Una suite di tre film dall’ultima edizione del Festival di Locarno
Rebecca Amanda Snyder
Tre film presentati in anteprima mondiale alla scorsa edizione del Festival del film di Locarno. Opere mirabili, a volte profetiche, capaci di tradurre, attraverso l’esperienza estetica, un’attualità che merita di essere interpellata con particolare urgenza.
All’epoca della recrudescenza di certo nazionalismo che alimenta le destre europee e dell’ascesa del totalitarismo islamista, il pensiero di Hannah Arendt si impone per la sua attualità e offre una chiave di lettura per Brat Dejan, il film ‘intimista’ del regista georgiano Bakur Bakuradze ispirato al generale Mladic, il boia di Srebrenica.
Quanto al messaggio apocalittico di The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers del regista sperimentale Ben Rivers, è solo dopo qualche mese la rassegna locarnese che se ne è potuta misurare l’agghiacciante attualità, alla luce degli attentati del 13 novembre a Parigi. Nel film l’incubo post-coloniale di Bowles acquista la forza di una profezia narrando la vicenda di un giovane regista francese rapito da una banda di nomadi Reguibat e costretto a vivere la propria esistenza quotidiana sotto il segno del terrore, nuova dimensione esistenziale dell’uomo occidentale.
All’indomani della Cop 21, il summit per il clima che ha chiuso l’agenda degli appuntamenti politici internazionali dello scorso anno, conviene soffermarsi sul film di Pietro Marcello Bella e perduta, una favola di civica resistenza improntata ai valori dell’ecologia politica. Il regista casertano non è un caso isolato nel panorama cinematografico italiano in quanto la sua visione è condivisa da altri autori tra i quali Michelangelo Frammartino, Mario Martone, Marco Bonfanti, Alice Rohrwacher e Simone Rapisarda Casanova. Il personaggio del pastore, che ne attraversa le opere, diviene una figura di elezione, sorta di ‘patrono’ di una parte della società civile che, attraverso il rifiuto dell’antropocentrismo e del liberismo sfrenato, mira a gettare le basi di un nuovo rapporto con la natura fondato sul rispetto, la salvaguardia e non scevro di una dimensione spirituale.
Brat Dejan
di Bakur Bakuradze (2015)
Fratello Dejan (Brat Dejan, 2015), del regista georgiano Bakur Bakuradze, racconta gli ultimi dodici mesi di vita di Dejan Stanic, un ex generale della guerra dei Balcani.
Film atipico e controverso, Brat Dejan ha diviso la critica per il soggetto delicato e l’apparente indulgenza con cui ha ritratto un criminale di guerra. D’altro canto Bakuradze ha saputo dirigere magistralmente Marko Nikolic nel ruolo del generale Dejan Stanic: i lunghi silenzi introspettivi e densi di interrogativi, che abitano tutta l’opera rendendola decisamente ostica, testimoniano dell’impossibilità di sceverare l’umano quando questo si presenta sotto le spoglie del male assoluto. Tale afasia, o aporia in cui si imbatte il linguaggio, lascia lo spazio al corpo dell’immagine cinematografica e alla sua forza evocativa.
Una breve sinossi:
Per sfuggire alla giustizia e al Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, dopo aver latitato per dieci anni in varie basi militari segrete, il generale Dejan Stanic trova infine rifugio a casa di Slavko, un uomo anziano dimorante in un piccolo villaggio di montagna.
Alcune imprudenze, che ne tradiscono la presenza nel territorio della latitanza, e la dubbia lealtà degli ex compagni di ventura lo consegnano nelle mani della polizia.
Brat Dejan ci consegna il ritratto di un uomo della guerra senza rivelarne subito l’identità. Appesantito dalla vecchiaia e dalla latitanza, ma dalla tempra coriacea e lo sguardo imperturbabile, il generale suscita ammirazione e reverenza. Ed è un sentimento di empatia che lo spettatore nutre per quest’uomo anziano, taciturno, costretto a vivere in condizioni di animalesca precarietà mentre attraversa la memoria di un paesaggio montano che reca le tracce della devastazione della guerra.
D’altra parte, anche quando il suo passato viene disseppellito, il giudizio sul personaggio non viene inficiato. In occasione dell’incontro con gli ex commilitoni il generale Stanic non pare voler trarre profitto dal reimpasto politico che consentirebbe di offrirgli una via di fuga prioritaria.
I crimini commessi, rievocati in poche occasioni attraverso dei flash back in bianco e nero dal ritmo concitato, sono veicolati come allucinazioni visive all’interno di una narrazione cinematografica che privilegia il piano fisso e i tempi lunghi. Una bella soluzione formale per significare il conflitto interiore del personaggio, la battaglia ingaggiata col passato, che risorge puntualmente con le sembianze di un incubo.
Nonostante l’impassibilità del volto, il sommovimento interiore è tradito dal tentato suicidio e dalle visite del generale alla tomba di un caro defunto.
Intensa è la scena in cui Stanic, immerso fino al collo nell’acqua della vasca da bagno, ne estrae lentamente le mani osservandole lungamente, quelle stesse mani che, in passato, si erano macchiate di sangue.
Lontano dagli orrori della guerra, in luoghi silenziosi e favorevoli alla meditazione, il generale riscopre la semplice bellezza della vita riassunta nell’estatica osservazione di api ronzanti.
L’ode di Henri Purcell “Welcome to all pleasures” suggella la cattura del generale e la sua redenzione, resa possibile dall’ “assoluzione” elargita dal regista alla fine del film, il quale non è che una lunga preghiera per la salvezza dell’umanità di Stanic, alias Ratko Mladic.
Una volta appreso che il personaggio di Stanic è ispirato al generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, il “macellaio” del massacro di Srebrenica, imputato per genocidio, crimini contro l’umanità e di guerra durante il conflitto in Bosnia tra il 1992 e il 1995, è difficile sdoganare il personaggio di Stanic e comprendere l’atteggiamento di Bakuradze rispetto ad esso.
