Da Palermo a Palermo. Note su “Tango italiano” di Rino Genovese
Mario Pezzella
Non si deve confondere un falso-diario, il genere letterario usato da Genovese, con un diario falso (come se uno scrivesse uno pseudo diario di Einstein e lo spacciasse per autentico)[1]. Un falso-diario, dichiarato in quanto tale, chiede al lettore riflessione e collaborazione, lo invita a non credere mai nella lettera, a diffidare dei pronomi (Io, tu, etc.), ad aspettarsi un’avventura in bilico tra la realtà e i fantasmi. Ha qualcosa in comune con la pseudonimia, piuttosto; per esempio con quella di Kierkegaard nel Diario di un seduttore. Lo pseudonomista si nasconde dietro un personaggio-scrittore e confonde così il lettore che mai può scoprire (a gioco fatto bene) se ha a che fare con un fantasma immaginario o con un dato biografico. Lo pseudodiarista di Tango italiano in effetti si espone col suo nome e cognome. Apparentemente rafforza così l’illusione di verità di quanto dice: ma in realtà il narrante[2] duplica il narratore come uno specchio anamorfico, che distorce e modifica in prospettive impensabili l’identità originaria.
In questo gioco di riflessi, ci viene il dubbio di assistere a un’evoluzione di fantasmi e l’Io autoriale si disperde come i personaggi di O. Welles negli specchi del luna park alla fine della Signora di Shangai. Il labirinto, metafora centrale della cultura e della storia recente di Buenos Aires, è anche la proiezione dell’io narrante, e non sappiamo se e quanto il racconto sia autobiografico. La città diviene una psicogeografia[3]. Da un lato, essa risponde a un “razionalismo ultraeuropeo”, le avenidas rette e lineari sembrano seguire una razionalità cartesiana; ma questa subisce una dialettica dell’illuminismo[4], per cui la sua stessa geometria conduce alla ripetizione senza fine e al limite del nulla: «Le strade ortogonali ti conducevano sempre al medesimo punto, oppure in punti diversi ma tutti simmetrici e tutti altrettanto fuorvianti» (161).
Non è semplice l’immagine del labirinto, perché è un punto di tangenza e poi di divergenza tra la volontà della costruzione geometrica e il suo indefinirsi in una moltiplicazione senza sbocco. E’ un eccesso oltre ogni limite certo, una circolarità che si ripete, illudendoti di portare rapidamente al nuovo e alla dischiusura o all’aperto. Questo almeno, secondo il narrante, è un primo tipo di labirinto («con al centro il mostro o il nulla» (218), già abbastanza inquietante, ma qui in fondo un’uscita pur sempre permane, anche se difficilissima da trovare, anche se è necessaria un’Arianna a farci da guida. C’è di peggio, e cioè un labirinto senza uscite e senza mura di nessun genere, simile a un deserto: «Qui, in qualsiasi punto tu sia, non sei che un puntino, mentre il nulla grandissimo è in ogni luogo» (218), dice il narrante con accento leopardiano. Se Buenos Aires è un labirinto geometrico, l’interno dell’Argentina è uno sconfinato decentrarsi.
L’uso dell’imperfetto sospende il tempo in una indefinita e irreale ripetizione: «Scendevamo insieme nel feroce barrio borgesiano…(160)», «Il ristorante cinese non era lontano. Ci entravamo (o forse lei ci entrava) con l’aria di chi sa perfettamente ciò che vuole» (178)[5]. Quante volte si sono verificate queste azioni? E in quale spazio? L’imperfetto è il tempo del sogno, in cui tutto sembra avvenire per sempre, non avere inizio né fine. L’atto si condensa in se stesso, come privato del suo trascorrere. La narrazione fuoriesce dal tempo lineare e diviene la frangia di un’idea. Niente è più adatto ad esprimere lo spirito della Buenos Aires di Tango italiano, labirinto popolato di fantasmi di scomparsi, che chiedono riconoscimento e memoria. Forse, dopo che li avessero ricevuti, il tempo potrebbe riprendere a scorrere. Per ora, il trauma inciso nell’inconscio del collettivo ha fermato la storia in uno stupore immobile e ovattato. E’ triste la Buenos Aires visitata dal narrante: «Un’identità intessuta di cadaveri insepolti» (134).
