Pluralismo e convinzione
di PAUL RICOEUR
Come riconoscere un valore di verità alle credenze che non sono nostre senza per questo diventare scettici? Tale è la questione che ci vede riuniti: non è un problema accademico, ma esistenziale, che diventa talvolta un motivo di lacerazione sul piano personale.
Affronterò il problema al livello della società e della sua cultura; non a quello dello stato e della sua politica. Su questo piano, infatti, il pluralismo ha un senso preciso e limitato: lo stato di diritto, almeno nelle democrazie occidentali, è uno stato laico nel preciso senso che in quanto stato esso non professa nessuna dottrina religiosa: non è né per né contro; né religione di stato, né ateismo di stato.
Una siffatta astensione, conquistata a caro prezzo, dopo secoli di guerre di religione e di confusione fra la sfera pubblica e la sfera privata (dove però privata non significa individuale, ma precisamente non pubblica), si fonda sulle due idee della libertà e della giustizia: sulla giustizia, direi, più ancora che sulla libertà. Libertà di coscienza, di riunione, di stampa, d’insegnamento ecc.; ma soprattutto giustizia, cioè: possibilità eguali per il gruppo o la comunità più debole o più minacciata: la regola della giustizia comporta che il gruppo che dispone del minor potere serva come punto di riferimento a ogni legislazione che si proponga di distribuire vantaggi, incarichi, onori, ecc.
Ben diversa da questa laicità di astensione dello stato e della funzione pubblica è la laicità di confronto fra individui, gruppi o comunità che abbiano già acquisita una eguale opportunità di espressione sul piano pubblico. È a questo livello che il pluralismo pone a ciascuno un problema difficile. Nelle società democratiche moderne si tratta di un fatto Ci chiediamo se esso può essere anche un valore degno di essere coltivato sul piano della comunicazione sociale, alla stessa stregua della giustizia, sulla quale, come si è detto, si regge la laicità dello stato.
Propongo, per la nostra riflessione, uno schema semplicissimo, prendendo in esame tre cerchi concentrici:
– pluralismo e convinzione fra cristiani di confessioni differenti,
– pluralismo e convinzione fra religioni (cristiana e non cristiana),
– pluralismo e convinzione fra cultura cristiana e cultura secolarizzata.
1. Fra le confessioni cristiane
Prima di entrare in argomento è bene ricordare i nostri precedenti in Europa, dopo le guerre di religione e i secoli di intolleranza in nome della religione (compresa quella dei protestanti inglesi verso i cattolici irlandesi).
Sullo sfondo di queste violenze si giocava la generale convinzione che una sola confessione cristiana possedesse la verità ed avesse dunque il diritto all’esistenza; mentre l’errore non avrebbe avuto alcun diritto. Per i cattolici, i protestanti erano eretici, esclusi dallo spazio della salvezza; per i protestanti, i cattolici erano idolatri che meritavano la condanna dei profeti dell’Antico Testamento.
Allora l’attuale pluralismo sarebbe davvero soltanto una tregua, un armistizio, un segno di scetticismo? O è invece l’espressione di un reciproco riconoscimento fondato sullo stesso evangelo? Questa seconda è l’interpretazione che intendo sostenere. L’esegesi e la storia della chiesa primitiva ci fanno intendere che la proclamazione dell’evangelo di Gesù Cristo ha aperto uno spazio d’interpretazione che è, esso stesso, molteplice: un arcipelago di comunità debolmente collegate fra loro, diverse interpretazioni cristologiche, diverse implicazioni etiche, varietà di ministeri nella comunità. Ne dà testimonianza il fatto che la chiesa ha accolto quattro evangeli e non uno solo, per dare testimonianza, in una unità pluralistica, alla proclamazione centrale che Gesù è il Cristo.
Dobbiamo riconoscere i valori positivi di questo pluralismo, partendo da una semplice ammissione; ogni comunità è una comunità di ascolto e di interpretazione con un orizzonte limitato e una comprensione finita, mentre il messaggio biblico contiene ricchezze potenziali che vanno al di là dei confini di ogni confessione di fede e, a fortiori, di ogni sistema dogmatico: la storia delle cristianità non coincide con il significato pieno dell’evangelo di Gesù Cristo.