Soprattutto alla luce dell’identikit mediatico che ha preso forma durante gli ultimi anni in seguito all’arresto del generale: ne è emersa l’immagine di un uomo sanguinario, che non ha mai taciuto il suo odio per i musulmani, e che durante gli anni della latitanza, godendo della protezione di personalità politiche, approfittò di una vergognosa “immunità” che gli consentì di percepire la pensione militare fino al 2005 e di permettersi, di tanto in tanto, qualche apparizione mondana a Belgrado. Dopo la cattura, il processo al Tribunale internazionale dell’Aja: Mladic ha sempre respinto i capi d’accusa mostrando, di volta in volta, disinteresse, noia o addirittura odio per i familiari delle vittime che assistevano al processo, minacciando di sgozzarli con il gesto secco dell’indice passato sotto la propria gola. Nel 2014, convocato nuovamente per deporre a favore del processo del suo omologo politico Radovan Karadzic, Mladic si è rifiutato di esprimersi qualificando il tribunale di “satanico”.
Diventa lecito chiedersi le ragioni profonde di questo film, al di là di qualsiasi semplicismo che affermi la complicità o indulgenza di Bakuradze rispetto alla “causa” serba.
Eppure manca nel film il giudizio sull’uomo. È lo stesso Bakuradze che, in occasione della presentazione del film a Locarno, avverte che «non gli interessa giudicare il generale Mladic, una persona che ha diviso il mondo in due, coloro che lo credono un criminale di guerra, e quelli che lo vedono come un martire»[1]. Bakuradze diffida dei «connotati precisi» attribuiti a personalità pubbliche che sono state coinvolte in atti terroristici o di guerra. Questi sono semplicistici, volti a stabilire delle «opposizioni binarie» che non rendono conto della singolarità degli individui.
Il regista, nell’intento di costruire il personaggio di Stanic, ha indagato e raccolto diversi elementi sulla vita intima e quotidiana di Mladic, entrando nel «territorio della persona». Fu ispirato in particolare dal carisma del generale, dalla sua natura franca e lo colpirono alcuni eventi tragici come il suicidio della figlia ventitreenne nel 1994.
Se in rete è possibile leggere le notizie dei giornali concernenti il generale, si può accedere pure a brani di vita privata. Con un semplice “clic” si assiste al funerale della figlia e al momento in cui il generale versa le lacrime sul sarcofago della giovane. E, con un ennesimo “clic”, possiamo coglierlo, qualche anno prima, durante un pranzo di famiglia, circondato dai propri cari intento a scherzare e ad abbracciare teneramente la sua adorata beniamina Anna.
Sulla piattaforma di informazione globale ci viene offerta l’evidenza della «terribile, indicibile, impensabile banalità del male»[2]: la trama della vita di un uomo che poteva godere degli affetti familiari e, allo stesso, ordinare lo sterminio di ottomila persone a Srebrenica o intrattenere, nel 1993, un dialogo di questo tenore:
«Sei tu Mladic?»
«Sì sono io, vecchio diavolo, cosa vuoi?»
«Tre dei miei ragazzi sono scomparsi vicino a… voglio sapere cosa gli è successo»
«Beh, penso che siano tutti morti»
«Posso dire ai parenti che sono andati?»
«Sì, certo. Parola mia. Come va la famiglia?»
«Oh, non male, grazie. E tu?»
«Benissimo. Se la cavano niente male»
«Mi fa piacere sentirlo. Ah, a proposito, abbiamo trovato venti cadaveri dei vostri vicino al fronte, completamente spogliati. Li abbiamo buttati in una fossa e adesso puzzano. Non potresti venire a prenderli perché è davvero insopportabile…» [3]
Non si tratta di un dialogo di un film di Quentin Tarantino ma della registrazione della conversazione telefonica del 1995 tra Mladic e il capo della polizia di Spalato.
Di fronte alla spaventosa banalità del male Bakuradze si astiene dal formulare un giudizio sul generale Mladic, compito che spetta al Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia.
Brat Dejan, dunque, non è il “processo” ad un criminale di guerra ma il tentativo urgente e caparbio di donare un volto umano a uno dei responsabili del secondo più grave genocidio dopo l’olocausto.
La quasi completa assenza di riferimenti alle atrocità commesse da Stanic/Mladic si spiega col fatto che ciò che interessa al regista è l’ “uomo”, cogliere, far presagire, immaginarne il pentimento per restituirgli una statura morale umana: «la pace è fondata sul pentimento» dichiara Bakuradze in conferenza stampa e «il personaggio di Stanic è inventato, ciò che mi ha permesso di offrirgli un rimedio».
Mutuando, ancora, le parole di Hannah Arendt, Bakuradze tenta «di comprendere l’inumano» e di «riconciliarsi nel pensiero con le mostruosità intellettuali e politiche di un tempo dislocato»[4].
Il riferimento ad Arendt si rivela tanto più calzante dal momento che il festival di Locarno ha scelto di presentare fuori concorso il film di Lars Kraume, Der Staat gegen Fritz Bauer, incentrato sulla figura del procuratore generale tedesco Fritz Bauer, deciso a far estradare dall’Argentina il nazista Eichmann e la cui impresa si rivela minata di ostacoli opposti dallo Stato, determinato, dal canto suo, a censurare il suo terribile passato.
L’attualità del pensiero di Arendt è confortato, tra l’altro, in questi ultimi anni dalla realizzazione del film di Margarethe Von Trotta, Hannah Arendt (2012), e dal documentario di Claude Lanzmann Le dernier des injustes (2013), che ruota attorno alle dichiarazioni di Benjamin Murmelstein e del ruolo del Consiglio ebraico nella Shoah.
Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, l’opera in cui è formulata la “nozione” di banalità del male, è un reportage che, oltre ad interrogarsi su una soluzione giuridica al processo Eichmann, solleva delle questioni essenziali sulla natura umana: s’interroga sulla facoltà di pensare e sulla scelta volontaria di smettere di pensare, che ha reso un uomo ordinario quanto banale uno dei criminali più spietati della sua epoca. Arendt ha intravisto la possibilità dell’inumano in ciascun essere umano, la possibilità per ciascuno di noi di sprofondare nella banalità del male sebbene si sia sempre guardata da evidenziarne prerogative o formulare una teoria[5] tanto che tale nozione resta «aporetica»[6].
