philosophy and social criticism

“…il faut tenter de vivre”. Noterella su un Pasolini in ombra

“Anteo Zamboni”

Steno Arquati e Marco Dotti

Quando i carabinieri si presentarono a casa, nonna Giulia non trovò di meglio che correre verso la sala da pranzo e afferrare una fotografia del figlio. Quel ritratto – pensava, sbagliandosi – poteva di certo bastare per chiarire le cose e calmare gli animi. Dopotutto, Carlo Alberto Pasolini era un rispettato ufficiale di fanteria, uno che nel ’26 aveva salvato la vita nientemeno che al Duce. Le cose, per la cronaca, non stavano proprio così.

Faits divers

Però… però la cronaca a volte è strana e nel ricordo di Giulia tutto si confondeva, tanto più che i verbali densi di retorica del Ministero degli Interni attestavano che Carlo Alberto Pasolini era il responsabile alla sicurezza che «prontamente aveva individuato in un giovane anarchico» di nome Anteo Zamboni l’attentatore che, durante l’inagurazione dello Stadio Littorio di Bologna, era riuscito a esplodere un colpo in direzione di Benito Mussolini.

Poco importa che Zamboni o chi per lui avesse mancato di grosso il bersaglio. Carlo Alberto si immaginava già nei panni dell’eroe, quando la folla e gli uomini della scorta lo riportarono sulla terra: il corpo del quindicenne Zamboni, linciato sul posto, cancellò onori, glorie, ambizioni e forse (ma il dubitativo è d’obbligo) in silenzio, in qualcuno smosse pure anche un po’ di pietà.

Mussolini Ferito«Degli attentati da me subiti», dichiarerà un attonito Mussolini, «quello di Bologna non fu mai completamente chiarito». Già, troppe cose non furono chiarite (né allora, né mai) e forse Carlo Alberto Pasolini avrebbe preferito rimanere nei ranghi, marionetta di seconda fila, piuttosto che sollevare tutta quella polvere.

Carlo_Alberto_Pasolini

Carlo Alberto Pasolini

Ma nella primavera del 1944 quei fatti, quei nomi e, soprattutto, quei dubbi erano ombre lontane. Zamboni era lontano, la folla imbestialita dello stadio di Bologna era lontana. Lontano l’ordine, lontane le adunate, lontano un consenso che prima del 25 luglio ’43 pareva inscalfibile. Anche Carlo era lontano, davvero troppo lontano per proteggere la famiglia con la sua parlantina da ufficiale, le sue stellette, le spille dorate e il portamento da nobile decaduto.

La fotografia che lo ritraeva in Kenya, in tenuta militare, accanto al Duca d’Aosta, comandante delle forze italiane in Africa… Nonna Giulia ci aveva pensato subito, afferrarla, mostrarla, tutti avrebbero capito che si trattava di un maledettissimo equivoco. Ma nella primavera del ’44, ai carabinieri di quella fotografia importava poco o nulla.

Con la nonna c’erano solo Pier Paolo e Guido, 22 e 19 anni. Chi cercavano quegli uomini, con le loro armi e le loro divise? Giulia piangeva, urlava, pregava di lasciarli stare. L’ufficiale la spostò con la forza, puntò la pistola alla tempia di Guido e gli ordinò di seguirlo. Cercavano proprio lui.

*   *   *

Da tempo, a Casarsa della Delizia, paesino friulano nei pressi di Pordenone, dove la famiglia Pasolini si era trasferita, circolavano manifesti che invitavano alla resistenza contro i tedeschi e i loro collaboratori. A Casarsa erano pochi quelli che sapevano scrivere, ancor meno quelli che avevano una seppure minima capacità di analizzare la situazione politica che stava conducendo l’Italia sul crinale, quanto mai frastagliato e incerto, della guerra civile.

Pier Paolo non immaginava ancora, con quanta forza e quanta rabbia, questa guerra avrebbe stravolto l’esistenza sua e di Guido. Come se la folla che aveva atterrito Zamboni si fosse tutt’a un tratto dispersa, sparpagliata tra città e montagne, in cerca di una preda: una qualunque, purché ne saziasse la fame. L’attenzione delle autorità, allarmate per quei manifesti, si concentrò dapprima  proprio su Pier Paolo Pasolini e il suo piccolo gruppo di amici. Solo loro, si vociferava in paese, potevano scrivere cose del genere.

Correvano certe voci, in paese, su Pier Paolo, ma i carabinieri facevano male a seguirle. In una lettera del 29 maggio, indirizzata all’amico Luciano Serra, Pier Paolo Pasolini poteva ancora ironizzare sulla faccenda e sullo stile dei manifesti incriminati. Mai e poi mai avrebbe scritto robaccia del genere, sporcandosi con tanta enfasi e retorica.

A Serra, infatti, confidava: «siamo stati arrestati con grande apparato scenico, accusati di aver sparso bigliettini… di che cosa orrendamente umiliante mi accusano! E noi che abbiamo tanto riso e deplorato la retorica di quel manifesto!».

Pier Paolo Pasolini non immaginava che a riempire la carta di tanta retorica fosse stato suo fratello più piccolo.  Eppure proprio lui, il fratellino, che aveva da poco passato gli esami di maturità, aveva confessato, in una lettera indirizzata al padre in Africa, di sentirsi «angosciato dall’idea di agire». E per agire, Guido agiva, eccome. Mentre Pier Paolo studiava, lui con l’amico Renato rubava armi ai tedeschi.

