Sacralizzazione della carne e scomunica del corpi
di ALBERTO ABRUZZESE
Bene dire da subito il senso delle parole usate nel titolo. Prima di tutto c’è in gioco la distinzione tra carne e corpo, distinzione che apre una serie di distinzioni, immediatamente più chiare, come ad esempio quelle tra intelligenza localizzata e intelligenza centralizzata (si pensi a quanto la carne lavori senza che il corpo che la mette al lavoro se ne accorga); tra sensibilità presente e sensibilità assente (si pensi al fenomeno per cui l’essere umano continua a sentire vivo l’arto che pure gli è stato amputato; e come la carne riemerga dal coma cerebrale).
Ma si pensi anche – lo ha fatto bene Roberto Esposito (in Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004) – a come questo tema sia stato trattato nel pensiero religioso e politico. E si pensi ad esempio alle sottili distinzioni che il catechismo cattolico ha praticato tra un corpo degno di accogliere l’ostia della comunicazione con Cristo perché corpo in sé, consapevole di sé, e un corpo indegno di questa grazia divina perché solo carne, anche se viva. Si aggiunga la gamma di modi di dire come quelli che definiscono essere una “bestia” un corpo poco dotato di intelligenza. Oppure “carne da macello” una massa umana; ma anche “desiderio della carne” una passione che trascina il corpo fuori del controllo di sé. E infine conviene pensare alle pratiche primitive di una cosmetica per la vita fondata su sostanze organiche in dissoluzione, o alle pratiche dei mistici che si cibavano dei brandelli di carne del lebbroso per entrare in comunione con la pienezza di Dio. Oppure alle pagine e pagine di fantascienza – a partire da Frankenstein – in cui i confini tra carne e corpo si sono fatti sempre più inesistenti ad opera della tecnologia e dunque della sua possibilità di farsi carne, di prodursi in corpi.
Poi sono in gioco le spinte opposte del sacralizzare e del dissacrare. Ma qui, al posto di dissacrare abbiamo preferito usare una parola, solo apparentemente non sinonimica: scomunicare. Essa è parola dotata di potere di interdizione, di sconfinamento da un regime di senso ad un altro, da una dimensione di vita a un’altra. Una parola che nel linguaggio religioso significa espellere dalla comunità di appartenenza come comunità eletta, comunità felice, e che ha per suo archetipo la cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre e il suo entrare nel mondo, in una esperienza carnale e non più divina della vita, dunque sensibile al dolore così come al piacere. Non più corpo che trionfa a immagine del divino, ma carne che patisce la pesantezza della cose terrene.
Su queste quattro focalizzazioni concettuali il titolo enuncia quindi la situazione che stiamo vivendo come campo di forze tra loro in reciproca tensione. Corpi versus carne e così pure sacralizzazione versus mondanizzazione (termine che è anche esso sinonimo di scomunica dell’essere umano gettato nell’esserci della vita bruta, materiale, priva di intelligenza di sé, ma al contempo termine che rovescia il destino della pena in un futuro di riscatto e dunque nella valorizzazione dell’esperienza terrena in cui l’essere umano si ritrova). Ci soffermeremo di nuovo più avanti sul significato di queste distinzioni e cercheremo di articolarle per come si sono presentate nel corso della storia dei media e della loro costruzione sociale della realtà.
Comunque, anche solo istintivamente, possiamo dirci che per carne si può intendere anche una vita corporea espansa, una massa organica che si spinge cioè oltre la prigione di ciò che chiamiamo corpo, oltre la pelle che la racchiude e le ossa che la sostengono. La carne non fa da sostegno alle raffigurazioni sociali dell’identità, mentre invece è appunto il corpo a farsene carico. Questa differenza tra carne come materia vivente senza confini e, di contro, corpi come soggetti socialmente confinati, è molto importante. Tanto più cruciale quanto più va ora attraversando i mutamenti epocali di sistemi che, da essere stati regimi di potere fortemente solidali al loro interno, si stanno via via sfaldando dentro e fuori di sé. Le due piattaforme espressive costituite dalle tecnologie della riproducibilità tecnica e poi da quelle della riproducibilità digitale fanno rispettivamente da strumento-metafora dei due opposti estremi di questo progressivo sfaldarsi della società moderna in altro da sé. Da un lato, al punto massimo di tenitura del sistema, le forme accentratrici dell’immaginario collettivo della società dello spettacolo (il cinema e la televisione), dall’altro le forme decentrate e mutanti, instabili, della società delle reti (il computer). Da un lato i mass media, dall’altro i personal media.
Tuttavia, questa opposizione è oggi molto più teorica che empiricamente sostenibile, e i due lembi della differenza tra elementi della tarda modernità e elementi di post-modernità o anti-modernità si trovano intrecciati in uno stesso movimento piuttosto che schierati su due fronti chiaramente in guerra tra loro. Ma allora dove si colloca o resiste la carne e dove resistono o si collocano i corpi? Il titolo affida la carne alla sfera del sacro e i corpi alla sfera del profano. Ma si ricorre a questa diade sempre nella consapevolezza che – nelle attuali condizioni di processi a doppia direzione di cui si è appena detto – vi sia reciprocità di spinte sociali e anti-sociali tra corpi che scomunicano carne e carne che scomunica corpi. Vale a dire che, della scomunica, qui si assume il valore di tecnica della separazione, della sconnessione. Tecnica che produce mondo a mezzo di separazione.
E dunque, da cogliere nel loro oggettivo intreccio, sono i modi in cui ciascuna spinta fa propri i paradigmi del sacro e quelli del profano. Questi paradigmi, nel primo caso riguardano la dimensione di estrema coesione simbolica e emotiva che le pratiche di sacralizzazione del mondo riescono a ottenere metabolizzando i conflitti tra persona e vita mondana su un terreno superiore a quello della semplice sfera sociale. Nel secondo caso, riguardano la condizione di esilio e ferita che l’essere umano prova quando le forme del suo abitare perdono la loro solidarietà originaria e mostrano allora le limitate capacità dei sistemi collettivi di interazione nel riuscire a costruire un senso del mondo invece che soltanto della società.