Conclusioni? In negativo: è forse vano cercare un’unione istituzionale che non sembra corrispondere al genio del cristianesimo.
In positivo: pratichiamo collaborazione ed emulazione in una prossimità senza fusione né confusione. E questo, a diversi livelli: ricerca fondamentale (esegesi, teologia, ecc.), come avviene già di regola e in pratica; reciproca istruzione con una sorta di catechesi incrociata; collaborazione in attività di servizio (poveri, terzo mondo ecc.); interventi precisi e comuni in campo legislativo (immigrazione, etica genetica, tortura, intolleranza, ma su questo punto si deve essere modesti, oltre che decisi, in considerazione del nostro passato violento!); e, perché no, insistenza a favore dell’ospitalità eucaristica (questo è un punto che mi sta particolarmente a cuore).
2. Fra le religioni
Davanti al fatto elementare che la religione non è mai esistita se non nelle religioni, si cade nella tentazione di un relativismo di tipo sociologico, che spiega il fatto attraverso le sue circostanze storiche, economiche, sociali, culturali, mettendosi dal punto di vista di un osservatore distaccato. Il problema esistenziale, del quale parlavamo all’inizio, si presenta nel momento in cui apparteniamo o diamo la nostra adesione ad una religione particolare in modo significativo per il pensiero, l’azione e la vita. In che modo allora vivere la tensione fra l’adesione a una fede storica e il riconoscimento del valore di verità delle altre religioni?
L’argomento utilizzato all’interno del cristianesimo non vale più: è la stessa proclamazione centrale del Cristo che è messa in questione. Qui propongo una risposta in quattro stadi.
A) Cominciamo con una prima constatazione che è già paradossale: non è in alcun modo possibile volare al di sopra delle culture e delle religioni: non esiste un punto di vista dalla stella Sirio, perché esso non sarebbe un punto di vista: non si ha accesso al religioso se non in e per mezzo di una religione specifica. In effetti, il problema diventa serio, grave e drammatico nel momento in cui ci si sforza di riconoscere, in qualche modo lateralmente, i valori delle altre religioni partendo da un impegno religioso preciso; al punto che, è proprio in quanto approfondisco il mio stesso impegno che posso incontrare colui che, pur partendo da un altro punto prospettico, compie un movimento analogo.
B) Ma allora, in che modo mantenere questo mio impegno specifico dal momento che so che ne esiste un altro, diverso dal mio? Qui appare un secondo paradosso: appartenere a una religione è frutto di un caso trasformato in destino, per mezzo di una scelta continua. Mi spiego partendo da un’obiezione che sembra, a prima vista, affascinante: se tu fossi nato in Cina mille anni fa, saresti confuciano! La risposta è che tale ipotesi, ancorché seducente, non ha senso, dal momento che in questo caso non si tratterebbe più di me, cioè di un « me » supposto identico e solo trasferito altrove: sto parlando di un altro. Il problema è precisamente quello di questa identità fatta dal caso, ma diventata destino: ma per quale scelta continua?
Si tratta qui della risposta che io do, non a un comandamento ma a un invito: alla proposta di interpretare la mia vita alla luce di quello che il poeta William Blake chiamava il « Grande Codice », cioè l’insieme simbolico delle scritture bibliche. Tale scelta continua è relativa, in quanto vista da un osservatore distaccato; ma è assoluta per me che la faccio, nella misura in cui fra il Grande Codice e la mia vita si stabilisce un circuito d’interpretazione scambievole: da una parte decifro il Grande Codice in funzione delle mie capacità finite di comprensione, di libertà, di gioia che il Grande Codice stesso ha aperto in me; dall’altra, reciprocamente, decifro la mia vita, la leggo, in funzione delle risorse simboliche del Grande Codice, limitato tuttavia dalle mie capacità non infinite di comprensione. È in questo modo che il caso della mia nascita si trasforma in destino.