Forse davvero, come ha scritto Barth David Schwartz, mentre Guido viveva sul piano dell’azione, Pier Paolo traeva spunto da ogni azione, anche dai  nomi dei bombardieri che impazzavano sulle rive del Tagliamento, per giocare sulle corde di nuove parole…  Scriveva infatti Pier Paolo, affascinato dal gergo dell’aeronautica: «sapete cos’è un C 313?  Un “Macchi”? Sapete cosa sono i longheroni, le centine, gli ipersostentatori? Giurerei di no…».

Guido tornò a casa pochi giorni dopo il suo arresto, scuro in volto, il silenzio e i lividi mostravano chiaramente che cosa fosse successo, in quella caserma. Non servivano parole, non servivano a Pier Paolo più di quanto la foto del padre non fosse servita ai carabinieri. E non servivano, soprattutto, a nonna Giulia, che per lo spavento morì di lì a poco. La faccenda poteva chiudersi così, tragedia familiare a parte, ma non si chiuse affatto. Alla fine di maggio, preso dallo sconforto, Guido decise di partire davvero, di andare su per le colline, a nord di Casarsa, dove si sarebbe unito alla divisione Osoppo, che faceva riferimento al Partito d’Azione.

Quella era una zona strana, c’erano i rossi della Garibaldi, quelli che rispondevano solo agli ordini del maresciallo Tito e quegli altri che chissà a chi rispondevano e volevano liberare il Friuli, ma anche loro per unirlo alla Jugoslavia. Altro caos, altra confusione. Troppo per un ragazzo di 19 anni. Guido portò con sé pochissime cose, lo stretto necessario, e il necessario, per lui, erano una copia dei Canti orfici di Dino Campana e un libro di Montale, dentro cui aveva nascosto una rivoltella.

*   *   *

Pier Paolo accompagnò il fratello alla stazione, assieme al fido Renato. Fu l’ultima volta che si videro. Guidò comprò un biglietto per Bologna, Renato per Spilimbergo, poi se lo scambiarono.

A distanza di molti anni, in una poesia  dal titolo A un ragazzo – una delle più intense tra quelle raccolte nel 1961 ne La religione del mio tempo – Pier Paolo rievocò quella partenza:

«L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta, dove dentro un libro di Montale era stretta / tra pochi panni, la sua rivoltella, / nel bianco colore dell’aria e della terra. / Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna: / liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana /pace del lavoro, (…) / Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro,/ legati a quel dolore che ancora oscura il petto. (…) Nella tua nuova vita non è esistito mai / fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai / perché vuoi sapere: esiste solamente / in te come un crudele dolce fiore il presente». 

Il 7 febbraio 1945, Guido venne fatto prigioniero sulle colline sopra Porzûs.

A catturarlo e a processarlo furono i partigiani della Brigata Garibaldi. Condannato a morte, al contrario di molti suoi compagni Guido riuscì a fuggire, trovando rifugio in un casolare. Ma presto fu ripreso, i cani non gli davano tregua. A fine maggio, la notizia della sua morte raggiunse Casarsa: Guido era stato costretto a scavarsi una fossa, a scendervi dentro e lì dentro ad attendere il proprio turno, prima di essere finito a colpi di pistola. 

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Il 12 febbraio ’45, sei mesi dopo la morte di Guido, Pier Paolo scriveva: «La disgrazia che ha colpito mia madre e me, è come un’immensa, spaventosa montagna che abbiamo dovuto valicare, e quanto più ce ne allontaniamo tanto più ci appare alta e terribile contro l’orizzonte. Non posso scriverne senza piangere, e tutti i pensieri mi vengono su confusamente come le lacrime. Dapprincipio non ho potuto provare che un orrore, una ripugnanza a vivere, e l’unico, inaspettato conforto, era credere all’esistenza di un destino a cui non si può sfuggire, e che quindi è umanamente giusto. Tu ricordi l’entusiasmo di Guido, e la frase che per giorni e giorni mi è martellata dentro, era questa: Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo. Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi; io adesso vedo la sua immagine viva, coi suoi capelli, il suo viso, la sua giacca, e mi sento afferrare da un’angoscia così indicibile, così disumana. (…) Bisognerebbe esser capaci di piangerlo sempre senza fine, perché solo questo potrebbe essere un poco pari all’immensità dell’ingiustizia che lo ha colpito».

Il 7 luglio del 1947, Pier Paolo Pasolini entrava per la prima volta in un’aula di tribunale, interrogato dal giudice istruttore di Udine, come parte lesa per la morte del fratello. La morte di Guido rafforzò e in un certo senso radicalizzò l’impegno di Pier Paolo.

La vita, nonostante tutte le ombre, doveva continuare.

«Chiedi a me cosa sia la mia ombra» – scriveva in una lettera all’amico Farolfi – «ma è facile risponderti; è l’assenza di mio fratello».

Eppure era proprio nel vuoto di quell’assenza che, citando una massima di La Rochefoucauld, Pasolini osservava che (allora, e ora più che mai) il faut tenter de vivre.

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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