Il titolo, in conclusione, enuncia l’incontro reciproco di un processo che vede separarsi tra loro i corpi sociali e di un processo che – invece di intrattenersi ancora nella sostanziale religiosità attribuita a patti di solidarietà collettiva stipulati tra corpi circoscritti in forme giuridiche e statuali comuni – vede sacralizzarsi forme di relazione e di senso fondate su legami non più sociali ma di carne. Legami di carne: questa espressione è in grado di coprire una serie di fenomeni che vanno dal neo-familismo di varie forme di sfiducia nei confronti delle istituzioni e della sfera pubblica alla sempre più diffusa erotizzazione del mondo senza più alcun nesso con la sfera della riproduzione e in gran parte anche con quella della sessualità. Arrivando poi sino ai più estremi esempi di trattamento profondo, sotto-pelle, della carne a fini simbolici (pratiche chirurgiche con cui la carne viene spinta a deturpare le forme del corpo a cui appartiene e quindi a prendere il sopravvento sulle sue estetiche). Sino, infine, a spingersi nelle simbiosi tra carne in quanto parti di corpo e tecnologia in quanto parti di macchine, e più in generale in una sensibilità umana che si con-fonde con la sensibilità del mondo. Si va quindi dalla accezione più convenzionale di una affettività carnale, di sangue, che supplisce la sopravvenuta mancanza di valori societari o se ne sente espulsa, alla accezione non soltanto più innovativa ma in tutto aliena di una dimensione organica del mondo che assorbe in sé l’intera umanità.
Il tema in oggetto in queste pagine è come il corpo sia messo al lavoro dai media. La difficoltà di svolgerlo in modo criticamente soddisfacente sta nel fatto che le parti da prendere in considerazioni sono una confusa nell’altra. Lo sono a partire dalla definizione che ci ha dato di corpo-protesi un autore a questo proposito fondamentale come McLuhan (ma assai conseguente anche al pensiero post-nietzschiano che prima e dopo di lui ha riflettuto sul rapporto tra essere umano e tecnologia). Secondo questa definizione, i media sono emanazioni del corpo, territori del corpo che potremmo dire a lui consanguinei, fatti della stessa pasta. Al contempo, questa difficoltà di distinguere tra corpo e comunicazione è compensata dal fatto che le condizioni ipertecnologiche della società post-industriale ci stanno sempre più avvantaggiando nel capire quali siano le differenze tra corpo e carne, come siano socialmente articolate nelle tattiche e strategie mediatiche. Ed è proprio l’insieme di queste differenze che va mettendo in crisi il pensiero sociologico – o quantomeno i paradigmi che vi hanno assunto una funzione egemonica – nel riuscire a definire la qualità dei rapporti tra società e media nei mondi del post-moderno e del post-umano.
Il quadro teorico e terminologico di cui qui, seppure per distaccarcene, stiamo seguendo le tracce, fa ricorso alle dimensioni di sacralizzazione della carne e di scomunica del corpo in cui è in gran parte inserita nel nodo dialettico di quella tradizione sociologica che ha visto nella modernità un movimento incrociato tra spinte continue – spesso alterne e spesso incrociate – di desacralizzazione e risacralizzazione del mondo. Della coesistenza tra queste opposte spinte, l’odierna scena dei papa-boys può essere, ad esempio, una ottima rappresentazione: generazioni gettate nel paganesimo delle merci e delle loro forme di culto fanno massa intorno al corpo della Chiesa Cattolica, lo spirito dell’adorazione si coniuga con lo spirito delle feste gay o dei raduni rock o del turismo metropolitano no-global. Altro esempio: il divismo cinematografico hollywoodiano tra gli anni Venti e Cinquanta ha elaborato simulacri di divinità in grado di tradurre il sacro fuori dei suoi luoghi religiosi e inserirlo nelle forme del consumo collettivo. Più in generale: i processi di mondanizzazione hanno ridotto il senso del sacro sul versante dell’interazione sociale, ma nelle dimensioni simboliche dell’industria culturale l’immaginario collettivo ha continuato a elaborare e anzi ha sviluppato sino all’estremo ciò che di irriducibile le agenzie di socializzazione moderne andavano liquidando nel retroscena dell’immaginazione sociale.
Tuttavia, per capire come il corpo venga oggi messo al lavoro nella comunicazione, è necessario distaccarsi dalla tipicità del moderno e cogliere invece il carattere atipico di un transito in cui i conflitti di potere non sono soltanto impegnati in una fase particolarmente acuta dei meccanismi di destrutturazione e ristrutturazione (meccanismi appunto sempre messi in atto dai processi di socializzazione dello sviluppo metropolitano e industriale), ma stanno radicalmente mutando il proprio campo di intervento. Stanno entrando in una frontiera che non ha nulla più a che vedere con le linee di confine della geopolitica. Sino alla tarda modernità, o meglio alla modernità ultima della società industriale di massa, la dialettica tra forme di mondanizzazione e forme di sacralizzazione ha agito – almeno come disegno, progetto, dunque nelle sue intenzioni assai più che nei suoi effetti, ed anzi contro i suoi effetti – all’interno di un solo spazio e di una sola narrazione. Questo spazio e questa narrazione hanno riguardato il soggetto moderno e le costruzioni sociali che a siffatto soggetto hanno assegnato un corpo dai tratti inconfondibili seppure estremamente complessi e contraddittori. Una complessità di figure tra loro discordanti che restava comunque solidamente inscritta in una gerarchia di valori sostanzialmente omogenei.
Ora, invece, le grandi narrazioni dei linguaggi del corpo moderno si ritraggono in sé e lasciano spazio ai territori di carne in cui si stanno dis-perdendo. Ecco perché il termine scomunicare è adatto a cogliere la doppiezza di per sé tragica in cui oggi si trovano i corpi sociali, dolorosamente feriti dal doppio taglio di una azione di scomunica che da un lato è quella autoritaria, imperiale, che essi ancora rivolgono contro la ribellione della carne umana in ognuno dei luoghi in cui lo sviluppo moderno l’ha costretta, cacciata, vilipesa o ignorata; e dall’altro lato è quella locale, dissipativa, che invece li aggredisce in quanto corpi dello stato, corpi delle organizzazioni militari e amministrative, corpi istituzionali, ma anche corpi ritagliati dal ruolo sociale che assolvono. Questa scomunica di sé, i corpi la subiscono ad opera della carne che nei consumi e nelle tecnologie ha trovato modo di eccitarsi a tal punto da uscire davvero fuori della propria pelle così come dalle proprie identità sociali.
