philosophy and social criticism

Merry Christmas Mr. Lawrence

di Marcello Cella

oshima-conti-mr-lawrenceSenjō no merii kurisumasu (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983)

Regia: Ōshima Nagisa; sceneggiatura: Ōshima Nagisa, Paul Mayersberg; attori: David Bowie, Tom Conti, Ryuichi Sakamoto, Takeshi Kitano, Jack Thompson, Alistair Browning, Johnny Okura; fotografia: Toichiro Narushima; montaggio: Ōshima Tomoyo; musiche: Sakamoto Ryuichi; produzione: Asahi National Broadcasting Company, Cineventure Productions Londono, National Film Trustee, Ōshima Productions, Recorded Picture Company; origine: Gran Bretagna/Giappone/Nuova Zelanda; anno: 1983; durata: 122′.

1. Buon Natale Mr. Lawrence

Giava, 1942. Il campo di prigionia giapponese è retto dal giovane capitano Yonoi, con l’aiuto del sergente Hara, che mantiene i rapporti con i prigionieri occidentali con l’aiuto del tenente colonnello inglese Lawrence che, vissuto per molto tempo in Giappone, è in grado di comunicare nella loro lingua. Lentamente Yonoi cerca di avvicinare gli ufficiali inglesi alla cultura e alle tradizioni giapponesi attraverso i concetti di onore e di disciplina e si serve di Lawrence come tramite, ma i compagni di quest’ultimo, ancorati alla mentalità britannica, lo considerano un traditore. Un giorno arriva nel campo l’ufficiale Jack Celliers la cui presenza turba profondamente Yonoi, che non può dichiarare la propria omosessualità pena l’ignominia assoluta, ma anche i difficili equilibri psicologici fra guardie e prigionieri rompendo molte delle regole vigenti, scritte e non scritte, in questo spazio concentrazionario.

Una notte Jack tenta anche la fuga insieme a Lawrence, ma, catturati, vengono condannati a morte. Solo l’intervento del sergente Hara, il giorno successivo alla cattura, evita il peggio. Infatti è il giorno di Natale e un ubriaco Hara li grazia augurandogli un buon Natale. Yonoi intanto cerca anche di avere informazioni sugli esperti militari inglesi presenti nel campo dall’ufficiale che rappresenta i prigionieri inglesi, il colonnello Hicksley, che rifiuta. A causa del suo rifiuto Yonoi decide di farlo uccidere davanti agli altri prigionieri. Ma al momento dell’esecuzione Jack attraversa la spianata davanti agli sguardi attoniti dei compagni e delle guardie giapponesi, si avvicina a Yonoi e lo bacia. Yonoi sviene e l’esecuzione è sventata, ma sarà Jack ad essere messo a morte, interrato fino al collo e lasciato a spegnersi di fame e di sete dal nuovo comandante del campo. Di notte, Yonoi, si avvicina a Jack, gli taglia una ciocca di capelli e gli rende silenziosamente l’onore delle armi prima di scomparire nel buio. Anni dopo Lawrence e Hara si ritroveranno, a parti invertite, in una prigione inglese dove Hara attende la sua esecuzione per crimini di guerra. Hara informa Lawrence della morte di Yonoi e del fatto che la ciocca di capelli di Jack fu da lui portata presso il tempio di famiglia di Yonoi. Alla fine dello struggente colloquio fra i due Hara saluta l’amico con un’ultima frase: “Merry Christmas, Mr. Lawrence”. Buon Natale, Mr. Lawrence.

 

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2. Colori proibiti

Anch’io indosso colori proibiti, desidero cose proibite, penso cose proibite. Insinuo idee proibite, faccio domande scomode, temo parole scomode. Ma scelgo di dare una possibilità al mio cuore bucato e di sopravvivere a sé stesso.