Il pentimento e la riconciliazione con la propria umanità non arrisero a Eichmann nemmeno sul patibolo: incapace di pensare la propria morte «al di fuori delle frasi fatte che si dispensano durante le orazioni funebri»[7], e ripiegando così nei cliché di un linguaggio lobotomizzante, ci consegnò l’ultima lezione della agghiacciante realtà della banalità del male.
È attraverso il ruolo consolatorio e catartico dell’arte (cinematografica) che Bakuradze fa sorgere in Stanic/Mladic il pentimento, esorcizzandone così l’immagine demoniaca.
Nell’opera ci sono i segni, le allusioni al pentimento ma non vengono sviscerate le ragioni o i moventi dei crimini commessi. Ed in parte è proprio in questo silenzio “aporetico”, possibile pendant cinematografico della nozione di Arendt, che risiede la bellezza dell’opera. Il regista ingaggia una battaglia con l’immagine/corpo di Nikolic/Stanic, e più la macchina da presa tenta di penetrarla nel desiderio di sondarne le profondità, più l’immagine rinvia alla sua superficie, alla tautologica essenza dell’immagine fotografica.
In occasione della conferenza stampa, però, Bakuradze ci consegna una delle possibili chiavi per dischiudere il suo pensiero rispetto alla determinazione delle responsabilità del generale: ci rivela che Brat Dejan è la storia di un destino.
Ed ancora ribadisce questo concetto durante il Q&A a Locarno. Tradendo un certo fascino per alcune personalità di dittatori e condottieri che hanno segnato la “S”toria, Napoleone, Stalin, Hitler, Saddam Hussein, e lo stesso Mladic, egli riconosce che, pur se tutti questi «avevano un orgoglio e un’ambizione esagerati», pure ciascuno rappresenta «una storia, un destino particolare»[8].
Bakuradze si dice particolarmente interessato alla vicenda degli ultimi anni della vita di Napoleone in esilio sull’isola di Sant’Elena, epoca in cui il generale visse l’episodio più tremendo della sua vita, quello in cui il destino lo sopraffece.
Il destino, dunque, come forza che si porrebbe in conflitto con la libertà d’azione di un soggetto umano fino a vanificarne le scelte.
Asserzione rischiosa, parto di un fatalismo romantico che induce a relativizzare e deresponsabilizzare il generale Mladic fino a considerarlo come il semplice ingranaggio di una macchina più complessa, dove le singole parti sono intercambiabili, dove l’attore umano segue la marcia ineluttabile di avvenimenti che sfuggono alla sua volontà.
Dichiarazione, forse, di una resistenza, della difficoltà a riconoscere la responsabilità personale e a giudicare un individuo perché «nessuno dubita che le accuse più gravi siano giustificate ma l’accusato, è l’umanità intera»[9]: possiamo riconoscere in Stanic nostro fratello, come il titolo del film farebbe supporre?
Quando incontriamo Stanic nelle prime sequenze del film, senza uniforme il giaccone sgualcito la pistola nei pantaloni e rintanato in una stamberga di montagna, potremmo confonderlo con un partigiano se non fosse per il caschetto da baseball. Ratko Mladic, d’altra parte, aveva abbracciato fin dalla giovane età il JNA, l’esercito popolare jugoslavo, che traeva le sue origini dai gruppi partigiani di Tito che avevano liberato il paese dall’occupazione nazi-fascista. Il padre stesso era morto come partigiano poco prima della fine della guerra. Se Mladic avesse imbracciato il fucile durante l’occupazione nazi-fascista sarebbe ora ricordato come un eroe? Da liberatore del suo popolo ne è divenuto l’oppressore e lo sterminatore per un azzardo anagrafico del destino?
È alla luce della suddetta dichiarazione che Brat Dejan si pone come film fortemente controverso, riattualizzando e pure giustificando alcuni degli argomenti della difesa del nazista Eichmann e di altri criminali processati a Norimberga: la sorte degli ebrei sarebbe stata la stessa anche se l’individuo Eichmann non fosse mai esistito.
Ma per apprezzare Brat Déjan conviene piuttosto soffermarsi sul trattamento dell’immagine cinematografica.
Come si diceva più sopra la relazione che il regista instaura con l’immagine/corpo di Nikolic, caratterizzata dall’ossessivo impiego della macchina da presa volto a documentare con minuzia il volto e la persona dell’attore, stabilisce un’ ingannevole identificazione del corpo dell’attore con il generale Stanic/Mladic.
Tale relazione attiene al sacro e alla sua trasgressione.
L’attore Marko Nikolic subisce un processo di “transustanziazione”. Egli diviene Mladic vestendo gli “attributi” del generale serbo-bosniaco durante il periodo della latitanza: un cappotto macilento, un berretto calato sulla fronte e un’arma da fuoco nei pantaloni. Nikolic, per utilizzare dei termini presi in prestito dalla cultura figurativa religiosa ortodossa dell’area di provenienza del regista, diviene l’ “icona” di Mladic perché ne esibisce i segni, le marche, gli attributi. Il regista georgiano manifesta così la necessità viscerale di incontrare, fare la scoperta dell’umanità di Mladic, attraverso la sua “icona”. Così si può forse spiegare l’esigenza documentaria della macchina da presa che insiste sul volto rigido, imperscrutabile di Nikolic, indagandone ogni piega e dettaglio. Spesso l’occhio della cinepresa si attarda discretamente dietro la nuca del generale, per non affrontarlo direttamente, per immaginare che, dietro i radi capelli bianchi, possa finalmente apparire il volto di Ratko Mladic. Ma il modello/feticcio non potrà mai corrispondere all’originale. Così, paradossalmente, nonostante l’uso epidermico della macchina da presa concentrata ossessivamente sul corpo e le azioni quotidiane quanto banali di Stanic, l’immagine rinvia alla sua superficie e, sebbene Brat Dejan sia un’opera cinematografica, che potrebbe incardinarsi su un racconto esplicativo, il volto pietrificato di Nikolic sprigiona lo stesso fascino di una fotografia. Non è un caso che il motore del progetto sia stato per Bakuradze l’osservazione della foto su internet del generale all’epoca della sua cattura. In una fotografia la verità irrefutabile dell’impronta si coniuga con l’ ineffabilità del suo potere evocativo.
Il regista deve essersi attardato diverso tempo sulle immagini del volto del generale, sul suo sguardo, sulla curva irriverente del naso, sulle rughe attorno alle labbra e agli occhi, che egli immaginava incresparsi in seguito al compimento di ogni nuovo atto di atrocità.