C) Tuttavia, vi domanderete, questo Grande Codice lascia fuori altri codici di vita! Allora, non è esso stesso relativo, quando ci si ponga al di fuori della lettura che io ne faccio e nel confronto con tutti gli altri codici? Qui mi trovo davanti a un nuovo paradosso.
A mio avviso la figura del Cristo non limita il significato di ciò che io chiamo Dio, ma in un certo modo, ne accresce l’enigma, il mistero. In che modo? Il paradosso è che Dio diventa ancora più Totalmente Altro proprio in quanto viene significato, in modo particolare, dal Cristo. Questo argomento va contro a ogni genere di Gesù-latria, insopportabile per un ebreo, un musulmano o un buddista.
Permettetemi di sviluppare un po’ questo argomento. A mio avviso la figura del Cristo apre quella rappresentazione chiusa e cristallizzata che senza di lui ci facciamo spesso di Dio come patriarca e monarca: un’immagine che posso comprendere anche troppo bene, dato che essa è confermata dalle manipolazioni politiche che ha giustificato. Ora, seguendo la parola dell’apostolo che, nell’epistola ai Filippesi, presenta un Dio che si vuota della sua sostanza, che si annienta, sono costretto a correggere l’idea, di cui mi ero impossessato, di un essere onnipotente, modificandola in quella di una «onnidebolezza» che però non so più come rendere compatibile con la precedente. Ricordiamoci di Bonhoeffer nella sua lettera dalla prigione: «Solo la totale debolezza di Dio può ancora aiutare». Facendo venir meno un’idea semplicistica, troppo chiara, troppo facile da sfruttare (in cosmologia, in etica, in politica), è l’idea di un Dio la cui potenza è quella della sua debolezza che mi aiuta a restituire alla parola «Dio» l’enigma del Totalmente Altro. Il paradosso è allora questo: l’alterità di Dio è proporzionale all’investimento del pensiero nel simbolismo della kenosis (svuotamento, annientamento, cfr. Fil. 2,7 N.d.T.).
D) Eccoci allora davanti al paradosso più grande:
se al fondo della mia fede Dio è veramente Altro, non soltanto altro da me, ma altro rispetto a tutte le mie rappresentazioni, allora posso confessare che la sua alterità si è rivelata e si rivela anche altrove, per l’intermediazione di altre scritture. Ma ancora una volta non posso confessare questo se non sono io stesso ancorato in qualche luogo, se non mi metto ad approfondire e a scavare là stesso dove mi trovo, sperando di sentire l’eco della sonda e del lavoro di trivellazione che i miei fratelli lontani stanno svolgendo in altri siti, lontani dal mio, alla superficie delle culture.
No, davvero non ho altra risposta che questa, che ripeto e riassumo: a) necessità concreta di un impegno circoscritto e finito per comprendere gli altri lateralmente; b) riconoscimento del carattere fortuito e al tempo stesso «destinale» (se posso dire così) di tale impegno e del legame fra i due poli del caso e del destino attraverso un continuo lavoro di interpellare me stesso, gli altri e il mondo in funzione del Grande Codice biblico; c) accesso all’Alterità di Dio attraverso la predicazione della kenosi di Dio; d) incontro delle altre religioni partendo dal Totalmente Altro messo in rapporto con l’orizzonte dì tutte le nostre parole su Dio: parole umane e troppe umane.
3. Fra cultura cristiana e cultura laica
Affrontiamo ora il terzo ciclo del pluralismo, non più interno al cristianesimo e neppure fra le religioni, ma fra quella che chiamerò per brevità cultura cristiana e cultura laica. Questo grande confronto nasce nel cuore stesso della nostra modernità ed è particolarmente arduo nei paesi latini, in quanto la laicità dello stato vi è stata conquistata a duro prezzo e resta per di più fragile, in quanto abbiamo ancora difficoltà a distinguere la laicità di astensione, che è quella dello stato, dalla laicità di separazione, che è quella della società e della sua cultura, e che non è altra cosa che il pluralismo culturale. In questo senso il vecchio confronto fra clericalismo e anticlericalismo non è stato ancora superato.
