philosophy and social criticism

Mishima e la morte

Francesco Paolella

Come dobbiamo considerare, a tanti anni di distanza, la morte di Yukio Mishima? Una morte violenta e rituale, come tutti sanno: un seppuku consumato il 25 novembre del 1970, nella sede del ministero giapponese della Difesa nazionale. Un suicidio pensato e “spiegato”, per così dire, dallo stesso Mishima, attraverso il Proclama letto da lui stesso poco prima di morire:

«Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto. Siamo stati costretti, stringendo i denti, ad assistere allo spettacolo della politica totalmente perduta in vischiose contraddizioni, nella difesa di interessi personali, nell’ambizione, nella sete di potere, nell’ipocrisia»[1].

Ed è, questa, una sentenza di morte, non tanto per sé – il seppuku prevede appunto che tutto (il ferimento e la decapitazione) si svolga senza lamenti e gemiti, con assoluta imperturbabilità – ma per il Giappone, per una idea di Giappone ormai scomparso. Mishima sancisce la desolazione dell’orizzonte attuale e l’inattualità senza speranza di tutta la sua vita. Il vagheggiato ritorno all’etica samurai si manifesta in una azione, dignitosa e ispirata. A leggere gli scritti politici (politico-spirituali, per meglio dire) dell’ultimo Mishima – scritti che l’editore SE ha pubblicato una decina di anni fa a partire dalle bellissime Lezioni spirituali per giovani samurai – si respira un’aria di disfacimento (per il Giappone imborghesito, imbelle e ipocrita aborrito da Mishima) e, allo stesso tempo, di compimento. Lo scrittore sembra avvicinarsi alla morte senza voler distogliere lo sguardo. Citiamo da una delle Lezioni, quella sull’arte:

«La vita umana è strutturata in modo tale che soltanto guardando in faccia la morte possiamo comprendere la nostra autentica forza e il grado del nostro attaccamento alla vita. Nello stesso modo in cui per saggiare la durezza del diamante è necessario sfregiarlo contro un rubino o uno zaffiro sintetico, per provare la resistenza della vita è inevitabile scontrarsi con la durezza della morte»[2].

Come si sa, l’ultimo Mishima può ricordare da vicino il Pasolini corsaro, che, in quegli stessi anni di nuovi ricchi e di contestazione borghese, gridava contro una società democratica ridotta a teatro e un popolo ridotto a masse di spettatori televisivi. Mishima non aveva superato il dopoguerra. Vedeva la vittoria dell’irresistibile impero americano; contestava, come Pasolini, nuove “liberazioni” che derivavano soltanto dalla rovina di culture antiche e di tradizioni. La libertà occidentale era per Mishima un pervertimento delle antiche libertà: i borghesi non erano che «falsi aristocratici»:

«Ma che tristezza! Si è ovunque circondati da falsi aristocratici. Costoro, non appartenendo ad un’elevata classe sociale, sono totalmente esentati dall’antico e tormentoso giogo feudale che gravava un tempo sugli autentici aristocratici»[3].

Una nazione, il Giappone, ridotto a produzione ossessiva, pacifismo ipocrita, corruzione: contro tutto ciò non restava che un’azione che, come segno visibile di virilità e pudore, mostrasse la non-omologazione del suo autore.

L’idea di provocare una scossa rivoluzionaria in altre persone, si era rivelata in Mishima via via sempre più solo una illusione. L’azione, per essere tale, deve essere il frutto di una decisione individuale, presa in solitudine, e da lì viene ogni possibile, tragica bellezza. Anche se, come si legge nella sua Introduzione alla filosofia dell’azione, mancavano per Mishima ormai del tutto possibilità concrete di cambiamento e la realtà sembrava impedire ogni ipotetica “contaminazione” rivoluzionaria:

«Nutro il dubbio che nel Giappone moderno, per lo meno nell’ambito della legalità, esista ancora la possibilità di compiere una vera e propria azione»[4].

