Meditazioni sul giornalismo italiano dopo l’evento del Brancaccio
Salvatore Cingari
Abbiamo passato anni a denunciare l’uso tossico dei mezzi di informazione da parte di Berlusconi: ma la malattia era ed è ben più generalizzata. Il tg1 della sera di domenica 18 giugno ha parlato del Venezuela come di un paese sull’orlo della dittatura per colpa dei chavisti, persecutori di eroici oppositori innamorati della democrazia. Nello stesso programma l’evento del Brancaccio promosso da Tomaso Montanari e Anna Falcone è stato rappresentato molto sinteticamente come il raduno della sinistra che non vuole stare nel Pd, identificata quindi, sostanzialmente, dalla sua divisività incarnata dai fischi a Gotor. Subito dopo un’intervista a Romano Prodi, che al Brancaccio non c’era neppure. Niente (dicasi niente) riguardo alla linea politica dichiarata da Montanari e dagli altri intervenuti. Nulla sul programma (aliquote fiscali, patrimoniale, Stato sociale, articolo 18, etc..), sulla chiara e netta disamina della lotta politica in Italia. Ma, lo si sa, la televisione è bene non guardarla.
Si sarebbe potuto capire di più leggendo il trafiletto che “Repubblica” (il giornale che ha educato generazioni di soggetti della sinistra liberal all’insegna dell’indignazione per la manipolazione berlusconiana) dedicava lunedì all’assemblea sulla Democrazia e l’eguaglianza? No. Niente di più del servizio del TG1. Ma forse allora di meglio si sarebbe potuto trovare nel lungo articolo di Paolo Mieli sul “Corriere della sera” dello stesso giorno? Mieli è considerato un giornalista fuoriclasse e il Corsera un grande giornale. Eppure niente (dicasi niente) viene detto sui contenuti della manifestazione, tranne un accenno sardonico, se non sprezzante, al fatto che il movimento si propone di combattere la disuguaglianza e l’ingiustizia (che accortamente si evita di aggettivare con “sociale”). Mieli si soffermava a lungo sul fatto che una forza di questo tipo, che non dichiara le alleanze possibili, non può non fare la fine del PSIUP, come se non conoscesse la storia di Syriza o di Podemos, né quella del Movimento 5 stelle. A proposito dei grillini, Mieli cita un vecchio sondaggio secondo cui la maggioranza degli elettori della sinistra radicale vorrebbe un’ alleanza con loro, sostenendo quindi che questi sono i più probabili alleati del nuovo movimento. Ciò senza tenere conto dei chiarissimi riferimenti di Montanari al fatto che i grillini sono prigionieri di un’ “oligarchia imperscrutabile” e ormai definitivamente naufragati nella destra securitaria e xenofoba.
Forse Mieli aveva già iniziato i tentativi di denigrazione della nuova sinistra. Ma la sostanza è un’altra: il giornalismo italiano non sa dire altro.
Per Mieli, come per gran parte del giornalismo mainstream dell’Italia (berlusconian-renziana) degli ultimi trent’anni, la politica è fatta di primarie per la leadership, di alleanze di sigle, gossip e satira (e se qualcuno va oltre si gioca la carriera). Non esistono le persone, non esistono le sofferenze di fette sempre più ampie di popolazione, non esistono i problemi se non quelli degli interessi finanziari e proprietari cari alle testate in cui scrivono (e che in libero e democratico paese limitano la libertà di stampa con il condizionamento della pubblicità e dei capitali di maggioranza). In realtà sono decenni che in tutto il mondo si vive in una grande fiction che, come i protagonisti del Truman Show o di Birdman, stiamo disperatamente cercando di interrompere per tornare alla realtà.
Ecco perché Mieli non ha saputo dire che uno dei dati salienti della giornata al Brancaccio è che il nuovo movimento politico si propone di dire e fare cose che non piaceranno (e che non vogliono piacere) al “Corriere della Sera”. Ovvero dire e fare cose a favore di chi nella società non ha potere, togliendo potere (economico e politico) a chi il potere ce l’ha.