Non che non se ne parli in modo incessante, nell’Argentina in cui compie il suo viaggio l’autore ipotetico di questo falso-diario di viaggio: se ne chiacchiera in modo buffonesco, cialtronesco e grottesco, con tutte le deformazioni che secondo Debord caratterizzano lo spettacolo della politica: in questo clima, anche Julian detto il Turco, un noto torturatore, può partecipare a dibattiti televisivi e discutere dell’alta motivazione dei suoi crimini. A distanza di vent’anni «l’orrore riaffiorava alla memoria collettiva argentina – ma non come ricordo rielaborato, ricostruzione della propria storia: piuttosto solo come spettacolo televisivo» (202). Siamo, quando scrive Genovese, nell’Argentina di Menem. Se un merito ha avuto il kirchnerismo è stato quello di rovesciare i tavoli truccati e di avviare quella che è stata chiamata la “Norimberga argentina”. Non si può dire se questa riflessione, almeno parziale, del trauma, continuerà o se – come spesso avviene in America Latina – ci sarà un nuovo movimento retrogrado (mentre scrivo si sono svolte le prime elezioni dopo la presidenza di Cristina Kirchner, perse dal peronismo di sinistra, che ha ceduto il posto a un neoliberista).
Tuttavia questo libro non dipende poi così strettamente dalle contingenze della cronaca politica. L’autore indaga in generale cosa sia un trauma storico e quali conseguenze abbia sulla coscienza collettiva: da che deriva «il senso di colpa anonimo e generalizzato», entro cui si nascondono e si confondono i “veri colpevoli”? Perché i sopravvissuti cedono a una coazione mortale che spesso li porta al suicidio o alla distruzione della propria identità? Questa domanda, come è noto, si è posta non solo per le vittime della dittatura di Videla, ma anche per quelle dei grandi traumi collettivi del Novecento, primo fra tutti naturalmente quello della Shoah. Secondo Ferenczi (che si riferiva alle violenze sofferte nell’infanzia), il trauma induce uno stato arcaico di coscienza, in cui prevalgono istinti magico-mimetici: identificandosi mimeticamente e in modo inconsapevole con l’aggressore, la vittima pensa inconsciamente di salvarsi. Ma contemporanemente vengono uccisi realmente i suoi amici o i suoi familiari: questo mimetismo inconscio non è riconosciuto dal sopravvissuto e viene percepito oscuramente come una intollerabile complicità con l’aggressore. Nella maggior parte dei casi, nessuna azione reale corrispose a questo impulso magico-mimetico: ma esso basta a confondere l’innocente con il colpevole, la vittima con il carnefice e creare una duratura sottomissione e volontà di oblio. «Perché lui e non io? Da dove tanta fortuna? In cosa sarò stato acquiescente, opportunista o vile?» (139).
Il narrante, stordito dalle copiose bevute di Caffè Borghetti (domestico sostituto del Dom Perignon di J. Bond o dello scotch di H. Bogart), si assottiglia fino a diventare egli stesso un fantasma, sempre sul punto della sparizione, simili a quelli che popolano le strade di Buenos Aires. Il suo trauma depressivo è uno strumento di indagine, lo rende simpatetico a quello storico collettivo, entro le cui rovine si aggira. Del resto, questo è anche lo pseudodiario di qualcuno che ha vissuto gli anni di piombo in Italia, e poi sembra lo abbia dimenticato, non meno di quanto gli Argentini tendano a rimuovere il proprio passato recente. Da altri scritti saggistici sappiamo che l’autore ha ben presente ciò che è accaduto in Italia. Invece il suo Io personaggio è uno sbadato, un dandy un po’ trasognato: e certi suoi atteggiamenti ricordano quelli del blasé, protagonista di Ferito a morte di La Capria. Si potrebbe anzi dire che Tango italiano è il Ferito a morte della generazione dell’autore, e il narrante è un Io deluso e risentito dalla caduta di rivoluzionarie speranze, tramortite dal berlusconismo in rivoluzione passiva, eterna figura ricorrente della politica italiana: «Questo concetto gramsciano mi pareva davvero la chiave d’accesso all’enigma Italia…Cos’era mai, l’irredimibile Italia se non quel paese che se l’era cavata a dispetto di ogni tentativo progressista di redimerla?»(211). In effetti l’idea di redenzione è per noi troppo estrema, troppo radicale; noi “ce la caviamo”.