Mi sembra però che vi è qualcosa di meglio da fare che richiamarci al passato anche recente; dobbiamo piuttosto considerare attentamente la situazione nuova che si è creata fra i due protagonisti in questa fine di secolo. Dalla parte della cultura religiosa la situazione mi sembra essere dominata dal cambiamento di funzione del fatto religioso rispetto alla cultura comune. Da tempo immemorabile la funzione più visibile della religione era stata quella di fondare il legame sociale e di legittimarlo. Sul modello delle altre religioni il cristianesimo lo ha fatto a partire da Costantino e in relazione al crollo dell’impero sotto il peso delle invasioni: la chiesa ha dovuto farsi carico dei barbari ed educarli, dando loro le istituzioni fondamentali (scuole, università, istituzioni e strutture giuridiche di ogni tipo, compreso lo stato, al quale essa ha dato, per mezzo dell’investitura ecclesiastica, un valore sacrale). Quel tempo è finito. La società civile si è emancipata in modo definitivo dalla società ecclesiastica, condannandola ad una difficile scelta: o sparire o inventare una nuova funzione; ispirare e non più fondare, che voleva dire anche dominare.
Ora, questa seconda via mi sembra aperta: non deve essere inventata, quanto piuttosto ritrovata, in quanto la funzione originaria del cristianesimo non era stata quella di fondare la società civile, dato che essa già esisteva; né di fondare la cultura, che veniva dai greci attraverso i romani; né soprattutto di fondare lo stato, che aveva già la sua storia, a partire dalla città greca, Alessandro e i Cesari: insomma il cristianesimo nasceva in seno a una società della quale esso non aveva definito i codici e che non si poneva la questione della legittimità, ma quella del senso, nella prospettiva di problemi radicali come quello del male, la morte, e oggi il nonsenso (su questa questione del senso tornerò più tardi). Se qui una parabola si impone, è quella del lievito nella pasta; ma la pasta non è il lievito! Ora il cristianesimo è ancora lontano dall’essersi abituato al cambiamento di funzione del ruolo millenario della religione e vive questo tempo di mezzo come una crisi di identità.
Dirò fra breve quale compito ne consegue: ma prima voglio chiarire l’altra metà del quadro.
Infatti anche la cultura laica è entrata in una crisi grave. Su che cosa infatti si interroga la ragione moderna? Proprio su taluni sintomi inquietanti; come l’appiattimento della razionalità comunicativa sulla razionalità strumentale: che si ascolti il lamento (in it. nel testo, N. d. T.) aggressivo dei tenori della scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Habermas); altro sintomo è l’incapacità di concepire altre strade per le culture africane, asiatiche, ecc. che non sia quella dell’etnocentrismo europeo, sia pure esportato a San Francisco e a Tokyo!: questo manifesta una grave incapacità di restare aperti verso l’altro; ancora un altro sintomo è la debolezza delle proiezioni del possibile, nascosta sotto il tema rassicurante del declino delle ideologie e più ancora, la perdita dello spirito dell’utopia. Non starò a lamentarmi per il sesso, la droga, la criminalità, che sono soltanto sintomi derivati dei sintomi maggiori.
La causa è più profonda: il «disincantamento del mondo» non ha toccato soltanto la cultura cristiana, ma anche la cultura laica, nella -misura in cui questa era un compromesso instabile fra una religiosità non confessionale e il razionalismo critico.
Tale situazione è senza precedenti e non può venir tradotta nel vecchio linguaggio che opponeva il clericale all’anticlericale. A dire il vero la cultura cristiana e la cultura laica sono come due bestie ferite, due cervi che si sono incastrati con le corna e si sono esauriti nella lotta. Così si è aperto un capitolo nuovo nella storia delle relazioni fra le due culture: un passo incrociato senza precedenti, nel quale le due culture sono chiamate ad aiutarsi l’un l’altra nelle loro rispettive debolezze; e possono farlo, in -quanto devono farlo. Infatti esse hanno un nemico comune, la perdita di senso, la totale privatizzazione degli scopi della vita (quando ne restano ancora); in breve, un individualismo esasperato che produce insieme la più crudele solitudine e il dominio della legge della giungla, che ferisce la solitudine sul vivo, cioè la ferisce a morte.
