philosophy and social criticism

Resti della vita psichica. Jung dopo Jung

"Junghismo"

di Marco Dotti

Rinunciare alla forma, tornare nell’ombra, far perdere ogni traccia di sé. Oppure cercare, come suggeriva Robert Musil, «di rivoltare, per quanto possibile, le cose», quando le cose hanno esaurito il proprio corso. Dinanzi allo stallo dialettico di un sapere, quello psicoanalitico, offuscato da raffinatissime quadrature teoriche (talvolta di stampo biecamente scientista, talaltra puramente congetturale o intellettualistica), stordito da logoranti acrobazie linguistiche, e del tutto incapace di affrancarsene ritrovando o rinnovando la naturale vocazione emancipatrice delle origini, è questa la mossa drastica, l’opzione radicale, forse irrinunciabile, da portare a termine, in attesa di tempi migliori, o di un risveglio che, se avverrà, non potrà che disorientare, straniare, svuotare di ogni residuo un’identità ormai logora, invischiata nelle parole d’ordine e nei dogmi esangui delle «scuole» e dei loro movimenti. Questo suggerisce d’altronde la lettura dello studio di Paulo Barone (Lo junghismo. Sfiguramento e resti della vita psichica, Milano 2004) recentemente apparso per i tipi dell’editore Cortina. Non si tratta, beninteso, di una «introduzione a», né di un «invito al pensiero di», come il titolo potrebbe far credere – ma il sottotitolo dovrebbe bastare a mettere in guardia il lettore incauto, o il procacciatore di archetipi: si tratta invece di un lavoro propriamente teoretico-concettuale che, partendo da un’immagine «sottile, precaria, problematica» di Carl Gustav Jung, solo dopo averne messo in moto tutte le risorse critiche opera per il suo svuotamento, per la «defigurazione» e lo «sfiguramento», appunto, di questa immagine, riconsegnata al lettore, nelle ultime pagine del volume, come semplice «resto di sé». Se, da un lato – come scrive Barone che ha ben chiaro il paradosso – è indubitabile che mai come oggi la nozione di vita psichica ha goduto «di un rilievo tanto indiscusso da apparire scontato», talmente scontato da costituire, anche ad un livello immediato, e nonostante l’avversione crescente per la psicoanalisi, «il presupposto tacito del nostro modo di stare al mondo», il nostro spazio comune, è altrettanto vero che, ormai lontana dalle difficoltà e dalle resistenze trovate all’inizio del suo percorso, è proprio a causa del sapere che la concerne, la illumina e la definisce che la vita psichica versa in una «condizione di incontrollabile sovraesposizione». Può, allora, la psicologia analitica, che si è costantemente mossa in una posizione decentrata e laterale, ma sempre con un alto grado di coimplicazione rispetto alla concezione psicoanalitica ufficiale, e in particolare alla metapsicologia freudiana (vero punto di svolta nella considerazione della vita psichica), «aiutarci a mettere a fuoco l’attuale condizione di irretimento» di quest’ultima? Può un sistema complesso, e, per certi versi, strutturalmente indeterminato e dai propositi dichiaratamente aperti come quello di Jung, «primo post-freudiano contemporaneo di Freud», contribuire in qualche modo allo sfondamento di questa situazione, sottraendo l’ambito analitico all’immobilismo de jure e di fatto a cui sembra destinato, richiamandolo, infine, ad una «nuova condizione di partenza»? La sua concezione psicologica ha ancora «qualcosa da dirci a riguardo»?

Sono solo alcune delle insidiose questioni che percorrono e animano il testo, questioni che Barone non cerca mai di eludere, affrontandole con decisione e competenza nei quattro capitoli che costituiscono il corpo centrale del lavoro. Qui, Barone sottopone ad una prova di resistenza molti concetti cardine della psicologia analitica, caricandoli fino al punto di snervamento, tirandoli al limite della loro resistenza intrinseca, e della loro resa esteriore. Ripartire dai resti, è questa la chiave del lavoro, ed è ai «resti» che va lo junghismo cui si fa riferimento: non un pensiero postjunghiano, neppure l’ennesima variante di una dissidenza postuma, ma ciò che sopravvive di una linea teorica spezzata, in cui, parafrasando il discorso che Gilles Deleuze faceva a proposito di Bergson e del «bergsonismo», «lo Jung letterale non sarebbe altro che la sezione più limitata e distaccata» di un fenomeno carsico «più vasto e sottile che la attraversa, la anima e in segreto la risveglia».

Non una liquidazione, quindi, né un affrancamento semplicistico, ma un «mettere alle strette» l’opera di Jung anche attraverso nozioni prese dal suo stesso lascito teorico. Così, sempre nella scia di Deleuze, non dovremmo chiederci quanto le nozioni, particolarmente fluide e sfuggenti, di «risveglio», di «sfiguramento» e di «fragilità» messe all’opera da Barone possano contribuire alla comprensione di Jung, ma come lo junghismo possa contribuire ad un’opera comune di «sfiguramento e di risveglio» della vita psichica. Così, se lo junghismo «avesse una parola d’ordine con cui riassumere la sua procedura di sfiguramento, essa consisterebbe nel prescrivere a ciascuno – a ciascuna forma di vita che si individua col proprio Io, col proprio mondo esterno, col proprio `Dio’ – di restare quello che è». Non un’esortazione a mantenere lo status quo, ma l’invito a riconoscere «che nessuno è già più quello che crede ancora di essere», dal momento che il transito «a cui tutti legano la propria identità si è fatto istantaneo», in altri termini, come direbbe Georg Christoph Lichtenberg, ha «dissodato il tempo», esaurendo in esso e con esso ogni possibilità di metamorfosi.

Restare quello che si è significherebbe, quindi, arrestare un «transito fantasma, rompere delle figure che sono ormai dei feticci, e quindi portare allo scoperto il nessuno, l’anonimo, lo sfigurato, l’istantaneo che già di fatto ogni Io, ogni individuo è». Restare il nessuno che già siamo, mantenendo «in qualità di resti» i profili individuali e la loro storia, vivendo nell’«istantaneità sfigurata» un’individualità che Barone, per marcare la differenza da «un’esperienza psichica configurata», propone di considerare come singolarità.

«Singolare», conclude l’autore, «sarebbe perciò la verità infinitesimale, informale, generica, inclassificabile, de-simbolizzata, immediatamente collettiva della vita psichica», non più fuori dal tempo, ma finalmente capace di portare «la forma-limite del tempo» fuori di sé. Fuori da un sé che, forse, «non ha davvero mai posseduto», perso tra le pieghe, o nell’ombra, di quelle «realtà di rango più basso» in cui, come suggeriva Tadeusz Kantor in un passo di Wielopole Wielopole riportato da in esergo all’ultimo capitolo del libro, «l’oggetto rivela la sua essenza proprio al limite della sua distruzione», in uno spazio-altro, perennemente in bilico «tra l’immondezzaio e l’eternità».

[da il manifesto, 26 .3. 2004]

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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013

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