Miglior stampa ha avuto l’evento del Brancaccio sul “Fatto Quotidiano”. Ma se leggiamo l’editoriale di Marco Travaglio di mercoledi 5 luglio cosa apprendiamo? Che esistono due liste potenziali a sinistra e cioè Pisapia-Articolo 1 da una parte e i brancacciani dall’altra e che non si capisce come tutti loro facciano a non incoronare subito come leader l’unico che potrebbe condurli a vittoria: e cioè Bersani. Ma Travaglio non dice che lo stesso Bersani tutt’oggi rivendica la correttezza della svolta liberista del centrosinistra degli anni Novanta. La coalizione bersaniana dovrebbe poi allearsi con il Movimento cinque stelle, e cioè il gruppo politico che in Europa stava con Farage e poi ha cercato di entrare nei liberali (e liberisti) europei. Insomma un pezzo, anche quello di Travaglio, tutto incentrato su leadership e alleanze e del tutto vuoto in quanto del tutto privo di agganci a quella realtà che ormai, dagli anni novanta (appunto), è stata risucchiata dai dispositivi della società dello spettacolo. Certo nel “Fatto quotidiano” e in Travaglio va denotato un ulteriore problema: lo stesso che Carlo Galli (Democrazia senza popolo, Feltrinelli, 2016) ha di recente enucleato nel Movimento Cinque Stelle e cioè la sostituzione della centralità della questione politica dei diritti sociali con quella morale della corruzione (che è tema ovviamente eticamente fondamentale ma non all’origine delle odierna deriva “post-democratica”, né politicamente connotato), che testimonia, per il filosofo, l’estremo successo dell’egemonia neo-liberista (da cui non va esente l’onda che dall’ulivismo arriva ai girotondi). Ciò fa si che si perda di vista la concretezza della battaglia politica, che diventa una lotta fra onesti e corrotti, in cui tutte le vacche o sono nere o sono bianche: e che finisce per nascondere e far rimuovere la lotta di classe.
Devo dire però che anche il mio giornale preferito, “Il Manifesto”, che non dipende dalla pubblicità e da ingenti capitali privati, non ha contribuito a migliorare la rassegna stampa in proposito. I pezzi sull’evento del martedì 20 giugno non approfondivano i contenuti e si soffermavano anch’essi sulla spaccatura con Articolo 1 e Campo progressista. La gran parte dello spazio è stata data ad una lunga intervista a D’Alema, che ha anticipato una carrellata di approfondimenti, nei giorni successivi, con il ceto politico MDP fino ad una lunga intervista con Roberto Speranza. Il 19 e 20 luglio addirittura due articoli su Pisapia. Uno spazio incomparabile rispetto a quello riservato ai brancacciani, nonostante che i sondaggi (per quel poco che valgono) non marchino una grande distanza fra i due ipotetici raggruppamenti e nonostante il fatto che fra i brancacciani stessi militino figure e soggetti politici che negli ultimi anni hanno sposato gli orientamenti del “Manifesto”, a differenza dei Bersani, Prodi e D’Alema. Nel forum sulla Sinistra di cui il “Manifesto” ha dato conto sabato 8 luglio, campeggiava una foto di un Massimo D’Alema imbiancato ma carismatico, guardato con maliziosa ammirazione da (credo) la direttrice del giornale. Questa foto è indicativa del fatto che c’è una parte della sinistra anche radicale che ancora conserva una sorta di attrazione affettiva nei confronti di un leader a cui tanti di noi in passato hanno fortemente creduto, negli anni della spiazzante e sconcertante scesa in campo del Cavaliere. L’ultimo leader politico, forse, che nella sua vita aveva trovato il tempo di leggere libri.