Se Bakuradze cade nella tentazione di far coincidere il corpo di Nikolic con l’identità di Mladic, l’icona con ciò che rappresenta, poi però smentisce questa realtà attraverso dei brani filmati in formato ridotto dove compare il video code, sorta di backstage, in cui mette in scena se stesso in atto di dirigere gli attori sul set e poi, ciò che è più importante, in atto di identificarsi col personaggio di Stanic, in particolare quando ripercorre la scena del suicidio interpretandola lui medesimo (per dare delle indicazioni all’attore su come «deve essere» la scena).
Brat Déjan si palesa così come opera cinematografica profondamente lacerata, schizofrenica: teatro “esistenzialista” («il personaggio è turbato, ha un abisso dentro se stesso»[10]) in cui il regista si abbandona a giochi estremi e molteplici di identificazione ma anche occasione di svelamento di questi stessi meccanismi, di mise en abîme della finzione/funzione cinematografica.
The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers
di Ben Rivers (2015)
The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, presentato in anteprima al concorso ufficiale del festival del film di Locarno, non ha ricevuto premi né menzioni speciali. Trascurato dalla critica, ad esclusione di qualche penna anglofona dall’intelligenza ben appuntita, è un film che, invece, merita attenzione per la straordinaria chiaroveggenza con cui ha saputo mutuare la condizione attuale dell’uomo occidentale, ostaggio della paura.
Un film il cui messaggio, seppur criptico e rifuggente interpretazioni univoche, è di una scottante attualità alla luce, qualche mese dopo l’anteprima locarnese, degli attentati del 13 novembre a Parigi.
Breve sinossi :
Parte prima. Il regista Oliver Laxe è alle prese con la realizzazione del suo secondo lungometraggio Las Mimosas, ambientato nelle distese del Sahara e sulle pendici dell’Atlante. Muli, interpreti e comparse locali prendono parte al progetto del regista franco-galiziano.
Parte seconda. Da documentario etnografico il film vira in un’opera di finzione di cui Oliver Laxe diviene l’interprete principale.
Una notte di luna piena dei banditi rapiscono il regista. Gli tagliano la lingua che danno in pasto ai cani e lo tramortiscono di colpi. Al risveglio l’uomo, ancora frastornato, è avviluppato, da capo a piedi, in una veste fatta di coperchi di lattine. I suoi aguzzini lo soprannominano il « re delle lattine » e lo costringono, a suon di pistolettate, a improvvisare una danza sgangherata lungo il tragitto che culminerà con la vendita del ragazzo a una sorta di impresario dello spettacolo.
L’uomo, insoddisfatto dell’acquisto, tenta di avere indietro i suoi soldi ma viene freddato dai banditi. Il re delle lattine si ritrova solo nel cortile di una probabile riad marocchina. Al centro di questo spazio deserto è un televisore acceso la cui schermata è nera ad eccezione della sigla DVD che rimbalza sui quatro lati del monitor.
Resosi conto che è rimasto solo, cerca una via di fuga, la trova e, ormai libero, si getta a perdifiato nell’infinità del deserto.
Il titolo, tratto dall’opera di Bowles He of the Assembly è verboso, ermetico, apocalittico, e contiene in sé gli elementi attraverso il quale è possibile leggere il film: brividi, paura transglobali e il sentimento di una minaccia che non viene da lontano ma che si apparenta a noi, con la quale condividiamo un’inquietante familiarità: i «due occhi», nonostante possano essere scambiati per fratelli, non lo sono.
Questo scenario apocalittico si rivela sinistramente attuale quando si pensa ai recenti avvenimenti che hanno colpito la Francia, paese che, dopo gli attentati di gennaio e novembre scorsi, attraversa un doloroso periodo di riflessione sulle falle della sua politica di immigrazione, integrazione ed educazione. I responsabili dei sanguinosi attentati di Parigi erano, per la maggior parte, dei connazionali, figli d’immigrati ma nati sul suolo francese: è all’interno del tessuto politico e sociale che queste cellule cancerogene si sono prodotte e hanno sferrato l’attacco.
L’operazione chirurgica volta a eradicarle si rivela più che mai complicata, come lo dimostra la proposta della controversissima misura sulla decadenza della nazionalità che, non potendosi applicare che a cittadini binazionali, inscrive, di fatto, nella Costituzione, due categorie di francesi. Considerato il valore debolmente dissuasivo dell’iniziativa e che, tra i terroristi che hanno colpito il paese dal 2011, solo due erano binazionali, è evidente che questo atto simbolico è manifestamente violento perché volto a colpire, per semplice presunzione, i cittadini francesi che hanno le proprie origini nell’area del Maghreb, in Marocco, Algeria, Mali, ex-colonie francesi da sempre interessate da importanti flussi migratori verso la Francia.
Dopo l’onda degli attacchi terroristi risalenti al 1995, le rivolte del 2005 delle banlieu, è nel 2015, con l’antecedente Merah, che la Francia, certo nel contesto del terrorimo internazionale, ha dovuto nuovamente affrontare gli orrori che non sono dissociati dal suo passato coloniale e il cui retaggio carico di odio, disprezzo e diffidenza è ancora, tristemente, presente.
Alla luce di quanto detto, l’incubo postcoloniale descritto nel racconto di Bowles del 1947 A distant episode da cui è tratto il lungometraggio di Ben Rivers, è quanto mai attuale.
La prima parte del lavoro è un documentario sul film in progress del regista franco-galiziano Oliver Laxe, Las Mimosas, girato nel deserto del Sahara e sulle pendici dell’Atlante, uno sfondo scenografico naturale che ha ispirato numerosi registi come il Bertolucci del The nel deserto (The Sheltering Sky, 1990), film tratto da un altro romanzo di Bowles. Ben Rivers, che è artista visivo oltre che regista, ha raccolto in un’installazione, ideale pendant del film, diversi documenti che attestano della miriade di progetti cinematografici, compiuti o meno, ambientati nel Sahara.