Perché questo signore disimpegnato e deluso dalla storia, ubriaco di caffè Borghetti, decide di fare un viaggio a Buenos Aires? Il labirinto che domina la figura e l’immaginario della città, lo sente anche dentro di sé, è il groviglio della sua anima, tesa fra divergenti intenzioni e molti inizi che si paralizzano a vicenda. Inizialmente egli cerca se stesso nell’altro: «Provvisoriamente agli antipodi e decentrato solo per ritrovarsi meglio al centro a casa propria, al ritorno»(133). Ma si accorge che lo specchio geografico in cui vorrebbe riflettersi gli rinvia un’immagine irrimediabilmente deforme, che non gli corrisponde, un labirinto di spaesamento, il fantasma degli scomparsi (desaparecidos). Che non gli corrisponde? O forse è proprio questo il perturbante, l’incontro con qualcosa che è sì percepito come radicalmente altro, ma in realtà comunica con il familiare inquietante: un unheimliches, nei termini di Freud. Al narrante diviene visibile in Argentina la natura traumatica della storia del Novecento, anche di quella europea e italiana. Da noi è rimossa, lì riceve una costretta visibilità.
In Italia il labirinto fantasmatico è occultato dalla festosa scenografia berlusconiana (all’epoca in cui è scritto il libro): in Argentina ci imprigiona l’anima, nonostante l’oscena e grossolana spettacolarizzazione del tempo di Menem. Così il narrante intuisce il labirinto dei suoi fantasmi storici, i quali poi coincidono in parte con quelli più personali. Come stupirsi che la sua prima reazione sia di spaesamento e di terrore? Il libro descrive un romanzo di formazione, che porta non alla maturità e sicurezza dell’Io, ma alla conoscenza dei suoi multipli frammenti e delle vertiginose incertezze della fine del secolo. Ciò crea la corrispondenza, in senso proustiano (come proustiano è l’uso dell’imperfetto), tra l’Io e la città: «Camminavo allora per i viali lì intorno, piccolo frammento mobile dentro la città in movimento. Ma stemperare l’orrore di sé passeggiando è impresa vana se i percorsi della città ti riconducono a te stesso…»(159). Tornato a casa, prima di sostenere un impegnativo colloquio col fantasma di Garibaldi sul tema del labirinto, così il viaggiatore riassume il senso della sua conoscenza: «Dunque è così: ciò che amiamo o desideriamo sopra ogni cosa sparisce o muta, o si perverte, senza che noi possiamo farci nulla…Come se tutto fosse solo un sogno, e i nostri sentimenti, le nostre speranze, qualcosa di trascurabile nel gioco delle parvenze, che è l’unica cosa che conta»(236).