Un eccedere oltre la società, questo, che – si badi bene – non mostra alcuna possibilità di nuova organizzazione attestata sui modelli classici del rapporto tra mutamenti e movimenti. Né – per immaginarci comunque una messa in forma sociale di questo esorbitare della carne fuori dei territori del corpo – basta ricorrere alle teorie dell’auto-organizzazione. O quantomeno non bastano quelle di cui il pensiero occidentale ha fatto uso, ricorrendo a relazioni personali dal basso, quando si è trattato e si tratta di mettere in campo forze che spezzino le resistenza di organizzazioni ormai sclerotizzate o di poteri troppo verticali e accentratori. Se invece ripieghiamo il ragionamento sulle forme di auto-organizzazione biologica, troviamo proprio qui la sostanziale differenza tra politiche dei corpi e mutamenti della carne, tra processi eterodiretti e processi relazionali che avvengono senza che vi sia possibilità di controllo, di capacità decisionali collocate all’esterno del mutamento.
Lo spunto critico che stiamo qui seguendo è ricavato da un tema trattato con grande raffinatezza culturale da un saggio di Gian Piero Jacobelli (Scomunicare. Il quarto escluso della comunicazione alienante, Meltemi, Roma, 2003), in cui l’atto di comunicare – la sua azione fondatrice, il suo “vero” significato – non viene visto per i legami che instaura ma per quelli che scioglie, spezza, fa decadere: non per quanto esso mette in comune ma per quanto invece appunto s-comunica.
È il rovesciamento anti-hegeliano, antidialettico (almeno tendenzialmente, almeno apparentemente), con cui le avanguardie storiche del primo Novecento hanno fondato strategie della comunicazione opposte a quelle della istruzione e della divulgazione di massa. Queste avevano il loro fondamento nel comunicare sempre di più lungo la retta dei processi di socializzazione determinati dallo sviluppo industriale e dalle ideologie progressiste. Quelle si davano un fondamento diverso: comunicare sempre al di là del già comunicato, del socialmente e istituzionalmente comunicabile; spingersi oltre il visibile; sfondare le barriere dello spazio-tempo. La novità dell’espressionismo, del futurismo, del dadaismo e del surrealismo era consistita nei gesti di una creatività determinata a scomunicare il mondo delle merci e quindi dei suoi sistemi di comunicazione.
Ma sta proprio in quella esperienza intellettuale di avanguardia la rottura paradigmatica grazie alla quale i linguaggi delle mode e dei consumi hanno assunto un ruolo sempre più forte rispetto ai linguaggi della tradizione. È qui la prima clamorosa apertura del pensiero al mondo. Ed è infine qui il punto di incrocio – s’era alla vigilia delle piattaforme espressive costituite dalla televisione – tra estetizzazione della vita quotidiana e mutamenti sociali. Le avanguardie storiche individuarono così il nuovo territorio di invasione per lo spirito egemonico del soggetto della modernità. Verso questo nuovo territorio – sempre più luogo di conflitti simbolici piuttosto che di classe – esse indirizzarono le culture del mercato assai più che le culture politiche e istituzionali. Queste ultime, infatti, non erano in grado di assorbire una lezione che veniva dalla sfera estetica del desiderio invece che da quella sociale del lavoro e delle leggi, dalla sfera del sacro invece che da quella religiosa dei legami di solidarietà nazionale. Il rapporto tra avanguardie storiche e rivoluzione sovietica finì con il trionfo dello stalinismo. Il rapporto tra futurismo e cultura nazionale italiana restò affogato nella frustrazione neorisorgimentale che dette luogo al fascismo. L’immaginario espressionista tedesco capitolò di fronte alle estetiche del sublime messe in opera dal nazismo come forma perversa della vocazione imperialista moderna (e europea). E non oso pensare a cosa possano preludere le attuali forme di neo-surrealismo con cui alcune culture post-politiche della metropoli o dei consumi pensano di potere insorgere contro le roccaforti della modernità in nome ancora di un potere di sconnessione, un punto di vista critico, che è stato uno dei più efficaci materiali di costruzione di quelle stesse roccaforti.
Tra s-comunicazione e creatività o innovazione c’è una stretta affinità. Si tratta di tre diversi modi di dire la stessa forza significante che si produce nel mettere in comunicazione l’inatteso, l’inaudito, l’imprevisto. Qui sta la forza politica di una nuova relazione, cioè la produzione di un nuovo rapporto di potere: legare insieme, unificare in una medesima soggettività, cose che prima appartenevano a domini di senso diversi e distanti tra loro.
L’idea pilota di queste note, sta nel cogliere dentro la nostra società contemporanea – nostra nel senso di abitanti del mondo occidentale in cui il sistema Italia è immerso – un passaggio solo per certi aspetti tipico della modernità ma al tempo stesso giunto forse ad un suo punto di catastrofe. Catastrofe mondiale in quanto capace di rivoluzionare la storia del mondo. Di questa catastrofe, il corpo è oggetto e insieme territorio e teatro. Siamo dunque di fronte a una catastrofe mediatica. Le cronache del presente ci mostrano quanto l’immaginario planetario sia attraversato sempre più da eventi che assumono il loro carattere catastrofico – cioè di eventi spinti oltre il loro semplice valore di crisi provvisoria – proprio attraverso i media: dalle Due Torri del 2001 al ciclone Katrina del 2005, la carne delle vittime è sottoposta a un doppio scempio. Il primo è agito da una forza che si è fatta nemica della carne ad opera della micidiale sutura tra fattori consapevoli e inconsapevoli in cui natura, storia, interessi, poteri, conflitti, desideri compongono un solo “blocco” in sé e per sé privo di qualsiasi umanità. Il secondo scempio è frutto della agenda delle forme di rappresentazione e informazione con cui i corpi della società tentano di contenere il significato del disastro cercando di riportarlo al di sotto della carica simbolica di cui è dotato. I media di massa stanno sempre di più trasformandosi in una arena gladiatoria in cui la carne soggiace a corpi che hanno perso il controllo sulla carne.
Il corpo comunica in tanti modi. Dispone di molti mezzi per farlo e di molte ibridazioni tra di loro possibili. Ma – riprendendo qualcosa di sostanziale a cui abbiamo già accennato – se diciamo che comunica dobbiamo intenderci su cosa significa comunicare. Ci sono due prospettive nello studio della comunicazione. Una suole dividere il corpo dagli oggetti comunicativi: qui la scena rappresenta un corpo che usa attrezzi per la comunicazione al fine di entrare in relazione con altri corpi e con l’ambiente. L’altra intende riconoscere la coincidenza tra corpo e comunicazione. Qui il corpo è relazione, capacità di relazione e oggetto delle proprie relazioni. Dunque qui la comunicazione mette al centro di se stessa la prensilità del corpo sui mondi che ancora gli resistono.