Come osservano diversi commentatori del film di Rivers, questo segmento cinematografico, che occupa la prima mezz’ora del film, si interroga sulla natura della rappresentazione cinematografica, sull’immagine archetipica dell’Oriente e sull’utilizzazione del Nordafrica come sfondo ideale sul quale proiettare l’immaginazione e la fantasia occidentali, riducendo gli attori e le comparse locali a oggetti di consumo e di sfruttamento[11]. In effetti nel film sono documentati la fatica e la noia degli interpreti e i pericoli che devono affrontare, addentrandosi in zone impervie o servendo da stuntmans. Dietro questo documentario apparentemente etnografico, si cela uno sguardo discreto ma lucido che documenta come il cinema occidentale costituisca un dispositivo neocoloniale.
Nella seconda parte del film assistiamo ad un ribaltamento dei ruoli. Il regista francese cade nella trappola tesagli da alcuni banditi che, dopo avergli tagliato la lingua, lo vestono da capo a piedi di un abito fatto di coperchi di lattine. L’uomo occidentale è alla mercé dei Reguibat, una tribù di nomadi arabofoni di professione religiosa sunnita. A colpi di pistola gli intimano di improvvisare una danza compulsiva, facendo di lui una sorta di giullare che, derisoriamente, i suoi aguzzini chiamano «the king of the tin cans», il re delle lattine, re misero perché abbigliato dei rifiuti della società del capitalismo e del consumo da cui proviene. Il movente dei banditi è espresso in una sola frase caustica: «sei venuto qui a cercare guai, li hai trovati».
L’uomo subisce una metamorfosi: privato della lingua/linguaggio e, dunque, della facoltà di pensare, si riduce ad un fascio di nervi, ad un turbine di adrenalina la cui danza diventa, giorno dopo giorno, un comportamento automatico, una reazione pavloviana alle schioppettate tirate dai banditi ma anche un’agghiacciante routine. Complice il fatto che il re delle lattine è interamente coperto di metallo, e che non possiamo scorgerne l’espressione del volto, la sua figura si accomuna ancora di più a quella di un fantoccio manovrato da una volontà esterna.
Questa nuova creatura, immunizzata dalla ragione e che ha fatto della paura un riflesso automatico, è una potente metafora dell’uomo occidentale per cui la paura non è più una reazione acuta e momentanea ma un dato costante del nostro «essere al mondo», una tonalità fondamentale dell’epoca in cui viviamo.
Zygmunt Bauman, in Liquid times : living in an age of uncertainty (2007), evidenzia che la paura si è installata nel nostro quotidiano al punto da saturarlo: non ha più bisogno di stimoli esteriori poiché le azioni che ispira giorno dopo giorno forniscono tutta la motivazione e l’energia di cui essa ha bisogno per riprodursi.
Nelle ultime sequenze di The sky trembles il re delle lattine, una volta morto l’impresario di spettacolo e fuggiti i banditi, si ritrova, solo, nel cortile di un’abitazione marocchina. Al centro della corte è un televisore acceso la cui schermata è nera ad eccezione della scritta DVD che si sposta sui quattro lati del monitor. È con questa scena che Ben Rivers, maestro del thriller concettuale, fa prova del suo genio, giustapponendo degli elementi dal forte potere evocativo senza propendere per un’interpretazione univoca. Un televisore, nel bel mezzo del deserto, in un contesto narrativo marcato da ostilità, pericolo e che si innesca su un rapimento, evoca senza dubbi quel mostro a due teste che è l’ISIS, il gruppo armato che predica un ritorno al fondamentalismo islamico, avvalendosi della tecnologia più moderna, delle piattaforme delle reti sociali, attraverso le quali diffonde la sua propaganda e pubblica le proprie rivendicazioni. A ricordarci, di nuovo, il carattere unheimlich di questa minaccia, nata in seno ai paesi occidentali.
Il re delle lattine, alla vista dello schermo, sembra riacquistare coscienza. Cerca una via di fuga e finisce per trovarla proiettandosi fuori della cittadella, correndo verso lo sfondo del piano cinematografico, stagliandosi nella luce solare e facendo risuonare comme giammai la sua veste fatta di metallo. Pur riacquistando la propria libertà, egli non si disfa di questa seconda pelle: d’altra parte egli è un re, il re delle lattine, e, in quanto tale, ha un privilegio che lo marcherà per sempre: la paura, di cui egli potrà disporre come crede.
All’indomani degli attentati del 13 novembre in Francia le persone reagivano impugnando il vessillo del «même pas peur!», «niente paura!», una dichiarazione che serviva a scongiurare il terrore di fronte all’atrocità dei fatti di cui erano testimoni.
Filosofi quali Patrick Boucheron, Corey Robin, Günther Anders si sono interessati agli effetti della paura riconoscendone l’ineluttabilità. Aver paura è un sentimento normale e legittimo quando un pericolo è reale, fatalmente tangibile. Non potendo opporvi la ragione è auspicabile trasformare questa emozione in una buona « euristica », cioè in un vettore di riflessione e azione, o contenerla e riorientarla politicamente per costruire, per usare le parole di Boucheron, una «forma di calma vigilante», facendo attenzione a non farsi assalire dalle emozioni tristi, perché la paura è insidiosa, ha due volti: «uno guarda lontano,verso i nemici ai quali la nazione deve far fronte; l’altro guarda in sé, verso i conflitti e le disuguaglianze che esistono in seno alla nazione. L’astuzia del potere politico è di convertire il primo nel secondo, d’utilizzare la minaccia del nemico esterno come pretesto per reprimere i nemici interni» [12].
Perché la paura è l’avamposto della tirannide. Induce vigilanza ma può sfociare nel terrore, che inghiotte e rischia sempre di assoggettare.
All’indomani dell’11 settembre si è stabilito negli Stati Uniti un governo della paura, capace di sottomettere l’opposizione, la stampa e la giustizia, di legittimare la pratica della tortura (Guantanamo) minacciando le libertà fondamentali, bypassando la comunità e il diritto internazionali. L’istituzionalizzazione delle «Stato d’eccezione»[13] è il nuovo paradigma del governo all’epoca del terrore.
Oggi è il governo francese che, in seguito agli attentati di gennaio e novembre, rischia una deriva anti democratica, attraverso la richiesta di prolungazione dello «stato d’emergenza» e la relativa modifica della Costituzione, istituendo gli arresti domiciliari senza tutela giuridica, proponendo una legge per la decadenza della nazionalità, richiedendo una deroga alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.
