Lo straniero dentro casa
Lea Melandri
Nell’analisi di Samuel P. Huntington – Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale , Garzanti 2000-, tornata di triste attualità a seguito delle crescenti minacce del fondamentalismo islamico nei confronti dell’Occidente- c’è un paradosso evidente: mentre pone l’identità culturale come “valore primario”, quando va a elencare i termini che la definiscono, nomina dettagliatamente “progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni”, ma non l’appartenenza a un sesso. Viene da chiedersi quanto abbia a che fare questo silenzio sull’aspetto che colpisce per primo nella collocazione di un individuo, il suo essere uomo o donna, con la permanenza di costruzioni identitarie, schemi oppositivi, spinte omologanti o distruttive rispetto a ciò che è percepito come “altro da sé”.
Oggi si parla molto dell’interazione tra culture, con riferimento a singoli, gruppi sociali, popoli, lingue e costumi. Ma non si può fare a meno di riconoscere che si sono moltiplicate, contemporaneamente, anche chiusure particolaristiche, intolleranze, nostalgie nazionaliste e “pulizie” etniche. Dopo l’11 settembre 2001, che ha decantato insieme all’inviolabilità del territorio americano il sogno universalistico dell’Occidente, era inevitabile che il rapporto tra l’identico e il diverso, tra “noi” e “loro”, si avviasse a un’estrema semplificazione e a una conflittualità permanente, tra Bene e Male, civiltà e barbarie, sia pure con un cambiamento significativo nella rigida gerarchia che ha opposto finora l’Occidente al resto del mondo: l’ “altro”, il “barbaro”, il “non-uomo”, avrebbe manifestato sempre più vistosamente la sua presenza, parlando, agendo, minacciando, rivendicando a sua volta specularmente pretese di unicità e centralità.
Contro la prospettiva di una “comunità a venire” fatta, come scrive Giorgio Agamben, di “singolarità qualunque”, svincolate da legami di identità e appartenenza, non c’è da meravigliarsi perciò se è tornato in campo più arrogante e agguerrito che mai un dualismo arcaico, che oggi ostenta, di fronte a una coscienza storica più avveduta, il suo impianto immaginario, la sua parentela, ancora in parte oscura, con la legge prima della sopravvivenza, quel “morte tua, vita mia” che oppone, prima che l’amico/nemico, la madre e il figlio, l’unione originaria col corpo femminile e lo strappo violento con cui l’uomo ha imposto la sua “differenza”.
Ma quello che avviene sulla scena mondiale ha risvolti e conferme ancora più evidenti nel quotidiano. Lo straniero, il diverso, si è fatto prossimo.
Lasciata la zona d’ombra che lo voleva sconosciuto, enigmatico, minaccioso o pericolosamente attraente, prende oggi contorni più reali, parla lingue famigliari, non nasconde il desiderio di somiglianza.
Ciò nonostante genera insicurezza, risveglia l’antico riflesso con cui l’umanità ha fatto fronte all’imprevisto, fa tornare attuali maschere, pregiudizi, stereotipi tranquillizzanti. La spinta identitaria non sembra affatto depotenziata dalla nascita di una cultura che, ripensando il legame tra individuo e comunità, svela l’inganno essenzialistico e la copertura mitica di ogni bisogno di unicità e purezza.
Ne è prova evidente la sua ricomparsa, come “pensiero della differenza”, all’interno di quel movimento di donne che nel corso degli anni Settanta, in Italia e altrove, ne aveva scosso le fondamenta, portando allo scoperto la più duratura e la più “fatale” delle appartenenze: l’identificazione della donna col suo destino biologico, l’’appiattimento delle individualità del maschio e della femmina dentro la logica binaria che li vede astrattamente come poli opposti e complementari. Prima che gli “studi di genere” riscoprissero la natura storica e culturale delle figure del maschile e femminile, scavando nei saperi e nei linguaggi disciplinari, la verità sul dualismo sessuale e su tutte le forme di polarità che vi sono connesse, era affiorata attraverso le pratiche politiche anomale del primi gruppi femministi, intese a dare parola al corpo, alla storia personale e alle passioni che li attraversano.
Era bastato spostare lo sguardo dalla vita sociale al “vissuto” che passa quasi inosservato nell’esperienza del singolo, per scoprire la labilità dei confini con cui si è creduto di differenziare e contrapporre il destino dei sessi, ma anche il legame inestricabile tra natura e cultura, corpo e mente, individuo e società.
Far parlare la “preistoria” che la civiltà ha allontanato da sé e sepolto nelle sue viscere, “come una stirpe che ne abbia sottomesso un’altra” (Freud), aveva significato far emergere legami, contaminazioni, zone di indistinzione tra realtà che si vorrebbero rigidamente separate. Non sono state solo le identità sessuali a scomparire come nebbia al sole, riportate dentro quell’impasto di biologia e storia, sentimenti e ragione, che è il singolo, maschio o femmina che sia, ma ogni processo di differenziazione volto a circoscrivere qualità “autentiche”, territori inviolati, centralità indiscusse. I presupposti da cui prende forma l’identità mostravano il loro volto originario, le paure inconfessate contro cui si può pensare che l’individuo, e quindi la società, abbia eretto le loro barriere.
Se è ancora così difficile nominare lo sforzo di differenziazione con cui l’uomo ha inteso salvaguardare tempi, luoghi e funzioni proprie, rispetto alla minaccia che sempre si rinnova di un assorbimento nell’altro sesso, è perché l’ombra di un indistinto originario segnato nella memoria dei corpi sembra trovare sempre nuove ricomparse storiche.
A volte è l’irrigidimento di uno dei poli della conflittualità, come è stata la svolta di una parte del femminismo verso l’affermazione di una “differenza” irriducibile e di un primato del femminile, in quanto depositario dell’ “ordine simbolico della madre”, o, per altro verso, la ripresa del fondamentalismo, nella contrapposizione tra Islam e cristianesimo.
Ma può essere, al contrario, la caduta dei confini e delle diversità, come nel caso della “società-mondo” che sta avanzando per effetto degli scambi economici e culturali, e del risveglio di quelle “alterità” che erano state pensate solo in negativo, come vuoto e mancanza.
Ripresa aperta verso nuove soluzioni future, o “replica cieca” del già noto, la difficoltà maggiore resta comunque la possibilità di pensarsi, nel rapporto con l’altro, in ciò che si ha di comune e diverso, fuori da rassicuranti schemi contrappositivi.
Libri citati:
Samuel P.Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 2000.
Giorgio Agamben, La comunità che viene, Einaudi 1990.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 30 november 2015
issn: 2037-0857
creative commons license this opera by t ysm is licensed under a creative commons attribuzione-non opere derivate 3.0 unported license.
based on a work at www.tysm.org