La comunicazione – lo spazio di una relazione che mette in comune più entità e così facendo vi produce un evento – è dunque da sempre il luogo in cui il corpo umano si è destrutturato e con-fuso con altri corpi (non solo umani); è da sempre la dimensione non euclidea in cui le barriere del visibile vengono abbattute dalla invisibilità di corpi espansi al di là della propria pelle, quindi in comune con altre corporeità. Per convincersi di questo basta mettere insieme le distinzioni di McLuhan tra immagini della vista e percezioni dei sensi e le analisi di Merleau Ponty sulle curvature interiori, immaginifiche, con cui ci orientiamo nel mondo e lo facciamo nostro ovvero lo rendiamo vivo e in certi casi vivibile. Le distinzioni del primo sono state materia di divulgazione; le analisi del secondo lo sono state assai meno; tuttavia ambedue hanno avuto un ben scarso peso sulle teorie e strategie dei media. Nelle culture socialmente egemoni ha continuato a prevalere l’idea che da un lato ci siano i corpi e dall’altro i testi.
Il corpo-mente organizza gesti e parole, emana voci, immagini e scritture. Prima ancora, privo di parola, ha emanato attrezzi, oggetti, manipolando le cose esterne, inframmezzandole di sé. Lo sviluppo delle tecnologie ha risposto alla necessità/desiderio dell’essere umano di rafforzare e espandere le proprie relazioni con l’ambiente. Così, per individuare una determinata spaziatura della storia, ci si potrebbe riferire al “corpo dello spazio” invece che allo “spirito del tempo”, tipico modo di dire della cultura moderna, che, carico com’è di ideologia, pensa alla mentalità di un’epoca assai più che alla sua corporeità, a ciò che comanda piuttosto che a ciò che viene asservito e messo al lavoro.
Le specifiche forme di potere in cui si sono organizzate le società – l’essere in comune umano nel suo farsi storia rispetto al mondo di cui ha preso possesso – hanno di volta in volta potenziato una tra le capacità multimediali e interattive di cui il corpo dispone e la hanno resa egemone sulle altre. I gradi più vicini alla vita animale hanno goduto di sensi come l’odorato, il tatto, l’udito, adatti a bassi livelli di elaborazione mentale ma ad alti livelli di istintività, di forte reattività. Passando a gradi più complessi, l’occhio è stato in grado di riorganizzare mentalmente la percezione sensoriale del mondo circostante. Quanto più il pensiero umano ha preso coscienza di sé, tanto più esso ha assoggettato i sensi e ha gerarchizzato le doti comunicative del corpo. All’inizio l’organismo umano è andato strutturandosi attraverso le proprie capacità di percezione del mondo esterno; poi, lungo il suo percorso di organismo sociale ha trovato nella scrittura, nella tecnologia del corpo-scrittura, la svolta necessaria a tagliare il cordone ombelicale tra sensi e pensiero, così come – nell’atto della comunicazione – tra presenza e assenza del corpo (qui nel senso naturalmente di corpo limitato alla sua prigione anatomica).
Semplificazioni, certo, di processi di lunghissima durata. Ma utili a chiarirci le idee sulla natura dei rapporti tra corpo e comunicazione, anzi – ed è l’impostazione che qui si è subito scelta e di cui abbiamo già detto – la natura del corpo come comunicazione. Ma dire corpo non significa dire immediatamente corpo umano, tanto quanto dire corpo umano non significa dire la persona, dilaniata com’è – questa specifica e unica “nessunità” del singolo essere umano – tra le costruzioni culturali cui è sottoposta per diventare individuo, e le costruzioni sociali in cui è costretta a entrare per fare parte, fare la parte, di un soggetto sociale. Tutto ha corpo: ogni cosa che occupi uno spazio fuori e dentro della nostra mente. Se con corpo noi pensiamo immediatamente a quello umano è perché abbiamo in testa una idea egemonica di corpo, a lungo perfezionata da una sistematica riduzione delle cose alla sua sovranità in quanto sovranità del soggetto sociale che lo ha fatto di sua proprietà. E a ben vedere l’antropomorfizzazione del mondo è un processo culturale che nega alle cose non umane lo statuto di corpo vivente assai più che riconoscerlo; non è una concessione di sé all’altro ma una appropriazione.
Ogni cacciata da paradisi terrestri perviene alla canonizzazione dell’essere umano come anello intermedio tra divinità e materia: per cui l’uomo è assoggettato al dio, ma la terra all’uomo.
I processi di mondanizzazione e di modernizzazione hanno privilegiato l’anima della scrittura: le tavole di Mosè sono pietrificazione dello spirito divino, la Bibbia di Gutenberg è parola di Dio fissata sulla carta. Si tratta di forme epocali di messa al lavoro del corpo esercitate grazie a una precisa linea di demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che non è lecito comunicare; ciò che concede consenso e ciò che impone una scomunica. Le scritture ad elevato dettato religioso sono state forme di riassetto e di contenimento dei sensi eserciate dalle capacità spirituali di progetti di dominio sul mondo. Dalla forza di pre-destinazione della scrittura si sono fatti dipendere i corpi e le immagini. Infine, il razionalismo strumentale della società industriale ha privilegiato il pensiero come tradizione scritta e si è spinta a elaborare scritture che fossero in grado di produrre e governare le immagini.
Così si spiegano i dispositivi della sceneggiatura su cui si è fondato lo sviluppo esponenziale delle culture degli schermi: una scrittura interiore che – per toccare la natura fortemente sensoriale dell’impatto degli schermi con il pubblico, con la sua massa emotiva – è stata capace di rinunciare alla propria dimensione alfabetica. Rinuncia che le ha fruttato di restare al comando. Si pensi, a questo proposito, come la stampa funzioni in modo da garantire che il corpo alfabetico possa continuare a controllare o mediare i corpi più direttamente espressi dai consumi e dagli schermi, lo straripare della loro carne, della loro tattilità, la diffusione virale di un non-sapere che ha i tratti di una cultura ormai consolidata e non equivale più all’ignoranza in cui – nel tempo premeditale delle società – il sapere degli scrittori riusciva a confinare gli analfabeti, a trattenerli nel silenzio. Anzi questo non-sapere sfugge all’alfabetizzato tanto quanto lo attrae. Attrazione, tuttavia, che i corpi della sorveglianza sociale si concedono solo nello spazio evasivo del divertimento, un poco come il rigore etico del buon borghese si rigenerava periodicamente nel bagno di peccato di un bordello.
