucci, “i morti certo non piangono”.
tysm literary review, vol. 12, no. 19, september 2014
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