Ryuichi Sakamoto e David Sylvian, Forbidden colors

 

Nel suo percorso di ricerca dell’anima giapponese attraverso la sua Storia e le sue storie, Merry Christmas Mr. Lawrence costituisce senz’altro il film di Ōshima più controverso e più rappresentativo di questo percorso creativo ed esistenziale seguito dal regista giapponese. Tutte le tematiche trattate da Ōshima nei suoi film precedenti sono presenti, come un bagaglio di cui il regista non può o non sa liberarsi, mentre si avvia ad un difficile confronto con il nemico di un tempo, impersonato imprevedibilmente da una rockstar occidentale culturalmente meticcia e deviante come David Bowie, il quale, smaltite le malinconie cupe della “trilogia berlinese”, proprio con i due dischi prodotti fra il 1980 e il 1983, “Scary monsters” e “Let’s dance” riacquista una apparente leggerezza venata dalle suggestioni orientali ed influenzata, in particolare, proprio dal pop giapponese che ha nel Ryuichi Sakamoto di quegli anni il suo maggiore esponente. Quel Sakamoto che nel film interpreta magistralmente il capitano Yonoi, suo nemico/alter ego. Merry Christmas Mr. Lawrence è un film profondamente e dolorosamente giapponese e nello stesso tempo universale nel suo approccio umanista e pacifista. Apparentemente è un film di guerra, ambientato in una delle location più tipiche di questo genere, il campo di prigionia, ma esso assume il valore di un microcosmo in cui si riflette tutta la cultura e la storia di un Paese, il Giappone, così tanto amato e odiato al tempo stesso da Ōshima.

Eppure questo campo non sembra un luogo chiuso. Anzi, se analizziamo attentamente l’andamento narrativo del film ci rendiamo conto che gli esterni prevalgono sugli interni e non c’è quasi traccia di sbarre o di recinzioni ingombranti, e anche gli interni appaiono come spazi aperti. La prigione è un’isola, quella di Giava, così lontana tanto dalla madrepatria dei carcerieri, quanto da quella dei prigionieri. Un’isola circondata dal mare, le cui recinzioni non sono visibili, ma stanno dentro la testa dei personaggi, nel senso di vuoto, di non-esistenza, e di rimpianto che li pervade tutti, senza distinzioni, e nell’ambiguità di una messa in scena sempre a metà strada, come sempre in Ōshima, fra naturalismo e fantastico. È come se il campo di prigionia rendesse per la prima volta in modo evidente il dilemma da cui sono attraversati drammaticamente tutti i personaggi del cinema di Ōshima, cioè il problema di uscire dal cerchio (dell’interiorità) e superare il doloroso limite che divide l’uomo pubblico dall’uomo privato, i desideri inconfessabili chiusi nel segreto della propria anima dalla necessità di adeguarsi alle forme e ai rituali della vita sociale.

Una soggettività autentica, esigente e feroce, che li contrappone spesso in modo violento al mondo esterno, che li rende anticonformisti e marginali rispetto al proprio mondo di origine, ma li spinge spesso ad abbracciare ciò che appare come radicalmente diverso da sé. Anche quando il diverso dovrebbe essere il nemico e tale slancio assume il volto di una sfida all’ostracismo che la comunità di origine erge come una barriera insuperabile verso l’intruso. “Avevo 13 anni alla fine della guerra e provavo un’immensa curiosità per il nemico che ci aveva sconfitti. Penso che volessimo disperatamente esser compresi da coloro che erano stati i nostri avversari”, afferma lo stesso Ōshima parlando della realizzazione di questo film. E poi: «L’anniversario della fine della guerra noi giravamo a Ranotonga ed io scrissi in una lettera indirizzata ad un amico: “Finalmente sono sceso verso il Sud, molto più lontano di quanto l’esercito e la marina imperiali siano mai andati e giro un film con i nostri antichi nemici”. Scrivere ciò mi ha procurato molta gioia».

La gioia, probabilmente, di poter indagare senza condizionamenti la problematicità e le profondità insondabili dell’animo umano nel momento in cui si trova a dover affrontare eventi eccezionali che rompono l’ordine apparente del vivere sociale come una guerra. E, come sempre nel cinema di Ōshima, sono le tematiche sessuali a chiarire certe zone problematiche della mente umana ed a mettere in luce i rapporti di potere e di sottomissione fra gli uomini. L’episodio iniziale del film, la punizione crudele e pubblica da parte dei giapponesi della guardia coreana che ha fatto delle avances al prigioniero olandese (si noti la nazionalità dei due sventurati protagonisti dell’episodio, entrambi connotati come elementi estranei o marginali rispetto alle due comunità prevalenti all’interno del campo, giapponesi e inglesi) è a suo modo significativa. La punizione deve stabilire i limiti invalicabili dei rispettivi ruoli sociali e sessuali, limiti che però appaiono fin dall’inizio ambigui.

