philosophy and social criticism

Mosè il rivoluzionario

Francesco Paolella

Micah Goodman ha scritto un libro (L’ultimo discorso di Mosè, Giuntina) dedicato al Deuteronomio, all’ultimo libro del Pentateuco, interessandosene non tanto da storico e filologo, ma da filosofo della politica e della religione. Goodman ha scritto un libro del potere e sui rapporti fra politica e religione. Al centro sta ovviamente la figura di Mosè, le cui parole, il cui discorso finale pronunciato prima di scomparire, vengono appunto sottoposte a una esegesi profonda e originale.

La sovranità è sempre pericolosa. Il potere facilmente corrompe, tanto i singoli quanto i popoli. La forza, la potenza di una nazione fa dimenticare la debolezza del passato, la traversie e le umiliazioni subite. E’ questo uno dei fulcri delle riflessioni di Mosè: cosa ne sarà in futuro di Israele, quando avrà raggiunto la terra promessa? Si ricorderà dell’epoca dell’Egitto o diverrà esso stesso come un nuovo Egitto?

Goodman fa emergere chiaramente tutto il pessimismo di Mosè: gli uomini difficilmente rimangono immuni davanti alle lusinghe della potenza. In questo senso, la fede religiosa, così come proposta da Mosè, può essere un freno agli eccessi di chi governa. La Torà può essere il vero limite all’arbitrio e alle violenze e ingiustizie dei re. Solo la coscienza morale, solo lo studio continuo della rivelazione possono portare a un volontario auto-indebolimento da parte dell’individuo. L’autorità è necessaria, ma nessuno dovrebbe dipendere da essa, né chi la esercita né chi vi si sottopone.

Mosè ha proposto anche una vera e propria rivoluzione nella concezione del potere, volendo limitare l’autorità dei sacerdoti e indebolendo la centralità dei rituali e del Tempio. Mosè ha proposto una fede difficile, interiore e nemica – in nome del monoteismo, ovvero dell’unicità di Dio, di un Dio radicalmente altro e lontano dal mondo – di ogni idolatria, e, prima di tutto, dell’idolatria per il proprio potere.

Il Deuteronomio, in cui lo stesso Mosè tende ad eclissarsi per lasciare in primo piano il popolo eletto, mette l’accento sulla dimensione etica della vita religiosa e sul primato della coscienza sociale, proponendo insomma un punto di vista per così dire “liberale” sul potere; tutto ciò rappresenta una sfida mai conclusa per Israele: sarà quest’ultimo in grado di sopportare una fede senza intermediazioni? E sarà in grado di rappresentarsi sì come il popolo scelto da Dio, amato gelosamente da Dio, ma essendo anche un popolo come tutti gli altri, un popolo normale, senza alcuna pretesa superiorità morale?

La memoria della schiavitù in Egitto, il ricordo della fragilità del passato, avrebbe dovuto appunto essere un antidoto per ogni forma di idolatria e, allo stesso momento, il fondamento della solidarietà nazionale.

 

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