The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers si conclude con la fuga liberatoria del re delle lattine, lasciandoci immaginare quale possa esserne il seguito : la coesistenza della paura con la speranza o la resa al dispotismo.
Bella e perduta
di Pietro Marcello (2015)
Notte di Natale 2013. L’angelo di Carditello, il pastore Tommaso Cestrone spira. Le sue ultime volontà, assicurare la salvezza del bufalotto Sarchiapone, vengono esaudite da un misterioso «ministero per la difesa della natura dagli esseri umani» che invia su terra il servo Pulcinella affinché si prenda cura del bufalo.
I due si avviano verso Nord e intraprendono un viaggio in un’ Italia dall’abbacinante bellezza ma anche perduta per l’imbecillità e cupidigia degli uomini.
Una volta giunti davanti l’Albero della Morte, Pulcinella decide di rinunciare alla sua natura celeste per divenire uomo. L’investitura mortale gli fa perdere la capacità d’intendere Sarchiapone che viene abbandonato e affidato a una sorta di orco dalle cui labbra sgorgano versi dannunziani.
Il destino di Sarchiapone è segnato: le porte del mattatoio si dichiudono per strapparlo alla vita.
“Bella” e “perduta”. Due aggettivi al femminile per descrivere l’Italia di Pietro Marcello, nell’ultimo film del regista casertano presentato in anteprima al sassantottesimo festival del film di Locarno.
Ed è tristemente fin troppo facile riconoscere il Paese nel corpo lussureggiante, generoso ed accogliente di una donna che è anche corpo perduto, perché martoriato e oltraggiato.
Emblema di questo scempio è la Reale tenuta di Carditello, maestosa reggia borbonica che fino a qualche anno fa era stata oggetto di razzia da parte dei ladri e nascondiglio per latitanti.
All’angelo custode della Reggia, il pastore Tommaso Cestrone, è dedicata la pellicola, che ne è anche una sorta di requiem, perché l’uomo sparì proprio durante le riprese del film, la notte di Natale del 2013, solo qualche tempo prima dell’acquisto del sito da parte del MiBaCT che si è impegnato, dall’anno seguente, ad un progetto di restauro.
Il film doveva essere un viaggio in Italia sulle orme dell’opera di Piovene ma la scomparsa di Cestrone ne ha segnato il corso trasformandolo in un altro oggetto: «Con Braucci (il co-sceneggiatore del film) lavoravamo sul set con attori non professionisti e, provenendo dal documentario, sei abituato all’imprevisto. Se sei soggetto all’imprevisto devi essere anche capace di cambiare».
Ciò non ha impedito a Pietro Marcello di tenere a mente l’insegnamento dell’affrescatore dell’Italia del Boom, da cui ha tratto due grandi lezioni, quella dell’umiltà: «viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà» e quella della coscienza civica: «in nessun altro paese» scriveva Piovene «sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne, secondo gli interessi e i capricci di un giorno»; sentenza che, a distanza di cinquant’anni, è quanto mai attuale e ben rappresentata nel film da alcune immagini di repertorio che mostrano dei cittadini esasperati mentre protestano contro mafia e scempio ambientale in una probabile Terra dei fuochi.
Oggetto imperfetto, spurio, di una grande poesia, Bella e Perduta è una favola di civica resistenza che diviene manifesto per diverse “cause”: monito per la salvaguardia dei beni storici e artistici (la Reggia di Carditello), cronaca dei disastri ambientali (in Terra dei fuochi), difesa della causa animale che sembra essere preponderante nel film: Sarchiapone è nato maschio e, per l’industria dell’ allevamento, i bufali sono destinati ad una morte prematura per macellazione.
Tuttavia ci si inganna se si considera il film come un manifesto politico finalizzato alla difesa dei diritti degli animali. Sebbene sia lo stesso Marcello che invita a leggere il suo film in questo senso: «Io ho visto i lager. Con Rosi ci siamo andati per realizzare una pubblicità per il parmigiano reggiano e abbiamo visto tutti questi luoghi. Gli animali sono dei numeri. I vitelli non hanno mai visto un pascolo. Il diritto degli animali è di farli vivere in condizioni accettabili. Il diritto dell’animale è che un vitello deve poter pascolare, questo vale per tutti gli animali».
Marcello si appella ai diritti degli animali, sottraendoli alla nozione cartesiana che li riduceva a cose e elevandoli, invece, a soggetti. Ma qualora si cerchi nel poeta un esempio netto e inscalfibile di condotta etica, si rimarrà delusi. Se il co-sceneggiatore Braucci è vegetariano e buddista, Pietro Marcello non si riconosce sotto la stessa bandiera e non è pronto a brandire, per esempio, lo scalpello morale del filosofo vegano Tom Regan che, riconoscendo ai mammiferi adulti lo statuto di «soggetti di una vita (subjects-of-a-life)» perché dotati di un «valore intrinseco», invoca l’abolizione di ogni forma di sfruttamento animale. La posizione di Marcello è più blanda: «L’atteggiamento da adottare non è quello di diventare vegetariani. La gente deve mangiare la carne una volta ogni tanto, mangiare meno carne e la carne buona, di bestie trattate bene».
Il regista vagheggia un presente che possa riappropriarsi dei valori del passato per ricostituire un’ autentica relazione con le bestie e la terra: «In passato i contadini rispettavano gli animali, una vacca aveva un nome e valeva più di una figlia. Ne L’albero degli zoccoli i contadini portano l’acqua santa alla vacca perché non muoia. Noi siamo figli di un altro tempo, un tempo confuso e io sono confuso, si cerca una ragione senza fermarci a pensare».
E in effetti Bella e perduta è un’opera confusa, tanto bella quanto confusa, perché accoglie in sé due propositi opposti. È specchio del tormento interiore del regista che, da una parte, vorrebbe rimanere fedele ai valori di un mondo antico, arcaico, popolato di gente semplice sulla scorta del mito del buon selvaggio di Rousseau, dove uomo e animale vivono un rapporto simbiotico che si fonda sul sacrificio di quest’ultimo; dall’altra parte, egli è tutto proteso verso la modernità, figlio di un’epoca post umana che ha elargito il diritto universale alla vita anche agli esseri viventi non umani.