S’è visto quanto l’introduzione di nuove tecnologie (la pay tv ad esempio), promuovendosi con la promessa di sport e di pornografia, si sia affidata sempre più a forme di consumo psicosomatico più che sapienziale. E dovrebbe fare riflettere l’interdizione etica e estetica con cui la sfera pubblica ancora colpisce i linguaggi della pornografia, luogo in tutto esemplare dei diritti della carne sui diritti del corpo. E rispetto alla scomunica che colpisce i corpi pornografici, tanto più dovrebbe farci riflettere la compiacenza con cui i saperi istituzionali accettano lo sport, che – pur mettendo spesso a rischio, quando è dal vivo, la pace urbana e la sicurezza del cittadino – è rappresentazione simbolica dell’ordine sociale in quanto guerra, eliminazione dell’avversario, uccisione del nemico, violenza rigeneratrice di valori. Si è visto anche quale sia stata in Italia – nazione a basso livello di civilizzazione istituzionale e invece ad alto livello di civilizzazione consumista – la principale risorsa di cui lo sviluppo della telefonia mobile ha potuto disporre per raggiungere uno dei suoi massimi livelli di mercato del mondo dei new media. Ciò che di troppo sapienziale ha bloccato in Italia lo sviluppo di pratiche d’uso del computer quotidiane, ordinarie, corporee, si è sciolto nella più immediata operatività del cellulare. Legami di carne, s’è detto cominciando. E se c’è una tecnologia che annuncia lo sviluppo del cyber space è proprio quella della telefonia mobile: una progressiva penetrazione dei chip dell’informatica in ogni parte del corpo umano: i suoi abiti, la sua pelle, al di là della sua pelle. Un tessuto digitale che si connette ad altri tessuti digitali. Una persona che vive una estensione corporea della propria sensibilità fisica e mentale che è la sua e non-sua nuova carne.
In linea con i rapporti di potere che hanno prodotto questo regimi di senso, alcune discipline della modernità hanno reso settoriali e tra loro scarsamente comunicabili forme espressive che venivano estirpate dalla polifonia del corpo e selezionate a seconda del punto di vista prescelto dalla disciplina stessa. Tuttavia un semiologo che sappia davvero il fatto suo può oggi dimostrare come ogni voce si trascini dietro non solo il corpo che la ha emanata ma anche i corpi di chi la sta ascoltando, siano questi corpi presenti o meno al luogo dell’evento comunicativo (Fabbri P., La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari, 2003). Uno studioso della letteratura che accetti di adottare una interpretazione mediologica della comunicazione può dimostrare come nel testo scritto sopravviva l’oralità (Frasca G., La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale, Meltemi, Roma, 2005). Uno studente perspicace può capire quando il suo professore parla come un libro scritto (e, in questi casi, si può comprendere perché lo studente poco aduso alla lettura non capisca nulla di quanto ascolta). Anche questi pochi esempi bastano a mostrarci quanto sia proprio il corpo a sfuggire di mano ai discorsi sul rapporto tra comunicazione e società quando non si tenga presente la sua complessità espressiva, il suo essere mondo sin dall’inizio del suo apparire al mondo. Dunque l’essere carne del corpo sin da quando esso ha cominciato a manipolarla, a trasformarla in determinate funzioni piuttosto che altre.
Biopolitica, bioeconomia, biotecnologia: sono parole che, fatte ormai oggetto di insistenza mediatica, finalmente ci dicono quanto gli ordinamenti della politica, dell’economia e della tecnologia consistano in operazioni esercitate non su entità astratte, puri modelli organizzativi, valori immateriali, ma direttamente sulla nuda vita delle persone, e qui per nuda vita si intende – senza complicazioni filosofiche – il corpo-carne, quella cosa vivente che nel mondo soffre o prova piacere (e che solo lo sviluppo dell’essere umano ha distinto e separato dalle altre cose che nel mondo provano dolore e felicità di sé). Quella cosa vivente che trova i suoi più veri confini, il vivo senso di sé, grazie a ciò che la preme e le resiste da dentro e da fuori. Dunque: politica, economia, tecnologie aggrediscono il corpo anche quando sembrano ferire non la sua carne ma solo i suoi sentimenti, poiché è sempre la viva carne del corpo ad essere colpita così da far sentire il soggetto che la patisce in una dimensione psicofisica piuttosto che in un’altra. Solo le idee sembrano essere immuni da questo patire della carne nel corpo di chi le elabora. Ma – questo tema emergerà qui tra poco – proprio le idee sono la tecnologia di uno spirito immunitario di cui la società si è fatta portatrice.
La dimensione biopolitica – ogni tecnologia ha in sé l’uso politico che la anima ed è questo uso che la fa sentire estranea pur essendo parte della nostra stessa carne – può riassumere qualsiasi altra forza che metta a nudo il fatto di lavorare su e attraverso il corpo-carne. Quindi, riferendoci alla coppia mente-corpo, si potrebbe dire anche biopensiero e biocomunicazione come forme estreme della modernità. Forme di dominio che rivelano il proprio principio ispiratore, da sempre fondato su modalità di controllo dei corpi esercitate a livelli di intervento solo apparentemente divergenti anche quando clamorosamente in opposizione tra loro: uno nella vita materiale e l’altro nella vita immaginaria. Da un lato, le forme di costrizione messe in opera dalle etiche del capitalismo e dei suoi mercati: esse premono sui valori dell’interiorità, sul dover essere, sull’identità. Dall’altro lato, le forme di liberazione messe in opera dalle estetiche dalla società di massa: esse premono sui valori della esteriorità, sul desiderio, sulla carne. Ma si tratta di strategie che sono una funzionale all’altra: dunque l’etico preme sull’estetico e questo preme sull’etico. È proprio su questa reciprocità che il corpo della modernità è sempre di nuovo ri-tagliato nello stesso luogo, nel suo stesso luogo a procedere.
Questo luogo a procedere è stato tuttavia turbato da una eccedenza del desiderio che le dialettiche dello sviluppo moderno non avrebbero potuto mai eliminare essendo esse stesse fondate su desiderio per quanto nella forma della sua costrizione o della sua mediazione sociale. Ad ogni ciclo dello sviluppo è corrisposto un rimanente. Ad ogni riduzione qualcosa di ancor più irriducibile. Ad ogni semplificazione qualcosa di ancora più complesso. Ad ogni ronfamento qualcosa di più sconfinato. Tra i fattori di maggiore capacità nel dissipare l’ordine costituito hanno funzionato i consumi. È importante riconoscere questa loro funzione. Molti riconoscono che essi hanno costituito e costituiscono la ragione dei mutamenti politici avvenuti nei regimi più autoritari della tarda modernità. I tempi lunghi dei consumi hanno funzionato contro lo stalinismo come la rapidità della guerra ha funzionato contro il nazismo: nel primo caso ha agito il corpo dissipativo del consumatore e nel secondo caso il corpo distruttore del soldato.
