philosophy and social criticism

Dietrich Bonhoeffer: resistenza di una vita priva di resa

di Michele Ranchetti

Il 9 aprile del 1945 moriva impiccato a Flossenbürg Dietrich Bonhoeffer. Sono passati cinquant’anni e la sua figura è ricordata in convegni, conferenze, pubblicazioni commemorative. Anche in Italia, dove la sua opera, a differenza di quella del suo maestro e ‘maggiore’, Karl Barth, è quasi interamente tradotta.

La sua morte, a pochi giorni di distanza dal suicidio di Hitler e della fine della guerra, non ha nulla di casuale: non è solo frutto di un ultimo atto, esito previsto sin dall’origine (dall’internamento del 5 aprile di due anni prima) di un buon lavoro condotto a termine, né ha il carattere di una persecuzione ormai inutile. La sua morte era necessaria perché i sopravvissuti della parte avversa ne avrebbero dovuto temere il coraggio, la certezza e la fede civile, e non solo religiosa. La sua morte, infatti, non è mai stato possibile iscriverla fra quelle, pochissime, dei testimoni di confessione cristiana, cattolici e protestanti, degli anni nazisti.

Stazioni di fede

Il suo itinerario è coerente se il significato della sua esistenza è quello di un testimone che prende coscienza della sua identità (altri aggiungerebbe: di profeta) in modo graduale, non previsto. Dalla famiglia alto-borghese del padre psichiatra e degli antenati, dalla vicinanza (pochi isolati del quartiere ricco di Berlino) con il grande teologo liberale, amico di famiglie Adolf von Harnack, che interrogherà, camminando, sulla speranza cristiana dell’eternità, ma per sentirsi rispondere, per posta, su una cartolina, dopo il primo silenzio: “Siamo figli di Dio, questo basta”, sino alla partecipazione alla congiura contro Hitler, l’internamento e la morte: sono stazioni, certo, di una via Crucis, ma anche di una progressiva diversa intelligenza della Chiesa, della sua realtà e della sua necessità, per riconoscere alla fine, nelle meditazioni del carcere, forse la sua dissoluzione, certo la sua non coincidenza con qualsiasi forma visibile in presenza di un divenire adulto del mondo, che tuttavia riconosce e riceve la sua maturità pur sempre da Cristo.

In queste stazioni di una vita breve (muore a trentanove anni), vi è sempre, costante, il senso della vita da vivere con gli altri: la vocazione, improvvisa, (“sarò teologo” detto a quindici anni a una famiglia quasi incredula che si potesse prendere così sul serio la professione di fede) che non si limita a percorrere i gradi della professione accademica, ma li interrompe, per assumere l’incarico di riprendere l’insegnamento e fissare i caratteri soprattutto nei seminari (“Creazione e caduta”) più che nell’opera sistematica di quegli anni, (Sanctorum Communio), ma anche la stesura, insieme con un ebreo convertito di un catechismo luterano “Se credi, hai“; e poi, la partecipazione alla redazione di una confessione di fede, quella di Bethel, del 1933 che precede la più nota confessione di Barnem, redatta da Barth: contro i cristiano-tedeschi, di fanatica aderenza, come cristiani, a Hitler; sono, in un certo senso, prove, più che esperienze, modelli e forme di vita che si riconoscono tutte parziali, rispetto ad una esigenza maggiore che tuttavia non ha nulla di “estatico” o sacrificale.

Tra i primi Bonhoeffer riconosce (si direbbe: vede) nel paragrafo ariano (l’esclusione di non ariani dall’esercizio delle professioni, e quindi anche dalle cariche ecclesiastiche), il segno di una minaccia radicale, non tanto alla chiesa, che non riconosce la propria crisi (e di fatto reagirà con misure parziali, quasi di autoconservazione) quanto alla verità della religione cristiana. Da allora, il suo impegno si indirizza soprattutto verso la necessità di una presa di coscienza teoretica e pratica, mentre collabora al salvataggio di molti ebrei accompagnandoli nell’espatrio.

Malgrado gli appelli dell’amico-maestro Barth, non partecipa a Barnem, perché la presa di posizione di una chiesa, la chiesa confessante, contro l’orrore dell’hitlerismo, gli sembra parziale e quasi impropria: se la chiesa non può, come chiesa, opporsi al nazismo, se non con la predicazione, il suo “atto ed essere” chiesa è insufficiente. (Dirà, qualche anno dopo: “Chi non urla per gli ebrei, non può cantare il gregoriano”).

Decide quindi di prendere parte come singolo, ad una congiura contro Hitler (che fallirà quasi “per miracolo”), una congiura di alti funzionari, non certo di popolo, non lontani dal rigore borghese di quella “teologia liberale” il cui senso Bonhoeffer riscoprirà nel carcere, con una affettività verso il suo vicino di casa von Harnack che sembra recuperarlo alla ricerca etica degli ultimi mesi della sua vita. Poco prima di essere imprigionato si era fidanzato con Maria von Wedemeyer. Anche l’amore umano, più come premessa che come fatto ed esperienza, è una delle forme di vita di Bonhoeffer.

Passaggi di una biografia

Bonhoeffer ha scritto molto, per i pochi anni di vita e i molti impegni: la sua opera è ora edita con introduzioni indici e note. La letteratura su di lui è vastissima e in crescita, anche in Italia. Ci si può chiedere perché la sua fama non sia ristretta ai pochi cultori di teologia.

Vi concorrono alcuni elementi biografici: la figura del “religioso” incarcerato per ragioni politiche (una contraddizione che potrebbe provocare un’interpretazione fondata sulla rottura della differenza tradizionale alle confessioni di fede), la notorietà acquisita subito con un genere letterario (le lettere dal carcere) che in questo caso fa intravedere anche la costruzione di una teologia senza chiesa, senza culto e disciplina ecclesiastica); la dissoluzione, forse forzata, di qualsiasi riferimento ad una disciplina arcana, come possesso del sacro, riservato al ceto sacerdotale, anche se in ambito protestante e, per i cattolici, l’esplicita riconsiderazione della regula (non tanto regula fidei quanto regula vitae) nella ripresa nei seminari di Finkelwalde di una forma di vita associata di carattere quasi monastico, oltre alla scissione da ogni e qualsiasi riferimento al magistero, all’ortodossia, percepita come liberatoria.

Sono elementi di un’attenzione verso Bonhoeffer che, in certo modo, prescinde dal “valore” della sua speculazione.

Per un’etica non religiosa

Barth non annetteva grande importanza alla sua opera, ma era colpito dalla intuizione di Bonhoeffer del carattere discriminante della persecuzione degli ebrei, per la vita delle chiese e dei cristiani, e dall’altra, parallela intuizione, di una necessaria riconsiderazione dell’ebraismo da parte del cristianesimo, quasi una necessaria via a ritroso verso le proprie origini, il proprio inizio.

Per gli altri, sono le pagine dedicate all’etica, il suo tema per eccellenza, che costituiscono il senso e il fine della sua esperienza: un’etica non immediatamente, anzi non religiosa, che tuttavia passa per il sacrificio senza che questo sia il suo significato.

[cite]

[da il manifesto del 31 marzo 1995]

tysm literary review

vol. 22, issue no. 22

april 2015

creative commons licensethis opera by t ysm is licensed under a creative commons attribuzione-non opere derivate 3.0 unported license. based on a work at www.tysm.org