Di fronte a questa doppia crisi vorrei dire ora il mio pensiero dal punto di vista della cultura cristiana, sperando che sull’altro versante si avvii un processo simile.
Di fronte agli aspetti negativi della secolarizzazione, la prima esigenza è quella di assumere, nel cuore stesso della cultura cristiana, il meglio della cultura laica, e cioè l’intelligenza critica. Il credente non deve forse «render ragione della sua fede»? Questo atteggiamento di apertura è per me l’opposto della sindrome che chiamo del ponte levatoio, cioè tagliare i ponti, rinchiudersi nelle sacrestie per paura di contaminarsi. Questo primo avvertimento non è superfluo, quando ci si rende conto del pericolo di un doppio antintellettualismo in ambito cristiano: il primo prende la forma di un fondamentalismo dell’azione, che è perversione d’una legittima preoccupazione di presenza nei luoghi d’intervento pratico e sociale, ma pur sempre perversione quando diventi un pretesto per non pensare.
Il secondo si manifesta come un fondamentalismo del sentimento: il credente si ripiega su quello che chiama il suo «vissuto», per la più grande gloria di un narcisismo sentimentale. Questi due fondamentalismi sono in egual misura responsabili di una certa diserzione dei cristiani, la cui fede ha cessato di essere coestensiva alla cultura cristiana e alla società attuale. Una siffatta invisibilità della cultura cristiana è particolarmente pericolosa in un tempo in cui essa non dispone più dell’appoggio del braccio secolare e si fonda sulla sola potenza della parola. È essenziale che il discorso della fede non scenda al di sotto del livello della discussione pubblica, o che addirittura si riduca ad una sottocultura. In una recente inchiesta della rivista Esprit, Monsignor Vilnet lanciava un grido di allarme: «La cultura cristiana ha bisogno di ritrovare tutta la sua intelligenza!».
Alla difesa di una fede intelligente aggiungerei il desiderio che tale intelligenza divenga meno apologetica e difensiva per farsi più esplorativa. Ora, mettersi in ricerca è di nuovo un mettersi in sintonia con lo spirito illuministico, che dice: «osa pensare»; esci da una condizione di minorenne, sottoposto a una tutela esterna. Certo, questo spirito di ricerca ha già raggiunto alcuni punti fermi: la pratica di una lettura pluralistica delle scritture, sotto il fuoco incrociato delle scienze umane, dalla filologia alla psicoanalisi; l’inizio di un confronto con chi è diverso da sé, dall’Islam all’ateismo; la presa di distanza dalle tradizionali filosofie di riferimento, che siano il sostanzialismo o l’idealismo; il rispetto della scientificità e la partecipazione alle domande che la ragione scientifica pone a se stessa.
Davvero, i segni dello spirito di ricerca non mancano. Tuttavia molto resta da fare, fin tanto che esso non si confronti con ciascuno dei tre punti di riferimento essenziali della fede: il riferimento a una rivelazione, l’inserimento in una tradizione (cosa più evidente per i cattolici, più nascosta per i protestanti), la sottomissione a una autorità (magistero per gli uni, grandi riformatori e… decisioni sinodali per gli altri).
Anche qui gli inizi non mancano. Molti fra noi sono aperti all’idea che in quello che chiamiamo globalmente e complessivamente la Rivelazione, la voce di un Altro si è mescolata con la voce degli uomini; per cui la scrittura è anche un prodotto della storia. Ne consegue che la Parola di Dio non è tanto un dato quanto piuttosto qualcosa da cercare. Quando apro la Bibbia quello che cerco è una Parola Altra: una parola che valga anche per tutti gli uomini e non solo per una cerchia chiusa di iniziati; una parola che proponga un servizio agli uomini anziché imporre una legge. Soltanto un atteggiamento di questo genere permette di ritrovare gli interrogativi ai quali la stessa ragione moderna ha cominciato a sottoporre le sue certezze: soltanto un fede che si interroghi può dialogare con una ragione che si interroga.