Le culture occidentali più legate ai valori etici della produzione tendono tuttavia a evitare di considerare i consumi in chiave positiva. Questo perché le arti della politica – e in modo ancora più radicale gli interessi corporativi dei politici e dei partiti – individuano un pericolo nelle identità in cui i valori del consumatore vincono su quelli della cittadinanza, i desideri della carne premono su corpi addestrati all’ordine costituito dalla scuola e dal lavoro.
Ma per quanto riguarda l’Italia l’interdizione dei consumi ha in prevalenza un valore moraleggiante. Le grandi strategie medianiche dell’impero moderno le sono estranee quasi del tutto. In particolare nel cinema. Qui, il sistema di produzione italiano – direttamente vincolato al sistema politico nazionale e alla sua quasi totale assenza di vocazione professionale e di responsabilità morale – mette al lavoro soprattutto i residui senza carne né spirito di un corpo letterario, libresco, intellettualistico, appesantito da tutte le sue scorie narrative e ideologiche. Semmai sono alcune filiere dell’intrattenimento televisivo – che è il luogo in cui in Italia, e con effetti catastrofici per i suoi assetti istituzionali storici, ha potuto emergere la carne di corpi troppo a lungo esclusi dalla società degli scrittori e dei lettori – quelle in cui conflitti tra corpi e carne si fanno sentire. Seppure sotto il controllo di sceneggiature ispirate alle politiche del mercato, qui si fa davvero carne da macello di tutti gli stereotipi della cittadinanza. E in questo massacro la vita quotidiana riesce a passare seppure in una sua elaborazione grottesca, persino tragica.
L’attenzione che oggi si dà al tema del biopotere deve molto, paraddossalmente, proprio al clima fortemente edonista creato dai consumi. Ma la letteratura dedicata all’edonismo in genere è molto schematica. O preme il tasto della legittimità del piacere, esaltandone sì il valore emancipativo, ma incastonandolo automaticamente e con compiacimento nelle ideologie del progresso maturate sul versante più liberistico delle società del benessere. O preme il tasto della illegittimità dell’edonismo rispetto ai valori religiosi e/o laici della solidarietà sociale, del dover essere civico, ma, facendo perno su una solidarietà che di fatto coincide con i sistemi più produttori di edonismo e ne accetta il sostanziale compromesso politico tra sfera civile e sfera economica.
Gli antropologi si scandalizzano con chi usi il termine tribù. Dicono che questa parola è il risultato della violenza occidentale nei confronti del diverso e del primitivo. E hanno ragione. Ma trovo significativo che la attuale svolta occidentale, tanto nelle sue sacche di arretratezza quanto in quelle culturalmente più sofisticate, consista proprio in una tribalizzazione. In forme di tribalizzazione che usano globalmente ogni emergenza di diversità. In modelli di socializzazione che rientrano in vocazioni e attese più specifiche, settoriali, locali. Dentro la crisi oggettiva dei legami societari e dunque dentro le forme di neotribalismo che vi emergono, è possibile intravedere – quasi in una sorta di cacofonica orchestrazione – la piena discordanza tra pezzi di società che non possono disporre più di alcun collante. Tra tribù di felici, tribù di barbari, tribù di disperati: tra luoghi di decadenza delle elite occidentali, luoghi di emergenza dei corpi sociali appena entrati nelle regole della civilizzazione, dunque ancora intrisi di carne, infine luoghi restati fuori da ogni civilizzazione, spesso pura e semplice carne da macello. Gli occhi degli uni non riescono a vedere nel rovescio degli altri.
Mentre le tante forme di smottamento dal sociale al tribale mi sembrano ancora sotto il controllo dei regimi di potere che ne trattengono il movimento o addirittura lo cavalcano, se non altro per il fatto di esserne stati la causa e quindi di conoscerne almeno alcune delle ragioni; sono invece assai più esterne a ogni controllo gli smottamenti sensoriali che vanno emergendo nel segreto della persona. E tra la parola segreto e la parola sacro c’è forte, fortissima affinità. E il ciarlare della società civile è sempre più distante da questi segreti recessi dell’esperienza personale.
Mai come oggi il dispositivo della falsa coscienza ha trovato un uso così sistematico nelle relazioni di potere e nelle relazioni sociali. La morte delle ideologie – annunciata da alcuni come augurabile segno di emancipazione dai contenuti più terribili della modernità e da altri come paurosa fantasma del suo declino – aveva qualcosa a che vedere con la crisi di strategie sempre più aggredite dalle tattiche della vita quotidiana. Ma il processo di destabilizzazione delle identità politiche tradizionali si è al momento bloccato su un uso selvaggiamente tattico di brandelli e scorie di strategie. Basta che siano sufficienti a colpire laddove la contingenza più acuta e drammatica lo richieda. Per restare nell’ambito degli apparati della comunicazione e di chi li gestisce, questo tatticismo verticistico si traduce in dirigenti e manager del settore che, imbrigliati nella rete di interessi dei propri tutori e delle proprie clientele, non danno accesso ad alcuna creatività e sperimentazione. Qui il sistema dà il peggio di sé in quanto forma arretrata rispetto alla sua stessa natura di regime moderno, natura che dovrebbe essere interessata a linguaggi capaci di offrire gli strumenti più opportuni per un buon governo e per una buna amministrazione. Così, il tema che qui stiamo trattando può estendersi a come e quanto i corpi del lavoro intellettuale necessario a comunicare vengano rigettati o mortificati quando risultino minimamente estranei al selvaggio opportunismo della macchina produttiva e distributiva.
I valori espressi dai media che più sono sotto il controllo di questo imbarbarimento del potere risultano così un coacervo di stereotipi desunti dalle forme di rappresentazione del corpo a lungo sperimentate dalla scrittura e dai media analogici. Quantomeno, la messa in scena delle passioni umane è ancora in tutto debitrice di un mondo sociale che non c’è più, quello cioè che ha avuto capacità creative e narrative straordinarie nel formare una sensibilità dello spettatore aperta al quotidiano e al tempo stesso controllata dai principi ordinatori della società. La progressiva deriva del corpo dello spettatore da cittadino a consumatore non potrà mai trovare una sostanziale via d’uscita restando chiusa nella società dello spettacolo.