Come risulta evidente nella scena del processo a Jack Celliers/David Bowie, in cui il capitano Yonoi, evidentemente turbato dalla sua presenza fuori dagli schemi, nella sua requisitoria cita Shakespeare, “essere o non essere, questo è il problema”, forse più rivolto a sé stesso che all’uditorio del tribunale militare. Jack, del resto, è un personaggio eminentemente teatrale, come dimostra anche la scena in cui egli mima un dialogo di vita quotidiana davanti allo sguardo esterrefatto delle guardie giapponesi prima della sentenza. E teatrale è la sua finta esecuzione. Ma è un teatro che fa parte della vita e che la pervade sotterraneamente sia nella sua parte in chiaro, che nelle sue oscurità non dichiarate, sia nei gesti di subordinazione al conformismo sociale, sia in quelli che quell’ordine apparente mettono in discussione. In questo senso si spiegano tutti i gesti di ribellione e di rottura che Jack Celliers mette in scena per minare alla radice quest’ordine sottraendosi ai suoi rituali codificati, dal suo rifiuto di combattere con Yonoi, la notte della tentata fuga, piantando con gesto studiato il coltello nella sabbia (“Perchè non vuole battersi?” gli chiede uno stupito Yonoi, senza ottenere risposta) all’offerta dei fiori rossi, di cui lui stesso si ciba teatralmente, allo stesso Yonoi durante il digiuno rituale imposto ai prigionieri dai soldati giapponesi. Gesti che fanno parte della concezione politica ed estetica rivoluzionaria di Ōshima.

«È quasi impossibile che, nel dominio della politica, l’immaginario possa realizzare un’azione reale. Ma io dico “quasi” impossibile. Quando ciò si produce è una rivoluzione», affermava anni prima il regista giapponese. Perché l’immaginario è il rifugio di chi non può o non sa trovare il modo di cambiare la realtà individuale e sociale in cui si trova a vivere affermando i propri desideri reali. «L’immaginario è ciò che appare quando il desiderio si trova interdetto o non può manifestarsi, e questo immaginario è più profondo del problema del desiderio. (…) Uno dei temi centrali del mio cinema è il mondo in cui non si può vivere restando sé stessi, o in cui non è possibile se non diventando un altro», puntualizza ancora Ōshima.

Mr LawrenceJack/Bowie usa quindi l’immaginario per sopravvivere in un ambiente ostile e per mettere una distanza di sicurezza dal proprio rimorso interiore per non aver saputo aiutare, molti anni prima, il fratello più piccolo e sottrarlo ai crudeli rituali di iniziazione al college che lo segneranno per sempre. Ma anche per minare, aggirandolo, i durissimi codici di comportamento dei militari giapponesi, codici che provengono direttamente dall’età feudale, ma che continua ad esistere nel loro cuore e nella loro testa («Il feudalesimo di prima della guerra è stato demolito, ma è rimasto nel cuore di ogni giapponese», afferma ancora Ōshima), come anche la rigidità dei ruoli codificati in cui si riflette il modus vivendi dei prigionieri inglesi. Il conflitto latente tra Jack e Yonoi, e poi tra loro e il contesto sociale del campo di prigionia rimanda del resto ad uno dei temi ricorrenti nel cinema di Ōshima, cioè il conflitto tra il desiderio ed il reale.

Desiderio che attiene spesso alla sfera sessuale e sentimentale dei suoi personaggi ed è fonte di una continua tensione fra l’individuo ed il suo ambiente di vita. L’amore infatti li conduce molte volte a sacrificare i loro obblighi sociali a vantaggio dei loro desideri individuali, ma è un sacrificio che essi pagano spesso con la distruzione della propria identità e con la morte. Merry Christmas Mr. Lawrence in questo senso non fa eccezione, perché il conflitto militare che è alla base del racconto risulta in realtà periferico rispetto ai conflitti intimi dei personaggi, «ognuno dei quali ha i rispettivi dei e demoni dentro di sé». Come la cicatrice di un appuntamento mancato che accomuna Celliers, che non ha saputo proteggere il fratello dalla crudeltà dei riti di iniziazione della società di appartenenza, a Yonoi, che ha partecipato alla rivolta degli ufficiali in Manciuria nel 1936, ma non ha potuto morire con loro e per questo deve subire l’umiliazione di non combattere e di comandare un campo di prigionia lontano dallo svolgersi degli eventi principali della guerra. Per questo la prigionia è una condizione che accomuna in fondo inglesi e americani all’interno di uno spazio in cui è possibile muoversi fisicamente ma non emotivamente e psicologicamente. «Alla chiusura oggettiva nei limiti del campo si aggiunge la prigionia soggettiva che le culture e le tradizioni hanno installato dentro gli uni e gli altri. Giapponesi e inglesi esprimono alla loro maniera determinati blocchi, degli imperativi che rispondono ad un’immagine di sé condizionata, difficilmente rimovibile e fonte nello stesso tempo di ordine e di frustrazioni. I carcerieri ed i prigionieri hanno la loro propria organizzazione e le loro rigidità», impersonate dal capitano Yonoi e, specularmente, dal capitano Hicksley.

