philosophy and social criticism

Mutazione antropologica

Gianni Scalia

«Mutazione antropologica: altro termine da affidare, sembrerebbe, alla scienza antropologica. Cosa intendeva Pasolini per mutazione antropologica? Voleva dire che la società cambia, le sue mutazioni devono essere riconosciute, e operare in esse? È la dialettica della storia, la concezione del “divenire” della perenne diversità? C’è una frase di Pasolini che suona così: «Nella mia storiografia, la successività non conta. Il prima e il dopo obbediscono a leggi poetiche». È difficile non contestargli il suo antistoricismo o non-storicismo?

Ma dobbiamo ricorrere a un’altra frase ancora incompresa: «Così non si può andare avanti. Bisognerà tornare indietro e ricominciare daccapo». La meditazione “poetica” di Pasolini e la sua “disperata vitalità”, è nel ripercorrere la storia a partire dalla fine, in cui il suo sorgere e aprirsi è fermato, bloccato. Lo “sviluppo” non è il progresso. Siamo nel “dopo-storia”.

Quanti di noi che hanno scritto, o scrivono su Pasolini, cercheranno di capire cosa vuol dire “dopo storia”? L’interpretazione più semplice sembrerebbe questa: Pasolini “marxista” ritiene che il capitalismo sia di¬ventato totale, non vi siano contraddizioni nel capitalismo, la sua sopravvivenza sia assicurata. Io non credo che Pasolini pensasse questo. Non pensava che il capitalismo, diventando totale, avrebbe perduto le sue “contraddizioni”.

Pasolini più volte ci indica che la totalizzazione del capitale (quello che chiamavamo capitale o che lui chiamava anche borghesia, non solo in senso economico, ma anche antropologico) è una totalità in quanto unificazione come auto-dissolvimento della contraddizione “dialettica”. Se pensiamo alla nozione di omologazione continuando a sostenere che Pasolini fosse nostalgico di un “mondo arcaico” e inconsapevole di un “mondo moderno”, non ci rendiamo conto che non si può parlare di omologazione nel senso forte. Pasolini ci indicava l’unità dell’arcaico e del moderno nella sua compiutezza ed esaurimento. «Bisognerà ricominciare daccapo».

Ci sono dei versi in friulano della Nuova Gioventù, in parte in friulano in parte in italiano, in cui si dice: «io piango un mondo morto» – questo verso rientra nello standard interpretativo pasoliniano – «ma non sono morto io che lo piango». E meglio, ancora: «non piango perché quel mondo non torna più, / ma piango perché il suo tornare è finito». Piangere etimologicamente vuol dire “essere percosso”, essere ferito, non tanto perché il mondo è morto o perché io sia morto, ma perché questa ferita, ora e qui, è una ferita totale, che non permette la “contraddizione dialettica”; tanto è vero che Pasolini diceva: «via Hegel, tesi, antitesi, sintesi, opposizioni pure».
E cosa vorrà dire opposizioni pure? L’antinomia, la contraddizione, o la sineciosi, figura retorica proposta dall’amico-avversario Fortini per interpretare Pasolini, è qualcosa di incomponibile? Viviamo nella in-contraddittorietà della ferita, o nell’indifferenza alla ferita, nella «miseria nell’assenza di miseria». A questo non si può opporre, per Pasolini, se non la “opposizione pura”.

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