È varcando la soglia dei media interattivi e personali che il consumatore – messo finalmente in grado di usare una capacità produttiva che i media tradizionali gli consentono in modo molto limitato – può esprimere un qualcosa di insurrezionale rispetto alle spaziature della modernità. Il corpo che si intrattiene con il computer si sconnette dalle forme di comunicazione che hanno caratterizzato la società di massa e si connette con altri corpi per creare forme di relazione dirette: la rete dei linguaggi digitali mette in contatto sensi scorporati dalla loro precedente collocazione identitaria. Naturalmente sto qui descrivendo una procedura. Che poi il salto di una persona dalla società moderna alla società delle reti possa significare un effettivo mutamento dei contenuti, questo non dipende dalle nuove possibilità che la tecnologia offre ma dalla capacità di negoziarne il senso ricorrendo a contenuti diversi da quelli usati nei e dai vecchi media, dunque attraverso corpi di soggettività diverse.
È così che sono avvenute le grandi rivoluzioni della civiltà umana.
Gli ultimi contributi di Roberto Esposito ci hanno offerto alcune riflessioni fondamentali per riflettere sulla comunicazione sociale, sulla sua storia e sul suo presente. In particolare la distinzione tra corpo e carne che sin qui abbiamo praticato. Una distinzione di cui Esposito elenca genealogie e eventi molto significativi su quanto essa si sia formata e allineate in tutti i processi che hanno dato luogo ai contenti della modernità e sia emersa con particolare virulenza nei momenti della storia in cui l’integrità del corpo – fisico, statuale, identitario – ha indotto l’umanità a forme di sterminio dettate proprio dalla decisione di trasformare in carne da macello qualsiasi alterità che non rientrasse nel corpo eletto a dominarla e di conseguenza abilitato a praticare su di essa qualsiasi olocausto in nome della propria immunità, del proprio restare immune. Evidente che oggi – tempo di migrazioni virali di ogni genere – siamo in una situazione analoga.
L’idea di immunità trionfa (è stato sempre Esposito a mettere in evidenza questo tema emergente, in Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002). Potremmo dire che c’è una carne che preme sui soggetti spingendoli a enfatizzare la produttività sociale di riconoscere l’altro da sé. E ci sono corpi che invece premono per evitare che questo riconoscimento – in certa misura contenuto nella carta dei diritti umani su cui sino ad oggi si sono fondate le relazioni internazionali e le politiche nazionali della democrazia – metta a rischio non tanto l’ordine costituito, ma, cosa ancora più terribile, ogni possibilità umana di ordine. Mentre la carne delle moltitudini procede nel caos di un progetto moderno che ha fallito la sua dimensione mondiale, i corpi che se ne fanno carico – i movimenti no-global, ad esempio; o certe politiche pacifiste di parte della sinistra; o i fermenti umanitari di gruppi no-logo o no-profit – sembrano assai meno concreti e realistici dei corpi imperiali che perseguono lo strumento immunitario delle guerre locali. Sembrano, anche questo è terribile a dirsi, di retroguardia. Così come dei corpi che – in nome delle moltitudini che sentono come propria carne – praticano quella analoga forma di guerra locale che dai popoli della civilizzazione occidentale viene chiamata terrorismo (Gambino A., Esiste davvero il terrorismo?, Fazi, Roma, 2005).
Anche l’immaginario cinematografico americano rivela questo paradosso. Esso infatti si divide tra un cinema classico – destinato a regredire a un pubblico di nicchia come è accaduto per il teatro e in cui il corpo viene messo al lavoro secondo le modalità dettate dai rivoli delle grandi narrazioni della modernità – e un cinema ipertecnologico in cui ogni possibile narrazione ha lasciato posto al trionfo puro e semplice di immagini senza più alcun contenuto e sentimento umano. Da un lato i tratti sempre più ripetuti – sociologici, psicologici, antropologici – di una commedia umana sempre uguale a se stessa e ai suoi stereotipi ideologici anche quando la sua raffinatezza è in grado di precipitare nella catastrofe delle sue dialettiche tra bene e male; all’altro lato emerge, seppure in forme ancora molto rozze e ingenue, una nuova estetica del sublime, in cui tuttavia lo scarto liberatore tra l’umano e il divino viene meno perché qui l’umano e il divino si cancellano in una dimensione integralmente post-umana. Ed è in questa condizione ultima che, alla dimensione delle narrazioni sociali, subentra la dimensione tragica – originaria – di puri e semplici conflitti tra volontà di potenza e dolore-felicità dei sensi.
Questo cinema – ad altissimo costo e fatto per essere consumato in un lampo e su scala mondiale – è il cinema che mi pare spingersi oltre gli scenari post-atomici di cui ogni passata rappresentazione fantascientifica si è impegnata a dirci con la precocità inventiva del fumetto e poi grazie allo sviluppo spettacolare che alle dimensioni del fumetto hanno potuto dare il cinema degli effetti speciali e ora le immagini di sintesi. Oltre quegli scenari non ci sono più narrazioni umane incarnate in sopravvissuti o mutanti ostinatamente decisi a rifondare città e famiglie. L’intento educativo di queste produzioni da 250 milioni di dollari – per il momento ancora a metà tra il vecchio cinema spettacolo e una integrale immersione dei corpi in una assoluta esperienza sensoriale – è molto distante da qualsiasi politica sociale. Addestra alla morte in modo assai simile ai paradisi di piacere che alcune culture del terrorismo promettono ai corpi-bomba spediti a farsi carne in comune con la carne delle proprie vittime. Cioè addestra insieme al massimo di vita e di morte. Toglie contenuto a qualsiasi illusione su una possibile scelta tra l’una e l’altra. Compatta, in un tutto irriducibile e senza più scarto, la resistenza dei corpi e la resistenza della carne. Questo chiede un dominio imperiale che – per garantire ordine sul caos del mondo – non abbia altro da offrire se non il nucleo di valori che ha fatto da fondamento alla propria idea di pace. Valori che, per rivelare il loro contenuto profondamente immunitario, hanno dovuto consumare tutte le fiction dell’esperienza democratica.
La letteratura sulle forme della guerra come premessa – e non estrema conseguenza – delle forme della pace mi pare essere il terreno di verifica più eloquente di ciò che hanno costituzionalmente nascosto le società del Principe, dell’Ordine e del Benessere, dunque le società del corpo assoggettato, del corpo governato, e del corpo liberato: una sudditanza della carne e delle sue identità personali ai voleri della società, tesa a ripetere il proprio atto fondativo (si vedano le opere di Michel Foucault e Jean Luc Nancy). Per questa via – vedere nel carattere eccezionale della guerra il carattere ordinario che più dilania la vita quotidiana – si fanno palesi le condizioni del corpo dentro i rapporti di potere di un determinato regime di senso. Poiché si è detto che il corpo è una costruzione sociale con cui le forme di potere controllano la carne, le forme con cui la carne viene assoggettata al lavoro sociale sono una guerra anche laddove esse sembrano perseguire relazioni di pace. I media contemporanei – dal cinema al computer – sono stati una guerra sistematicamente perseguita attraverso una industria di pace.