Dall’acqua santa della vacca di Olmi passando per il battesimo del Balthazar di Bresson, è elevando Sarchiapone a bufalo pensante e sensibile che Marcello crede di poter ripristinare la sacralità della comunione tra uomo e animale, evocata nella sequenza in cui descrive una coppia di contadini che vivono frugalmente assieme ai propri animali da fattoria.
Ma in realtà approda ad un risultato del tutto opposto: il Sarchiapone umanizzato di Bella e perduta è effettivamente il “soggetto-di-una vita” e l’ultima parte del film, che abbandona il genere della fiction per il documentario, descrive la riluttanza da parte del bufalo ad entrare nel container che lo condurrà al macello. Lo spettatore non può che identificarsi con Sarchiapone e non tanto perché entrambi sono eguali nella capacità di soffrire ma perché capaci di progettare e decidere della propria vita, di proiettarsi nel futuro: Sarchiapone intuisce che la morte è prossima e si dibatte perché non vuole morire. L’assunto presente nell’opera è di una tale potenza che supera le intenzioni dichiarate del regista: il diritto degli animali non è solo quello di poter pascolare, come egli sostiene, ma anche di poter continuare a vivere, sembrerebbe dirci la pellicola.
D’altra parte, il riconoscimento del diritto degli animali alla vita, che affonda le sue radici nell’epoca dei Lumi, non collima con la visione nostalgica dell’autore di Bella e perduta di un tempo in cui uomini e animali facevano parte di un unico cosmo saldato da tradizioni e rituali ancestrali in cui la sofferenza e la morte dell’animale non erano considerate tabù ma manifestazioni di un mondo marcato dall’avvicendarsi del principio di vita e di morte, di creazione e distruzione. L’estensione del principio di uguaglianza agli animali, espungendo il principio di morte, è portatore di un paradosso perché mentre afferma l’assimilazione degli uomini agli animali in nome del godimento dei medesimi diritti, ne sancisce la separazione: l’uomo non occupa più il vertice della catena alimentare, in un’ideale ecologia cosmica, perché il suo statuto di onnivoro decade in virtù di ciò che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi, la legge morale.
Bella e perduta è un’opera che non parla solo, seppure in maniera aporetica, della lacerazione del rapporto tra l’uomo e l’animale, ma anche tra l’uomo e la natura. Nel film la voce narrante fa spesso riferimento ad un’ entità che è possibile identificare con Madre Natura, nel cui ventre è stato generato l’uomo. Ma quest’ultimo ne ha sancito anche il divorzio perché ne ha sfruttato le risorse senza moderazione, inquinando, consumando al di là delle proprie esigenze, rendendo la terra inabitabile: «L’uomo si ammala, la terra si rigenera. La questione è l’uomo, viviamo al di sopra delle nostre necessità. Si inquina di più a produrre che a consumare», ci ammonisce il regista, erigendosi a proselita della decrescita, con lo sguardo sempre rivolto al passato, ad un mondo antico, preindustriale, sublimato nelle superbe immagini dei buoi che pascolano in una cornice idilliaca di valli verdi che si estendono tra Campania, Abruzzi e Marche.
Terzo nodo di quest’ opera che canta, malinconicamente, la spaccatura con l’origine e il tutto, è la relazione tra l’uomo e il suo passato storico e artistico. Lo stato pietoso in cui versa la Reggia di Carditello diviene il correlativo oggettivo di questa condizione. Una realtà quanto mai dolorosa per il suo autore che dichiara «aver avuto un’infanzia fortunatissima» perché «cresciuto nella bellezza, all’interno della Reggia di Caserta, sotto le pale d’altare, nelle terre dove affioravano le tombe romane».
Lo sradicamento dell’uomo occidentale rispetto al passato è testimoniato nel film anche dall’incapacità di ‘parlare’ ai morti, al fine di prolungarne la memoria e con essa la trasmissione di un prezioso patrimonio di valori. È per questo che Pulcinella lascia il “palazzo della burocrazia”, il cosiddetto «ministero per la difesa della natura dagli esseri umani»: egli è un intermediario tra i vivi e i morti e la sua missione è quella di esaudire la preghiera di Tommaso Cestrone che chiede, per il suo bufalo Sarchiapone, che sia risparmiato dall’orrore del mattatoio e che possa vivere una vita felice e piena. Pulcinella esaudisce il desiderio di Cestrone solo fino a quando non decide, davanti alle fronde secche dell’Albero della Morte, di rinunciare all’immortalità e divenire uomo. A partire da questo momento egli non è più in grado d’intendere le parole del bufalo e lo abbandona alla sua sorte. Pulcinella, avendo rinunciato alle sue qualità celesti, diviene incapace di sentire in profondità gli esseri e le cose, avendo perduto la dimensione spirituale dell’esistenza.
Bella e perduta è una favola umanista che invita a ripensare il posto dell’uomo all’interno del mondo, a rifondare una coscienza ecologica che trova le sue premesse, innanzitutto, nel rifiuto dell’antropocentrismo; d’altra parte la vicenda del film è raccontata dal punto di vista del bufalo Sarchiapone.
In questo senso Pietro Marcello non è una voce isolata nel panorama cinematografico italiano. Michelangelo Frammartino, a cui il regista casertano è legato da rapporti di stima e amicizia, all’epoca dell’uscita del suo film, Le quattro volte (2010), esprimeva la convinzione che il cinema avesse la responsabilità di mettere in discussione la centralità dell’uomo proprio perché l’arte cinematografica «s’inscrive in una tradizione pittorica che viene dalla prospettiva, e che ha messo l’uomo al centro di tutto». Le quattro volte è un film documentario in cui, attraverso quattro racconti intimamente intrecciati tra loro, sono dipinti i quattro regni di cui si compone il cosmo e su cui si fonda la vita: il minerale, il vegetale, l’animale e l’umano. Frammartino cita, a proposito del suo film, Pitagora: «Abbiamo in noi quattro vite che s’incastrano l’una nell’altra. L’uomo è un minerale, perché il suo scheletro è costituito di sale; un vegetale, perché il suo sangue è come la linfa delle piante; un animale, perché è mobile e possiede una conoscenza del mondo esteriore; è umano perché possiede la volontà e la ragione». Anche qui assistiamo ad un decentramento dell’umano nel contesto, ancora una volta, di un mondo primitivo dove l’uomo è in comunicazione con le forze telluriche.