La decadenza e il lerciume impedivano, insozzando tutto, che un eroe potesse ergersi e compiere qualcosa. E’ interessante quest’ultimo punto, da cui viene la domanda: Mishima è morto da martire o da eroe? Come si sa, fra il martire e l’eroe esiste una grande differenza: si rifanno a due archetipi diversi, a diversi stili di vita e a diversi modi di agire. Il martire (specie, ma non soltanto, in campo religioso) è un testimone: è colui che mostra con la propria sofferenza (taciuta, sublimata, trasfigurata) e con la propria morte, una fede e la verità di quella. Ecco San Sebastiano trafitto dalle frecce.

Mishima

All’opposto sta l’eroe: l’eroe non subisce violenza, ma semmai la provoca. L’eroe combatte, soffre, vince e, alla fine, trasforma la realtà. L’eroe da anche disobbedire, ma poi fonda, costruisce. Ecco San Giorgio che vince il drago. Dunque, Mishima è un martire o un eroe? Possiamo dire – d’accordo con quanto ha scritto in un bel volume lo psicologo analista Augusto Gentili[5] – che lo scrittore giapponese fu senza dubbio un martire. Volle testimoniare, aggiungiamo noi, l’impossibilità stessa di essere ormai degli eroi; volle testimoniare l’onore e la fine di un ideale cavalleresco; volle testimoniare la dignità di un vinto. Per un antico samurai, il suicidio rituale era un modo per ribadire fedeltà al proprio signore.

Henry Miller, nelle sue Riflessioni sulla morte di Mishima (1972), un breve saggio da poco riedito da Feltrinelli, ha provato a fare i conti con l’orrore e la bellezza (fusi in una ambiguità irrisolvibile) che ancora oggi ci provengono da quella azione del 1970. Miller ricorda Mishima come un artista ossessionato al contempo dalla gioventù e dalla morte, che consacrò la propria vita al Giappone. Un “patriota” che era anche uno straordinario individualista. Mishima era un guerriero che apparteneva al passato, era un esule nella sua terra.

Nessuna consolazione gli era permessa. Era un uomo eccessivamente sensibile, e per di più tormentato dalla noia. Ma cosa pensava di poter ottenere dalle sue parole, dai suoi gesti, dai suoi proclami?

«Non era un uomo di fede ma di princìpi. Era uno stoico in un’età non di edonismo ma di duro e piatto materialismo. Era nauseato dalla maniera in cui i suoi compatrioti sembravano sguazzare nella loro libertà di recente ritrovata. Come gli occidentali che essi emulavano, la loro visione della vita si era abbassata al livello di quella delle rane. Sparita ogni visione del mondo apollinea o dionisiaca. Soldi, agi, sicurezza – questi erano diventati i valori. Poteva il cancro della vita moderna essere estirpato? Mishima ovviamente pensava di sì. Ma lo pensava realmente? Come possono lo spirito del passato, le frugali virtù dei nostri antenati, innestarsi sul ceppo consunto e degenerato dell’uomo moderno?»[6]

E, dunque, chi era Mishima? Anche per Miller sarebbe illogico definirlo un eroe:

«Non posso credere che tu fossi così estraneo alla realtà, così profondamente solipsista. Questi, ovviamente, sono argomenti che desidererei ardentemente discutere con te nel limbo. Tutto quello che ci è rimasto sono solo congetture. Qualcuno proverà soddisfazione nel chiamarti pazzo, altri nel chiamarti fanatico, e altri ancora nel darti la patente di eroe. Chiunque tu fossi, la tua assenza è una grande perdita per il mondo»[7].

 

Note

[1]Y. Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, SE, Milano 2004, p. 119.

[2]Ivi, p. 16.

[3]Ivi, p. 47.

[4]Ivi, p. 107.

[5]A. Gentili, Il martire e l’eroe. San Sebastiano e San Giorgio: riflessioni su due figure archetipiche, Paolo Emilio Persiani, Bologna, 2014.

[6]H. Miller, Riflessioni sulla morte di Mishima, Feltrinelli, Milano 2016, p. 33.

[7]Ivi, p. 45.

 

[cite]

 

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34, may 2016
issn: 2037-0857
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