La malattia dell’autore: Ubu o Jarry?
di Marco Dotti
Una sfinge moderna, un bizzarro enigma o, più banalmente, solo il misterioso autore di una unica, stravagante ma per nulla misteriosa commedia: Ubu.
Nel 1973, agli occhi di Henri Béhar, il grande specialista del movimento Dada che in occasione del centenario della nascita aveva da poco dato alle stampe un importante studio su di lui, Jarry appariva ancora circondato da quella strana commistione di deferenza e sospetto che lo avevano accompagnato per tutta la vita; un po’ come avevano accompagnato padre Ubu, l’assurdo ufficiale il cui nome aveva dato il titolo a una non sempre fortunata serie di pièces teatrali.
Autore capace di influenzare gran parte delle avanguardie europee, Alfred Jarry è stato una figura chiave a cui si sarebbero richiamati un numero indefinito di «revoltés» nel mondo delle lettere, del cinema, della filosofia o del teatro (da Apollinaire a Tzara, da Artaud a Céline, da Ionesco e Michaux col suo «Plume», da Baudrillard a Deleuze, fino a Guy Debord e Isidore Isou).
La sua sagoma di bretone rimaneva pur sempre mobile e decentrata rispetto ai moltissimi tentativi di ricondurla a un contesto storico preciso, e sfuggiva agli sforzi, altrettanto vani, per incastrarla in un canone fatto di sola letteratura e niente più.
Questo perché, come notava Marcel Raymond, la vita stessa di Jarry, che si svolse al di fuori quando non in contrasto con ogni aspettativa sociale, era a poco a poco diventata «fonte inesauribile di fantastico e di burlesco», con i mille aneddoti e le migliaia di leggende metropolitane che la circondavano.
La regola dell’eccezione
Del resto, Jarry non fu soltanto l’inventore, o lo «scopritore» se si preferisce, della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie che, si legge in Gestes et opinions du docteur Faustroll («romanzo neoscientifico» pubblicato postumo, nel 1911), avrebbe come unico scopo quello di «studiare le leggi che governano le eccezioni»; fu soprattutto il primo, straordinario, esaltato propagandista del proprio mito, arrivando, negli ultimi giorni di vita, a firmare documenti e lettere con quello che oramai considerava il suo vero nome di battesimo: «monsieur Ubu».
Può anche capitare, aprendo a caso una enciclopedia, di riscontrare che al nome di Jarry siano dedicate meno righe di quante non ne vengano riservate al suo invadente doppio burlesco, Ubu.
In questo senso, Michel Arrivé – nella voce da lui curata per il Dictionnaire des litteratures de langue française – parla di un vero e proprio «caso» Jarry, quasi si trattasse di una «malattia dell’autore» mai realmente diagnosticata, e tuttavia verificabile grazie a una serie di «sintomi molteplici» e «eclatanti». Primo fra tutti l’assoluta mancanza di un aggettivo modellato sul suo nome: nessuno penserebbe mai – o comunque nessuno ha mai pensato – di parlare di una opera o di un lavoro «jarryque» o «jarryesque», mentre da Ubu sono derivati aggettivi e sostantivi come «ubuesque», tuttora molto in voga in Francia ed entrati anche nel lessico comune col significato di «odioso e ridicolo», oppure al tempo stesso «patetico e insopportabile».
Fra tutti i testi di Jarry, Ubu roi è quello evidentemente più citato, forse il più letto, sicuramente il più tradotto, al di là delle rappresentazioni teatrali che ne sono state realizzate (non frequentissime, in verità): una popolarità da cui ha tratto beneficio anche il resto del ciclo «ubique», da Ubu enchainé a Ubu cocu.
Diverso il destino dei romanzi, degli articoli, degli scritti d’arte e delle poesie che, nonostante il tentativo di pubblicarli in volumi di Opere complete (tentativo intrapreso anche in Italia, sul finire degli anni ’60, da Adelphi, grazie alla cura di Claudio Rugafiori e, in altre sedi, da Vincenzo Accame) rimangono ancora oggi «opera per pochi».
Una stanza per sé
Nato a Laval, l’8 settembre del 1873, superata da poco l’adolescenza Jarry si era trasferito a Parigi dove, tra letture esoteriche, esperimenti di biologia e chimica, pomeriggi nel salotto di Remy de Gourmont e corse forsennate in bicicletta, tra i banchi del liceo Henri-IV gli capitò di conoscere un amico che sarebbe entrato nella sua vita per sempre: Léon-Paul Fargue.
Con Fargue, Jarry amava discutere, condividere le letture dei libri di Marcel Schwob o di figure ormai in ombra, ma al tempo molto influenti, come Fagus e Sar Péladan; insieme leggevano i tarocchi, simulavano duelli a colpi di Browning calibro 9 («oggetto» a cui Jarry ha riservato alcuni dei suoi articoli più belli), si dedicavano alla vita notturna o, appunto, al «velocipede».