Modificando una celebre frase di La Capria su Napoli, Buenos Aires è una città che ti dissolve o ti ferisce a morte, o le due cose insieme. Del resto Napoli – e il Sud italiano – è la nascosta pietra di paragone che riaffiora più volte nel corso del libro: il cui nucleo iniziale sembrerebbe essere la sincronia verbale che insorge tra Palermo, città della Sicilia, e Palermo, quartiere di Buenos Aires. L’omonimia dei significanti crea un corto circuito da cui emergono mondi paralleli e legati da occulte affinità, alla maniera di certi racconti di Borges: e il significato che sembra legare i due luoghi è la morte, vissuta però in modo opposto nelle due città. Giunto a Palermo in Sicilia avvolta da «una foschia di pesante presagio»(199), il narrante vi scopre le Catacombe dei Cappuccini, coi loro «numerosi stramorti…brutti e ridicoli»(200). In realtà questa è una morte secentesca, esibita e barocca, perfino rassicurante nella sua storicità gridata, un «patetico tentativo di trasfigurare il disordine»(200), che porta ancora dentro di sé una traccia della ritualità tradizionale studiata da De Martino: cultura capace di riportare entro un codice purtuttavia abbastanza umano la crisi di presenza che la morte induce nella storia. La morte nella Buenos Aires genovesiana è altra cosa: è quella invisibile del Novecento, quella dei corpi anonimi dei campi di sterminio e dei desaparecidos: morte senza conforto di pianto e nemmeno degnata delle grottesche scenografie siciliane. Perciò il viaggio che era partito da un’affinità, anzi da un puro nome uguale, scopre l’abissale differenza che nel tempo separa un’epoca di celebrazione da un’epoca di sparizione, quale quella in cui appunto viviamo.
Ma è con Napoli, più che con Palermo, che avviene il confronto maggiormente intimo: e non si tratta dei grandi temi della vita e della morte, ma di improvvise emersioni dell’infanzia, suscitate da una somiglianza di occasioni e corrispondenze. Anche qui più che due spazi si confrontano due tempi interiori del narrante, che si intrecciano sincronicamente nella sua visione malinconica:
«…Le dicevo che Napoli era l’arcaico che si sgretolava nel moderno, mentre Buenos Aires il moderno che si sgretolava nell’arcaico: cosicché le due lontane città erano destinate a incontrarsi forse a metà strada, in un punto dell’Atlantico, per sprofondare insieme»(153).
Va detto che l’autore ci invita sempre a non prendere troppo sul serio il suo wertheriano protagonista, in questo caso la sua interlocutrice si mette a ridere «con la ciocca biondoscura che le agitava la fronte», sorpresa dal nichilismo strampalato del suo amico. Eppure da questo nucleo visionario si dipanano poi più concreti incontri con la propria infanzia, per sempio quello coi suonatori ambulanti che cantano un tango di Gardel in un caffè, e si deformano in «grassi pesci affioranti»; «questa visione era certo spiacevole, ma a me venivano in mente altre visioni, altri tempi, altre canzoni: quelli che a Napoli erano chiamati posteggiatori e giravano suonando per caffè e ristoranti…’Come tutto scompare e insieme rimane’, mi dicevo, ‘come tutto si ritrova altrove’, e pensavo alle tante cose dimenticate della mia infanzia dimenticata, e a come mi fosse capitato di ritrovarle talvolta in America Latina…»(163). Così il labirinto in cui ci siamo imbattuti a Buenos Aires, rinvia a un altro labirinto, quello dell’infanzia perduta e della città d’origine divenuta onirica nella memoria, e del resto allo stesso modo inquietante e attraente.
Un altro ricordo affiora nell’incontro coi lustrascarpe di Buenos Aires, simili a quelli ancora esistenti a Napoli agli inizi degli anni Sessanta ( a sette o otto anni, «era un gioco per me andare a sedermi sui troni dorati dei lustrascarpe»), che ci rimandano di riflesso in riflesso fino alle immagini più canoniche del neorealismo cinematografico e al dopoguerra napoletano. Così il presente si palesa non come un definito atomo, ma come un nodo di tempi sovrapposti che si rinviano in echi e rifrazioni, partono dalla nostra biografia individuale e si perdono in fondali inafferrabili, in aloni di tempo, così li chiamava Celan, riprendendo a sua volta un termine di Husserl: «Sembrava che avessi fatto esperienza, attraverso quel rapido trascorrere, della polarità tra il restare e il passare: praticavo la metafisica a Buenos Aires»(152).
