philosophy and social criticism

L’assurdità del bene: Pierre Bayard

Francesco Paolella

 

Giorni fa ho avuto modo di ascoltare una testimonianza di Liliana Segre, da poco nominata senatore a vita. Verso la fine del suo racconto, a proposito delle terribili “marce della morte” a cui fu costretta dai nazisti, si è soffermata anche sugli “indifferenti”, ovvero su quei tedeschi che, chiusi nelle loro case, non fecero nulla per i prigionieri ormai allo stremo. Se avessero aperto le loro porte, se avessero lanciato del pane verso quei deportati ormai morenti, se avessero detto alle guardie: “Ma cosa state facendo!”, forse il destino – così concludeva la Segre – delle vittime sarebbe stato (almeno un po’) diverso. Ma come si fa ad essere giusti? Come si diventa ribelli davanti al male, alla crudeltà? Come ci si toglie di dosso, soprattutto, il fardello paralizzante dell’apatia, del “vorrei, ma non posso…”?

Pierre Bayard, che si occupa di letteratura ed è uno psicoanalista, fa qui un esperimento, allo stesso tempo ingenuo e assai profondo. Non ha allestito un laboratorio di psicologia sociale, come fece negli anni anni Sessanta Stanley Milgram in quell’esperimento molto noto ma anche molto discusso, se non ormai del tutto svalutato, fatto per mettere alla prova l’attitudine delle persone all’obbedienza. Bayard ha utilizzato invece i libri, le testimonianze di chi ha avuto, in contesti molto diversi e, per questo, in modi molto diversi, la capacità di dire di no, di non obbedire a un potere minaccioso e totalitario, di chi ha aiutato i perseguitati. Bayard ha utilizzato anche la biografia del padre, chiedendosi: se fossi nato al suo posto, nella Francia del 1922, come mi sarei comportato? Sarei stato un collaborazionista, sarei rimasto a guardare, pensando a difendere me e i miei cari, oppure avrei preso la via della resistenza contro gli occupanti tedeschi?

Questo libro, ora tradotto in Italia da Sellerio, è interessante anzitutto perché non si focalizza sulle vittime: si occupa invece del (potenziale) carnefice e del (potenziale) ribelle che è in ognuno di noi. Nessuno può sapere come si sarebbe comportato davanti alle persecuzioni antiebraiche o se si fosse trovato “costretto” a uccidere degli innocenti. Di fronte all’estremo, per riprendere il titolo del famoso saggio di Todorov, può emergere in ognuno una personalità potenziale, in precedenza rimasta del tutto silente:

«Questa personalità potenziale – che altro non è se non un’altra forma dell’inconscio – può rimanerci ignota per tutta la vita, se quest’ultima si svolge in circostanze di tranquillità storica e biografica tali da non lasciarle occasione per manifestarsi o svilupparsi. È però possibile, in alcuni momenti di crisi individuale, vederla apparire in filigrana in noi o negli altri, e provare a indovinare come si sarebbe fatta valere in altre circostanze. Soltanto però lo studio delle situazioni di crisi storica violenta e del modo in cui gli individui si trasformano, talvolta in maniera del tutto opposta a quanto ci saremmo potuti aspettare – nel bene e nel male –, può mostrarci come un’intera parte di noi stessi, che ci è ampiamente sconosciuta e talvolta è radicalmente opposta a quel che pensiamo di essere, si riveli in certi contesti» (p. 15).

Essa può manifestarsi, ma non è detto. Il caso senza dubbio ha la sua importanza, non bisogna negarlo: tante volte le circostanze concrete spingono le persone da una parte o dall’altra della barricata o, più semplicemente, le portano a nascondersi. D’altra parte, i «moventi di ordine psicologico» (p. 24) non sono meno importanti. Possono contare le motivazioni politiche o quelle di ordine religioso, ma la scelta tra fare e non fare qualcosa, e anzi fra dire di no e non dire niente davanti a una ingiustizia o a una violenza, può essere determinata anche da un conflitto interiore.

Ma quando si raggiunge l’intollerabile? Si può dissentire dai principi di un regime autoritario e si può essere indignati per le pratiche violente compiute dai suoi rappresentanti; si può provare empatia per le vittime; ma tutto ciò può non essere sufficiente per far dire “Basta!” e per diventare parte attiva nella lotta. Cosa ci può strappare alla rassegnazione, al pessimismo, all’inazione? Può aiutare il pensiero di non essere soli, di agire in nome di un principio superiore e collettivo, certo; ed è sicuramente indispensabile mantenere una propria capacità autonoma di giudizio, senza subire il peso del conformismo dominante; ma ciò che è realmente determinante rimane qualcosa di misterioso: è un demone, è la sensazione di non poter fare diversamente. Il bene, fare il bene mettendo a rischio la propria stessa esistenza, è una assurdità ancora più grande che rimanere silenti e indifferenti. La conclusione di Bayard fa pensare a quella a cui giunse un filosofo italiano, Giuseppe Rensi, il filosofo dello scetticismo e dell’assurdo, il quale appunto, chiedendosi perché certe persone fanno il bene sacrificando tutto di sé, affermava che la morale, con i suoi doveri e i suoi valori, non sarebbe altro che una “follia”. Bayard ci racconta in questo libro di tanti “geni del bene” che, andando contro il potere nazista oppure aiutando le vittime dei comunisti in Cambogia o quelle della guerra in Ruanda, hanno sentito quel sovrappiù misterioso di forza per vincere la propria paura.

E gli assassini? Come si diventa carnefici e si riesce poi a portare il peso della responsabilità? Anzitutto è da dire che ribellarsi è, di per sé, ben più difficile ed innaturale che agire per conto di un regime violento. Occorre appunto vincere il proprio bisogno di sottomissione e il sentimento di lealtà verso il proprio gruppo. Poi mille altri fattori, ambientali, etici, psicologici, possono trasformare un uomo in un torturatore.

Bayard riprende qui il film Lacombe Lucien, scritto da Louis Malle e da Patrick Modiano – film che fece scandalo nella Francia degli anni Settanta perché mostrava come si potesse facilmente diventare collaborazionisti dei tedeschi, quasi per caso. Il protagonista del film è un giovanotto non molto consapevole ed anzi molto ignorante in fatto di politica e di guerra e che, molto probabilmente, senza la guerra non sarebbe mai diventato un assassino; d’altra parte, con la stessa probabilità sarebbe potuto essere un partigiano.

In ogni caso, Lucien Lacombe avrebbe avuto lo stesso «gusto della violenza». La guerra, con la confusione e la crisi di valori che essa sempre comporta, può dunque far emergere lati oscuri della nostra personalità, davanti ai quali è quasi impossibile difendersi. L’unico, possibile antidoto resta la capacità di creare e di porsi delle scelte, per evitare di seguire meccanicamente il “contesto”, abituandosi troppo presto all’inevitabile.

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