philosophy and social criticism

Piazza Duomo 39. Rimbaud a Milano

Francesco Paolella

Edgardo Franzosini, Rimbaud e la vedova, Skira, 2018

Questo libro parla di una storia che non è una storia. Di un episodio nella vita di Arthur Rimbaud, episodio di cui però non si sa quasi nulla. Si tratta, senza dubbio, di una prova per molti versi magistrale, e al limite: riempire quasi cento pagine, con tanto di note, senza poter mettere a fuoco ciò che il titolo del volume (Rimbaud e la vedova) annuncia.

Il poeta, nel suo ininterrotto vagabondare da un posto a un altro, da una nazione a un’altra, da una vita a un’altra, arriva a Milano, a piedi dalla Svizzera, nella primavera del 1875. C’è solo un suo biglietto da visita, con un indirizzo scritto a penna, a dirci che Rimbaud sarebbe stato ospite di una casa in piazza Duomo, della cui padrona, una vedova misteriosa, non conosciamo però nulla. Da quell’indirizzo, Franzosini costruisce tutta una serie di ipotesi, trame, divagazioni, il cui risultato è sorprendente: ci fa conoscere la vita di Rimbaud, le sue passioni, le sue relazioni e, soprattutto, ci fa comprendere quanto il “mito Rimbaud” abbia pesato e pesi tuttora sulle ricostruzioni biografiche a lui dedicate.

Non avendo una vera prova in mano, Franzosini immagina i luoghi, le strade, le persone che, con maggiore o minore probabilità, Rimbaud avrebbe potuto frequentare in quelle settimane milanesi. Allo stesso modo, quasi girando attorno a un oggetto che non si può afferrare, ci rimanda con il suo discorso ad altri soggiorni di Rimbaud, in altre città. Tutto per permetterci di mettere a fuoco ciò che rimane in ombra.

Non si tratta soltanto di una prova di erudizione (comunque notevole): sembra di trovarsi di fronte a una specie di evocazione, con cui tentare di richiamare alla luce un fantasma, per riportarne in vita la bellezza ambigua. E’ come se noi trovassimo per caso una vecchia fotografia, del cui soggetto non conosciamo che pochi elementi o uno soltanto. Potremmo iniziare un’indagine accumulando informazioni su informazioni (in questo caso: cosa succedeva in quei giorni a Milano, quali spettacoli c’erano nei teatri ecc.) e, alla fine, dovendoci inevitabilmente fermare a un certo punto, potremmo iniziare a giocare con le ipotesi. Ciò che conta è lo spirito con cui Rimbaud visse a Milano; così come a contare è l’aria che Rimbaud respirò, lo spirito della città in cui si mosse e da cui, spinto dalla sua invincibile “dromomania”, dopo poco tempo scappò: «Una mattina, con tutta probabilità, Arthur informò la sua ospite che era arrivato per lui il momento di rimettersi di nuovo in cammino, di riprendere il suo febbrile vagabondaggio (solo la necessità di lavorare e di guadagnarsi da vivere lo poteva costringere, avrebbe dichiarato qualche anno dopo, a stare “per più di due mesi nello stesso posto”), verso quella destinazione che ancora oggi ignoriamo» (p. 79).

 

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