In bicicletta
Jarry, dopo una esperienza in una comune, decise che non avrebbe diviso mai più la propria stanza con altri se non con un revolver e con quello che considerava il suo «scheletro esterno», una bicicletta «Clément luxe 96». Acquistata nei giorni precedenti alla prima teatrale di Ubu roi, nel 1896, più che per muoversi la bicicletta gli serviva da monito, per ricordargli che scrittura e passione «dovrebbero considerarsi come una corsa in discesa», lanciati a tutta velocità «dentro il vuoto» (gli scritti di Jarry sul ciclismo sono stati recentemente pubblicati con il titolo Ubu cycliste, dalle Editions Les Pas d’Oiseau, pp. 110, euro 10). Travolto dagli eccessi, alcolista, dedito all’assenzio e all’etere, poverissimo, presto si sarebbe ammalato di una tubercolosi che lo portò alla morte, il 1 novembre del 1907. Poco più che ventenne Jarry aveva comunque preso l’abitudine di frequentare i celebri «martedì» letterari a casa di Mallarmé e di madame Eymery. Fu proprio la presenza di Marguerite Eymery – meglio nota nell’ambiente con lo pseudonimo androgino con cui firmava libri e articoli: «Rachilde, homme de lettre» – moglie del potentissimo fondatore del «Mercure de Frances», Alfred Vallette, ad aiutarlo a muovere i primi passi nel complicato mondo dell’editoria e delle riviste parigine, dopo il fiasco della prima di Ubu roi.
Giorni e notti di scandalo
Il 10 dicembre del 1896, al Théâtre de l’Œuvre, il pubblico si era infatti ribellato all’intercalare di Ubu: «Merdre!». A fare scandalo, però, fu anche il suo rapporto con Fargue, quando cominciarono a circolare voci – mai smentite e mai provate – su una loro relazione omosessuale. Di contro al silenzio di Fargue, che morì nel novembre del 1947, Jarry preferì difendersi accennando al loro incontro in I giorni e le notti. Per altri versi, anche l’incontro con Rachilde diede scandalo, ma in questo caso fu lei a difendersi, stampando, nel 1928, A.J. ou le surmale des lettres, uno dei più interessanti tentativi critici di analisi dell’opera di Jarry.
Se si eccettuano alcuni abbozzi di scrittura teatrale e i primi «esperimenti» poetici giovanili – in seguito raccolti nel volume titolato Ontogénie – è solo dal 1893, quindi dopo l’incontro con Fargue, Rachilde e Parigi, che Jarry cominciò a pubblicare con assiduità, dando corpo a quella straordinaria «macchina da decervellamento» che, a giudizio di Gilles Deleuze, avrebbe aperto la strada a un vero e proprio «ribaltamento dei modi di pensare». Se relativamente noti sono i vari «episodi» del ciclo di Ubu, meno lo sono i suoi romanzi, dagli autobiografici Les jours et les nuits, L’Amour absolu, L’Amour en visite, La Dragonne, a quelli dedicati alla ricognizione di un «assoluto sessuale» come Le supermale o di ambientazione storica come Messaline. Lo stesso può dirsi per la grande massa di articoli, «chroniques», note di critica sociale e recensioni che, dal 1893, Jarry prese a pubblicare con regolarità su «La Plume», «Le Canard sauvage», «la Revue Blanche» e, soprattutto, il «Mercure de France». Testimonianze allucinate, tentativi di criticare una poetica dei generi – «scrivere “romanzo” o “poesia” sotto il titolo di un libro, serve forse per vendere più copie, ma alla lunga inganna lettore e autore che, d’altronde, forse non aspettano che questo: essere ingannati» -, indagini applicate, in termini ironici e grotteschi, alla «psicologia» di alcune figure prevalenti nella società francese fin-de-siècle. Dal magistrato al gendarme, dal giudice, al falsario fino agli odiati conducenti di automobili di omnibus: tutto viene deformato nella lente di Jarry che qui, però, si serve di un calibro diverso rispetto al ciclo di Ubu. Sogna che i commissariati di Parigi vengano «controcolonizzati» da immigrati di colore, arrivati dall’Africa francofona per scoprire «usi e costumi dei barbari d’Europa», fantastica su magistrati alle prese con quotidiani e sempre nuovi «errori giudiziari», funzionari sempre pronti a comportarsi secondo i dettami «ecclesiastici medievali che, quando si trovavano a battezzare dei mostri, si servivano della formula dubitativa» capace di metterli al sicuro da ogni rimostranza della gerarchia, e nel silenzio di tutti dichiaravano: «ti battezzo, a condizione che tu sia un essere umano».
Il messaggio di una sfinge
Jarry immaginava, a conti fatti, una società non troppo diversa da quella che il XIX secolo, preso da un delirio pari solo a quello del suo Ubu, avrebbe lasciato in dote al secolo a venire.
«Noi tutti – scriveva Roger Shattuck – siamo degli Ubu, ancora ciecamente ignoranti della nostra forza distruttiva e, nelle latrine, pratichiamo sistematicamente il lavaggio delle nostre coscienze».
Quella di Ubu, «signore incontrastato di tiranni e cornuti» è, a ben vedere, una commedia «più sconvolgente di qualsiasi tragedia». Forse anche per questo, a cento anni dalla sua morte, oltre ogni attestazione di stima, stupore e sospetto, quello di Jarry risuona ancora come l’enigmatico e beffardo messaggio di «una sfinge».
[da il manifesto, 1 novembre 2007]
tysm literary review
vol. 12, no. 19
september 2014
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