Questa guerra nei media della modernità è iniziata già in fase premediatica. Ha avuto inizio quando nel Settecento alla paura del contatto fisico – una promiscuità della carne foriera di sventura per ogni privilegio di casta – si sono date due diverse risposte. Da un lato il Panopticon, cioè una carcere “leggero”, “trasparente” (lo si dice delle attuali tecnologie digitali), e per ciò stesso adatto, molto più che mura di pietra e sbarre di ferro, a sorvegliare e punire i corpi, assolvendo così i valori moderni della salute fisica, dell’educazione, della socializzazione e dell’utile economico-politico. Dall’altro lato, le pratiche sui fluidi magnetici (il mesmerismo) che del corpo in quanto essere animale – dotato dei linguaggi della imitazione e della ripetizione, immerso nei ritmi della natura – aveva fatto carne da mediare artificialmente e da guarire. Così da tornare ad essere corpi sani.
Due risposte diverse e congiunte dunque: l’una al servizio del potere e l’altra dell’immaginazione. È da allora in poi che la comunicazione è divenuta il luogo in cui allentare o stringere il conflitto tra la carne e il corpo. La storia dei media panoptici, schermici, è stata – e si pensi ad esempio a quanti la hanno raccontata come il progressivo mettere in scena ciò che sta nel retroscena – un venire sempre più in primo piano di soggettività che gli assetti sociali pre-mediatici condannavano ad essere corpi inerti, amputati, cioè poco più che carne. Così per la donna, così per gli omosessuali, così per i giovani, così per i vecchi.
I corpi di donne, omosessuali, giovani, vecchi sono stati messi al lavoro dai media a seguito di vari fattori strategici. La natura sempre più consumista dei media ha reso possibile l’inserimento di queste figure sociali nella vita democratica assai più di quanto fossero riuscite e tuttora riescano a farlo le istituzioni attraverso le loro procedure giuridiche e le loro forme di governo. Il potere emancipa corpi per ridurli alla misura dei propri sistemi politici. L’industria e i mercati dei media dei corpi emancipano la carne viva delle emozioni, i sensi riposti nelle tattiche di sopravvivenza della vita quotidiana. Ed è proprio questa carne, ribelle ai vincoli della storia, che i movimenti alternativi hanno messo di volta in volta al centro delle loro politiche. Così non meraviglia che teorici della politica così profondamente radicati nel conflitto di classe come Mario Tronti o Toni Negri siano arrivati a assumere la donna o le moltitudini messe a lavoro dal post-fordismo come nuova massa d’urto contro le forme di potere del capitale. Peccato: basterebbe un solo fotogramma di grande cinema per fare capire loro quanto capitalista sia la carne che anima quei corpi e cioè quanto essi siano stati da sempre il bacino di risorse a cui progressivamente la forma di desiderio capitalista avrebbe attinto, la nuova soggettività a cui avrebbe fatto sistematicamente ricorso per non mutare né di sostanza né di direzione.
È a questo punto che si deve riflettere sino in fondo al gioco di ruolo che carne e corpi hanno recitato nel corso della modernità: la carne è sempre stata emancipata a patto di essere colonizzata e civilizzata dal corpo della modernità. Ed è qui, tuttavia, che si può cercare di cogliere lo scarto di prestazioni espressive che i new media digitali possono costituire rispetto ai mass media e alle routine politiche dei loro processi di socializzazione, del loro modo di mettere a lavoro il conflitto tra corpi e carne nell’immaginario collettivo occidentale. Le piattaforme espressive offerte dalle reti di relazione digitali possono essere una via di fuga della carne dai corpi molto più forte e efficiente di quelle precedenti.
Le forme di intrattenimento in rete si dividono – in massima parte ancora in modo impolitico – tra operazioni di rafforzamento dei corpi e operazioni di rafforzamento delle resistenze della carne. Su questo versante – spesso in grado di turbare anche la coscienza del primo e oscurare la sua intelligenza – si è aperto un laboratorio del sentire che funge da profonda corrosione di tutte le modalità con cui il corpo è stato messo al lavoro dai media analogici. E questa corrosione agisce come contenuto necessario all’innovazione tecnologica, poiché, come s’è già accennato all’inizio, si riferisce a esperienze di profondo sradicamento della carne dai diritti dei corpi su territori non necessariamente legati alle pratiche del computer. Territori in cui vi sono persone che cercano una nuova sacralità e una nuova vocazione per rompere la prigione comunicativa della società. Appunto il nostro titolo: sacralizzare la carne e scomunicare i corpi.
Mi si può rispondere che il taglio finale con cui sto chiudendo il discorso ha un fondamento paradossale dal momento che si basa su un esito della storia che ben difficilmente avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato. Come pensare che i disabili della mente e del corpo potessero essere messi al centro dei canoni dell’esperienza vissuta? Con astuzia, lo hanno fatto solo riti e finzioni simboliche. Servivano e servono per consentire al sano di vivere in sé anche l’insano. Ma penso che i paradigmi del sapere che oggi si sforzano – in ogni teoria e pratica sociale – di ridurre la complessità del mondo, dovrebbero riconoscere la carne che ogni loro tradizione ha amputato sin dall’inizio. E che sino ad oggi non ha trovato luogo. Tra i tanti esodi e le tante patrie mancate che continuano ad affliggere il genere umano, questo non-luogo ha un senso assai più determinante dei non-luoghi parodistici che il pensiero moderno si ostina a riproporre.
Nell’appellarsi alla realtà esclusa dei disabili, può non esserci umanitarismo alcuno; questo è gemello dell’umanesimo e ha dentro di sé la medesima doppiezza del pensiero unico dei moderni. L’ipotesi che la post-democrazia debba imboccare la strada della post-umanità non è da scartare. Questa strada, il soggetto storico della democrazia – gli Stati Uniti d’America – la ha già scelta.
Se si vuole affrontare la crisi imperiale delle democrazie, non si può restare indietro. La dimensione della communitas, se rigettata nel solo spazio della solidarietà umana, rischia di essere una visione rivista e corretta della dialettica moderna tra comunità e società. Piegare il discorso sul non-umano può dare spazio, aria, al vivente.
[cite]
tysm
philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 24
may 2015
ISSN: 2037-0857
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