L’arte di indugiare per riconquistare il tempo
Il tempo dell’accelerazione è finito. La luce che ci arriva, come da stelle lontane, è luce di stelle morte. Il tempo sociale non è finito. Si è, più banalmente, disperso. È, letteralmente, tempo «discronico». E la discronia, osserva con incedere apodittico Byung-Chul Han, nel suo Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose (Vita e Pensiero, pp. 132, euro 15, traduzione di Claudio Alessandro Bonaldo) fa «agitare il tempo», ne scombussola il ritmo. Da dove ci viene, allora, la sensazione che il tempo acceleri, se non da questa fondamentale aritmia? Per il filosofo coreano, docente all’Universität der Künste di Berlino, deriva proprio da questo sconquasso: un tempo disorientato e fuori di sesto subisce la discronia non come effetto dell’accelerazione, ma come conseguenza dell’atomizzazione e della parcellizzazione anche di quegli atomi di tempo.
A farne le spese è, prima di tutto, l’esperienza, poiché l’esperienza è un fenomeno di durata e non di istanti. Time is out of joint: nulla contiene più il tempo, né gli animali superiori, né le cose. La tesi di Byung-Chul Han è che si viva una povertà di mondo e la povertà di mondo sia inevitabilmente un fenomeno discronico. L’uomo si riduce a corpo – un corpo funzionalizzato, spazializzato, da tenere sano e rianimare di continuo tramite shock fisico-ginnici -, il corpo si riduce a macchina, il mondo a micro-mondo.
L’ambiente diventa una nicchia simile a una serra, dove crescere uomini come si crescono i fagioli. Una serra ovvero, usando il termine coniato da Walter Lippmann, uno pseudo-ambiente. Questo pseudo-environment sembra ancora capace – ma per quanto? – di garantire una progressiva, costante riduzione della complessità a uomini che non sono in grado di tollerarla, ma non è più strutturalmente adatto a sottrarre quegli uomini, e le cose che vanno loro appresso, alla tempesta della discronia.
La diagnosi di Han è che ci si trovi davanti a una patologia del nucleo della nostra forma di vita. Una forma di vita segnata da ipercinesi e dalla valorizzazione di un movimento che, in fin dei conti, si riduce a stasi. Dove trovare le radici di questa discronia? In qualche modo, e con molte approssimazioni, seguendo Han, si potrebbe far risalire al rovesciamento del rapporto vita activa-vita contemplativa operato da Giovanni Calvino alle soglie della modernità. Per capirlo, occorre andare a un passo del Libro IV, capitolo 13 («De votis»), dedicato ai voti monastici, della Institutio christianae religionis di Giovanni Calvino.
Il riformatore tratta della perfezione della vita cristiana, così come è concepita e ricercata a partire dal IV e parla di «giusta vocazione» approvata da Dio. Per Calvino, lo «stato di perfezione» dell’ideale monastico – ossia il ritirarsi dal mondo – «non è confacente alla fraternità cristiana». Il tempo entra nel mondo, perché il mondo diventa tempo. Con Calvino, la dimensione vocazionale esce dall’isolamento e dalla contemplatio, diventando quella mutua inter homines communicatio che è stata al cuore dell’agire economico della modernità riformata.
Il tempo diventa calcolo, misura. Diventa puntualità senza indugio (come in Max Engammare, L’ordine del tempo. L’invenzione della puntualità nel XVI secolo, Claudiana). Accelerazione infinita verso un tempo-reale che consuma lo spazio, trasforma lo sguardo, tratta le cose non come tracce, segni sui quali indugiare, ma come elementi oltre i quali scivolare in un gorgo senza fine.
[cite]
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philosophy and social criticism
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