Del resto la cronaca che Ōshima realizza sul Giappone fin dagli anni ’60 passa attraverso il racconto di individui la cui frustrazione sessuale e sentimentale trasforma in criminali e/o in malati mentali. Ed è interessante notare come però, in questo caso, alle rigidità emotive e sociali del contesto in cui si svolge la narrazione fanno da contraltare due figure apparentemente marginali nell’economia del racconto, ma che però prefigurano una via d’uscita, un terreno di incontro fra culture e fra individui così diversi, ma così ugualmente infelici, e cioè Lawrence ed il sergente Hara. Questi due personaggi infatti riescono a mediare i conflitti latenti ed espliciti che avvengono all’interno del campo attraverso una reciproca empatia umana che è qualità fondamentale per chi si propone di trovare un terreno di incontro comune per la loro risoluzione. E sono due figure emblematiche. Lawrence infatti conosce la lingua e la cultura dei suoi carcerieri avendo vissuto per anni in Giappone prima della guerra, mentre Hara non ha un vissuto di questo tipo, ma un’innata curiosità per questi soldati così diversi da lui e dai suoi commilitoni per la concezione della vita e della morte di cui si fanno interpreti (significativo in questo senso il loro colloquio in cui Hara chiede a Lawrence perchè i soldati inglesi non hanno preferito morire anziché essere presi prigionieri dai loro nemici). Il significato che assumono questi due personaggi non appare immediatamente e sembrano per lunghi tratti del film fare da controcanto ai due protagonisti, ma il loro farsi portatori di un implicito epos di pace ed il loro essere visti con sospetto dalle rispettive comunità di appartenenza li rende sempre più protagonisti non dichiarati del racconto che, del resto, come viene rivelato alla fine del film, è soprattutto frutto dei loro comuni ricordi. E’ dall’incontro fra questi due personaggi, dall’azzeramento delle distanze che li separano artificialmente che si comprende ancora meglio il gesto del bacio di Jack a Yonoi che distrugge nella sua semplicità dell’andare verso il nemico ogni concetto di spazio di sicurezza, di distanza da rispettare e non oltrepassare pena la condanna sociale.

Un gesto di una forza emotiva, psicologica, sociale e politica dirompente perchè sottolinea come l’incontro e lo scontro fra individui, come fra culture sia fondamentalmente una questione di spazi e di distanze che separano anche quando non esistono barriere visibili, di geometrie che è necessario rompere se si vuole incontrare l’altro; come Ōshima sottolinea sul piano registico nella messa in scena di rigorosa geometria seguita fino a quel gesto di rottura (di spazi) quando improvvisamente inquadrature, suono e montaggio perdono il loro artificioso e freddo equilibrio per assumere una valenza fortemente emotiva. In fondo il tema filosofico principale del film di Ōshima è quello delle distanze che possono dividere o unire gli uomini e le loro culture di appartenenza, e la necessità del coraggio di azzerare questi spazi per riconoscersi fondamentalmente uguali (Come Lawrence afferma in un colloquio con Yonoi: «in fondo io e lei siamo uguali»).

Altrimenti la distanza prodotta dal credersi nel giusto produce vittime innocenti: «Lei è vittima di uomini convinti di essere nel giusto, come una volta lei e il capitano Yonoi eravate convintissimi di essere nel giusto.» – afferma Lawrence nel suo colloquio finale con Hara – «In realtà nessuno è nel giusto. È stato come se Jack Celliers con la sua morte avesse piantato un seme in Yonoi che noi tutti dobbiamo far crescere».

Il messaggio profondamente pacifista di Merry Christmas Mr. Lawrence sta proprio in questa umanissima e profonda affermazione dei limiti umani e della necessità di superarli con coraggio e fermezza riconoscendo che “io sono anche l’altro”. Superando le distanze.

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tysm literary review, Vol 1, No. 4: “Ōshima Nagisa”, Matteo Boscarol (ed.) – march 2013

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