Ma questo stesso leader, per vent’anni nella stanza dei bottoni o in quella immediatamente attigua, non ha mai detto (e fatto) una cosa di sinistra, come ci ha insegnato anche Nanni Moretti (prima di farsi irretire anche lui dalla logica del “voto utile”). L’impressione è allora che anche “Il Manifesto” di Norma Rangeri stia finendo nel Matrix trasformistico della recente storia politica italiana, nel tritacarne politicistico in cui – come il Max del finale di C’era una volta in America – vengono frantumati tutti i sentimenti e le speranze di chi vorrebbe una società in cui ci sia meno diseguaglianza di diritti. La sua condivisibile ansia di unità a sinistra insomma, sta naufragando in una rimozione della realtà e della storia affine a quella dei giornali asserviti alla pubblicità e al Capitale. La Rangeri dimentica che le vere alleanze che sovvertono i rapporti di potere avvengono fra gli elettori da un lato e, dall’altro, soggetti politici che promettono reali rotture e rappresentano specifiche lotte e conflitti collettivi. E i loro leader devono essere portatori di un messaggio (anche biograficamente) coerente (vedi Corbyn e Sanders, ma anche Iglesias e Tsipras). Le mere sommatorie han sempre smentito al ribasso la matematica.
Ora a me pare che Montanari sia stato molto esplicito anche su questo. La porta non è chiusa per nessuno, ma deve essere chiaro che le politiche su cui i soggetti convergano, oltre che alternative al PD, dovranno essere in contrasto con quelle dell’Ulivo e del centrosinistra degli ultimi anni, responsabili (anche se non certo unici) del disastro attuale dello stato sociale e della sfera pubblica italiana, in primo luogo per l’acritica consegna del paese alle politiche austeritarie.
Quello che inquieta, infatti, è che non sembra esserci nemmeno la revisione. Bersani si dice “più liberale di Renzi” (intendendo “più liberista”) e sostiene anche che negli anni Novanta era giusto essere liberisti nell’economia e non nella società, mentre oggi che la destra è protezionista anche la sinistra deve tornare a proteggere: come dire che bisogna soltanto adeguarsi all’altrui egemonia. E D’Alema – nel 2017 – ancora pensa di aver portato la libertà alla Serbia e che ancora i serbi (tuttora offesi e feriti nel corpo e nello spirito) lo ringrazino: ma tale dichiarazione (oltre a denunciare un preoccupante distacco dalla realtà) significa non avere consapevolezza di come il neo-liberismo, che pure l’ex premier dice ora di voler combattere, si incarni in concrete politiche estere di tipo imperialistico – che in quel caso miravano a finire di distruggere l’autonomia dell’ex Yugoslavia, non a ripristinare i diritti umani – e in storytelling che hanno stravolto la verità nella testa di generazioni di persone con la favola ideologica dell’esportazione della democrazia (avete presente cos’è oggi l’Irak? Un inferno a cielo aperto). Il problema non è la “legittimità” giuridica della guerra, ma, appunto, la sua sostanza politica ed esistenziale. Che è stata tragica.
Del nodo della rimozione ha scritto Paolo Favilli proprio sul “Manifesto” del 13/7/2017 (fortunatamente ancora spesso si leggono cose buone su questo giornale). Conviene concludere riportando all’attenzione la sua lucida disamina. Per Favilli qualsiasi progetto unitario non può non partire dalla riflessione sul fatto che la partecipazione convinta delle varie ‘cose’ alle caratteristiche culturali ed operative, alle logiche complessive della fase di accumulazione in corso, sia stata davvero la sostanza di un lungo e incisivo periodo storico”. Questo insomma intendeva dire Montanari e non fare dell’”estremismo” come rimproveratogli da D’Alema. “Mi rendo perfettamente conto – continua Favilli – di quanto sia difficile per i protagonisti di una vicenda durata per più di vent’anni fare i conti con i lineamenti di quella storia, ma forse proprio la contestualizzazione storica dei punti programmatici evocati può aiutare a riprendere una visione non tattica, bensì strategica della politica”. E concludeva: “Solo all’interno di questa dimensione analitica la ‘discontinuità’ conclamata dai Pisapia, dai D’Alema, da tutti i sostenitori di un ‘nuovo’ centrosinistra, può acquisire determinazione di significato. In mancanza di analisi è solo l’ennesima forma di astuzia verbale, di perseveranza della tattica in primo luogo”.
Ecco, è di questo che sui giornali bisognerebbe continuare a discutere: non per dividersi, ma per unirsi senza patologiche rimozioni.
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