Difficile dire se Eva – la protagonista femminile – sia colei che dà al narrante un filo che potrebbe farlo uscire al labirinto, o non piuttosto – dietro un’apparenza di salvezza – lo perda definitivamente, conducendolo dal labirinto urbano a quello ancor più temibile del deserto interno dell’Argentina. Eva è un’anima ambigua, nella quale coesistono un polo salvifico e una pulsione dissolutiva, che contagia irreparabilmente il narrante. Non è questo – del resto – il tratto comune delle eroine da romanzo che egli ama tanto? «La fisionomia di Eva era quella mai vista eppure a lungo fantasticata di qualche personaggio femminile di Dostoevskij: di una Polina, di un’Aglaja…figure contorte e intense»(184). Eva si tiene addirittura nel bagno il Werther («letto e riletto cento volte, oggetto di un culto inesauribile)»(235), e in cucina Madame Bovary, i cui personaggi principali hanno in comune il suicidio. Eva conduce il narrante in un caffè-hotel sperduto e deserto (in quella stagione) del Tigre, su una specie di isola dei morti alla Böcklin, dove si è tolto la vita il poeta argentino Lugones. Il fiume appare palustre ed arcaico: «Non si udiva neanche il rumore dell’acqua, come se il fiume non avesse infine potuto resistere alla tentazione e si fosse trasformato in palude»(189).
Lo scorrere mobile dell’acqua che si arresta, cedendo a una tentazione mortifera, come sotto il dominio di deità infere, è la storia stessa dell’Argentina, che in effetti è rievocata da Eva nelle pagine immediatamente precedenti, da Peron fino alla dittatura. Nel caffè sperduto e triste di Lugones, sulla sua piattaforma di legno oscillante alle onde, avviene un’epifania negativa: «Quale solitudine si era mai impadronita di quell’albergo? Forse si trattava soltanto della chiusura invernale imminente: ma in quel momento mi pareva che tutta la solitudine – quella di Lugones, dell’Argentina, del mondo – si fosse concentrata là, e ci venisse incontro da quelle camere deserte»(190).
Da questo fondo di malinconia della storia, affiora la resistenza del narrante, la sua ribellione, il suo esserci-ancora-appena[6], il suo eroismo minimale, verso il quale l’autore qui mostra, se non una piena identificazione, almeno una certa simpatia. E’ uno “stare” etico, un persistere, nonostante ogni forza contraria di dissoluzione, uno sperare per chi non ha più speranza, perché almeno il nome degli scomparsi ricompaia e si scriva. E poi è un messaggio a Lei, «la ragazza sottile dal lungo collo»(151), immagine indefinita e fantasma potente del desiderio, a cui indirizzare nonostante tutto «almeno un segnale, un grido, se lei fosse da qualche parte sopra l’oscura terra»(239).
Note
[1] Per la verità, nel romanzo in quanto tale non è mai dichiarata la sua natura di falso-diario. Essa si può dedurre dal fatto che il precedente romanzo di Genovese è definito tale fin dal titolo, e dalla prefazione, che l’autore ha scritto a entrambe le opere per la nuova edizione della manifestolibri, L’altro occidente. Dall’Avana a Buenos Aires, Roma 2014. Le citazioni sono da questa edizione e indicate con numero di pagine fra parentesi nel corpo del testo.
[2] Mi riferirò al personaggio del romanzo come narrante, distinto dal narratore-autore.
[3] Termine usato dai situazionisti e da Debord, per descrivere il teatro delle loro derive, e cioè i loro erramenti disorientanti all’interno della grande città.
[4] Con riferimento al noto libro di Adorno-Horkheimer, per i quali la ragione strumentale si inverte in mito.
[5] Nella prefazione citata, l’autore ricorda l’uso dell’imperfetto in Proust.
[6] Si tratta di un concetto di G. Anders.
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34 may 2016
issn: 2037-0857
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