La memoria dell’abete gigantesco festeggiato in occasione della “festa della pita” ne Le quattro volte viene resuscitata sotto le spoglie dell’albero alto circa 23 metri, ospitato nel Padiglione Zero della scorsa Expo di Milano, la cui chioma fuoriusciva dal soffitto, svettando oltre il tetto del padiglione a rimarcare la supremazia della Natura sull’uomo. Lo stesso padiglione ospitava la proiezione del cortometraggio di Mario Martone, Pastorale cilentana, un film il cui tema ruota intorno alle arti attraverso cui l’uomo ha conosciuto la natura, mettendola a proprio servizio: caccia, pesca, agricoltura e pastorizia sono descritte attraverso il punto di vista di un pastorello che contempla una comunità di uomini che vivono in perfetta sintonia con il loro ambiente.
La figura del pastore attraversa, come un sottile filo rosso, tutte e tre le opere filmiche: in Bella e perduta è Tommaso Cestrone, l’uomo che si prende cura della Reggia di Carditello e del giovane bufalo; ne Le quattro volte funge da “rappresentante” del regno umano; in Pastorale cilentana è l’occhio del giovane che documenta le attività economiche umane all’epoca in cui erano “sostenibili” e in equilibrio con le risorse della terra.
Il pastore diviene, per questi autori, una figura di elezione per diversi motivi. Innanzitutto la pastorizia è una forma di allevamento antichissima che ha avuto un ruolo centrale nelle economie e nelle società del passato e ricontemplarla significa gettare un ponte verso i valori del passato, rifondando un certo primitivismo caro sia a Marcello che a Frammartino. In secondo luogo è la sola attività che implica un rapporto simbiotico tra uomo e animale, ciò che oggi, con l’allevamento industriale, è andato completamente perduto. Tale relazione è al cuore della docu-fiction L’ultimo pastore (2012), realizzata da un altro giovane cineasta, Marco Bonfanti, che racconta il sogno di Renato Zucchelli, ultimo pastore rimasto in una metropoli: egli vuole portare il suo gregge di oltre seicento pecore nel cuore di Milano affinché possano incontrare i bambini, abituati a vivere in luoghi cementificati dove gli animali non si riducono altro che alle piatte silhouette nei libri di fiabe. Questo gesto racchiude, naturalmente, un potente significato simbolico, come lo disse Bonfanti si trattava di «riconquistare il simbolo dell’economia italiana» spodestando quello della finanza.
Alice Rohrwacher, altra regista italiana cui si dice legato Pietro Marcello, ha portato sugli schermi, attraverso il suo film Le meraviglie (2014), un’altra declinazione del pastore: l’apicoltore, pastore di api. Attraverso una fanstasmagoria primitivista il film propone un altro modello di società, dove la solidarietà e l’autenticità si contrappongono al liberalismo sfrenato e all’ipocrisia mediatica. La famiglia di apicoltori conduce uno stile di vita che pare attualizzare l’insegnamento di Thoreau, uno dei padri dell’ecologia politica. In Walden ovvero Vita nei boschi (1854) egli racconta i due anni che ha trascorso in una baracca sui bordi di uno stagno, dove le sue uniche preoccupazioni erano leggere e coltivare un campo di fagioli: ci spiega che si può vivere pienamente limitandosi all’essenziale per apprezzare «la vita all’osso, là dov’è migliore».
Ne La creazione di significato (2014) di Simone Rapisarda Casanova il pastore Pacifico incarna appieno gli ideali dell’ ecologia politica. Nel film c’è una denuncia del pensiero capitalista egemonico che, secondo il regista, in un mondo globalizzato, è responsabile della “perdita” di significato delle azioni umane. Pacifico, ritiratosi in una vecchia casa sulle Alpi Apuane, vive in maniera frugale mantenendo un rapporto di rispetto e simbiosi con l’ambiente naturale. Grazie all’ingenio e alla conoscenza del mondo vegetale e animale può garantire la propria sussistenza, riproducendo in nuce un ecovillaggio. Non solo. Quei monti sono stati il teatro, lungo la cosiddetta Linea Gotica, degli aspri affrontamenti tra partigiani e nazifascisti. Egli è il depositario di quella memoria e dei valori della Resistenza: libertà, democrazia e solidarietà sono valori da coltivare non solo per il vivere comune ma devono anche ispirare atteggiamenti e azioni nei confronti dell’ intero ecosistema in cui siamo immersi.
Note
[1]Q&A di Brat Dejan allo spazio forum di Locarno 2015: http://www.pardolive.ch/it/pardo/pardo-live/pardo-live-TV.html?vid=845591
[2]ARENDT Hannah, Eichmann à Gérusalem, Editions Gallimard, 2002, p. 440
[3]BISSACA Elena, SALZA Alberto, Eliminazioni di massa, Sperling & Kupler, 2012, p. 167
[4]ARENDT H., Vies politiques, Editions Gallimard, 1986, p. 27
[5]ARENDT H., Eichmann à Gérusalem, Editions Gallimard, 2002, p. 495
[6]Ibidem, p. 37
[7]Ibid, p. 440.
[8]Q&A di Brat Dejan allo spazio forum di Locarno 2015: http://www.pardolive.ch/it/pardo/pardo-live/pardo-live-TV.html?vid=845591
[9] WELTCH Robert, cit. in ARENDT H., Eichmann à Gérusalem, Editions Gallimard, 2002, p. 509
[10]Q&A di Brat Dejan allo spazio forum di Locarno 2015: http://www.pardolive.ch/it/pardo/pardo-live/pardo-live-TV.html?vid=845591
[11]http://cinema-scope.com/features/leeching-upon-the-lifeblood-of-the-real-ben-rivers-the-sky-trembles-and-the-earth-is-afraid-and-the-two-eyes-are-not-brothers/
[12]ROBIN COREY, La Peur. Histoire d’une idée politique [2004 ; trad. fr. Armand Colin, 2006]
[13]AGAMBEN GIORGIO, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
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philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 34, march 2016
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