Ma allora, la tradizione? Sì, è un problema grave: essere cristiano significa inserire la propria vita in una tradizione di ascolto, di lettura e di interpretazione che conserva la «memoria pericolosa» della Passione. La tradizione è prima di tutto la lotta contro l’oblio, che costituisce per me la minaccia più grave in una società in cui la tecnologia impone l’obsolescenza dei vecchi strumenti e rovina la memoria culturale. Ma, come insegna la storia delle altre tradizioni, nella scienza, nella letteratura e nell’arte, nessuna continuità va esente da rotture. Tradizione e innovazione sono il diritto e il rovescio della stessa moneta. Non esiste tradizione che, per restare viva, non si debba re-interpretare.
Detto questo è tuttavia vero che lo spirito religioso è facilmente spaventato dal lavoro d’interpretazione: a quello che gli sembra essere un’avventura preferisce la ripetizione e l’identità. Qui lo spirito di ricerca consiste nel mettere l’evangelo «in pericolo di…», pensando al titolo incisivo della psicanalista F. Dolto: «L’evangelo in pericolo di psicanalisi». In questo secondo modo il credente che si impegna per una tradizione viva e rinnovata può ritrovarsi col nazionalista che cerca una ragione che non si appiattisca e si riduca a una ragione strumentale. In altre parole, l’autocritica del dogmatismo religioso va oggi di pari passo con l’autocritica del dogmatismo scientista.
Ancora una parola sull’autorità. Questo è un problema anche per un protestante, che pur si è liberato dal magistero ecclesiastico romano in quanto legislazione dell’atto di fede. Ma anche noi non parliamo forse dell’autorità della Parola di Dio e dei testi canonici e, senza affermarlo esplicitamente, dell’autorità dei grandi testi della Riforma e dei documenti moderni, come quelli del Consiglio ecumenico delle chiese? Non c’è dubbio. Da parte mia riconosco che l’inserirsi in una tradizione di lettura e di interpretazione equivale a riconoscere un’autorità: non mi trovo a esser solo nel mio cantuccio per farmi la mia piccola religione, ma rendo omaggio a un determinato consenso che assicura un minimo di identità con la comunità confessante. Detto questo, un’autorità non è autorità se non in quanto è riconosciuta. Ora, riconoscere un’autorità significa verificarla in tutti gli aspetti della vita: coerenza dell’esistenza personale, apertura di nuovi spazi di libertà, capacità di riconoscere l’altro, il diverso ecc.
Nulla è più pericoloso che confondere autorità e sacro, nel senso di intoccabile e di tabù. L’autorità è un metodo, una disciplina, una via, una maniera di dar credito a una lettura di sé stessi, degli altri, del mondo, guidata dal «Grande Codice».
Io mi do nell’attesa che una parola più forte della mia si dia. In questo modo è ancora e sempre allo spirito di ricerca che io mi do. A questa condizione, rivolta a un fine, l’intelligenza della fede può rimanere o ridiventare presente nel grande movimento di autocritica nel quale la stessa modernità è oggi impegnata.
Per tutte queste ragioni dirò dell’intelligenza della fede quello che P. Moingt dice della teologia nella già citata inchiesta di Esprit: «essa è l’interlocutore obbligato dell’avvenire della nostra cultura se tale avvenire non deve essere un semplice andare alla deriva, una perdita di memoria, una dispersione dei regionalismi della scienza, un rinchiudersi nel sistema e alla fine una rinuncia a quella questione critica che la stessa modernità ha partorito».
Proprio entrando in un confronto con il suo avversario di ieri la cultura cristiana può attribuire al pluralismo un valore positivo senza per questo indebolire la convinzione. Senza di essa infatti la cultura cristiana non avrebbe nulla da portare nel grande dibattito.
[cite]
Conferenza tenuta il 14-3-1987 nell’aula magna della Facoltà Valdese di Teologia. Traduzione di Giorgio Girardet. Testo tratto da Protestantesimo, n. 3 (1987), pp 129-139.
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philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28
september 2015
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