philosophy and social criticism

SHAME

di Maria Cristina Caponi

 

Il corpo incarna letteralmente la barriera che dà luogo

 alla significazione, all’insediarsi della relazione signifiant/signifié,

fondata appunto su una frattura che spezza una pienezza

destinata diversamente a restare insignificante[1]. 

 

Shame propugna il disvelamento di una realtà fisica scomoda, modulata sull’intima indagine del corpo maschile della protagonista. È  necessario un approccio integrato in termini di ricerca formale, di analisi psicologica e d’indagine antropologica per indagare il non detto, ovverosia quello che in Shame si snoda lungo un percorso di conflittualità tra l’interno e l’esterno dell’inquadratura cinematografica.

Il regista Steve McQueen conduce lo spettatore alla progressiva scoperta del desiderio sessuale compulsivo celato sotto la superficie ridicolmente sottile di un uomo qualunque. «Un essere è fragile se comporta nel suo essere una possibilità definita di non-essere»[2] scriveva Jean-Paul Sartre riferendosi sia alla natura umana sia ai manufatti modellati dalle nostre mani. Tutto l’andamento narrativo e visivo del testo filmico è consacrato a mostrare la condizione di vacua inconsistenza di un giovane yuppie, che cerca inutilmente di colmare il proprio horror vacui con una rapidissima digestione di corpi femminili anonimi e al limite dell’indistinto epidermico. Quella di Brandon (Michael Fassbender) è una «relazione patologica con il sesso», usando un termine caro a Tonino Cantelmi, Emiliano Lambiase e Adriana Sessa[3]. Il rideterminarsi senza sosta delle avventure sessuali di Brandon è traslato anche in immagini, specie nella ridondanza espressiva con cui più di una volta viene “messa a fuoco” la sequenza iniziale, quella nella quale il protagonista si alza nudo dal letto disfatto e ascolta i messaggi contenuti nella segreteria telefonica.

Nei ripetuti coiti del protagonista si assiste all’epifania promiscua di un volto o di un corpo, materie pregnanti che di volta in volta assumono un dato volume per poi disfarsi assumendo l’aspetto di un coagulo informe, in un continuo ricomporsi senza sosta. Sotto una pioggia battente di ventri, organi genitali, liquidi seminali e secrezioni femminili, l’uomo precipita in uno stato d’incoscienza, dove tutto appare dominato da degradanti “meccaniche terrestri”, che lo risucchiano in un surreale straniamento geometrico. Qui thanatos contende a eros lo scettro del potere.

La falsa intimità vissuta da Brandon sfiora così l’andrologia clinica. Secondo lo studioso Franco Avenia, infatti «La dipendenza da sesso è la condizione psico-fisico-esistenziale nella quale un individuo percepisce la propria sessualità centrale rispetto alla sua vita e agisce in risposta ad un irrefrenabile impulso sessuale, indipendentemente dagli effetti negativi che il suo comportamento può arrecare a sé e agli altri, poiché è la soddisfazione del bisogno che genera l’impulso e gli procura piacere ed, al contempo, ricava forte disagio, ansia e mal-essere dalla sua mancata soddisfazione»[4]. Una volta che Brandon prende la risoluzione di sospendere la sua routine sessuale, segue immancabilmente il cosiddetto down: ansia, irritabilità e depressione del tono dell’umore si presentano come diretta conseguenza dell’astinenza forzata. Il tentativo fallito dell’uomo di scansare il pericolo lo equipara a un qualsiasi dipendente da sostanze stupefacenti, a un alcolista, a un cleptomane o a un giocatore d’azzardo patologico. A proposito dell’analogia tra l’ipersessualità e la malattia, sembra quasi che il filmaker voglia strizzare gli occhi allo spettatore quando fa sì che, in un vagone della metro, Fassbender sia attorniato da due diversi annunci pubblicitari che recitano più o meno “Shot the pollution” e “The doctor is in. Board Certified”.8_michael-fassbender-as-brandon-in-shame

Brandon crede allora di intravedere l’unico modo per redimersi dai propri peccati praticando uno stretto regime di privazione. Fu lo psicologo James Orford[5] nei lontani anni ’70 a tracciare un illuminante parallelismo tra soggetti ipersessuali e persone sottomesse a una qualunque delle dipendenze sopra menzionate. Più recentemente, tale assunto teorico è stato ripreso da Ralph Earle e Gregory Crow[6]. I due studiosi assimilano il sesso a una droga in quanto, tanto le sensazioni dell’uno quanto gli effetti dell’altra, traghettano l’individuo che ne fa uso in maniera spasmodica verso una sorta di dissociazione mente-corpo. Ma, non appena l’artificio termina, a uno stato di benessere fa seguito una percezione d’intensa inquietudine e turbamento. È necessaria allora una dose giornaliera sempre più massiccia per continuare a ottenere lo stesso risultato, eludendo così il fenomeno della tolleranza. È forse proprio perché Brandon ha sentore di fin dove si stenda il raggio dei propri eccessi che, se avesse avuto la possibilità, avrebbe scelto di vivere durante il mitico decennio degli anni ’70 e godere i privilegi di un’era satura di droga, sesso e rock’n’roll. Così, almeno, l’uomo dichiara alla bella assistente Marianne (Nicole Beharie) con cui esce una sera.

La parafilia di Brandon lambisce però anche il terreno dell’autoerotismo. Questa pratica fisiologica esaspera l’individualismo del soggetto: l’onanismo è la chiave di volta per coniugare al singolare il suo ego frammentato. In Brandon l’irrefrenabile desiderio di masturbarsi, anche nel bel mezzo dell’orario di ufficio, si accompagna spesso a una scorretta fruizione della Rete, con la difficoltà e l’impossibilità del soggetto di disconnettersi da Internet. Quella di Brandon è una vera e propria intossicazione da cybersesso, cercato e poi scovato nell’universo delle chat a luci rosse, dove l’uomo rimane collegato per ore intere. Il World Wide Web permette all’uomo di usufruire di una circolazione iconica oscena praticamente illimitata; come se non bastasse, è sufficiente spalancare un qualunque sportello all’interno della sua abitazione per aprire il “vaso di Pandora” ed essere attorniati da riviste pornografiche di cui Brandon è un forte consumatore. Il protagonista di Shame è, altresì, un corpo pubblico insito in una dimensione socioculturale, per questo egli non può sfuggire a una sensazione di vergogna che lo attanaglia ogni qual volta viene scoperto. Si veda pertanto l’espressione d’imbarazzo che si manifesta sul volto di Brandon quando il capo David (James Badge Dale) lo redarguisce perché il suo computer ha contratto dei virus informatici, probabilmente visitando qualche sito porno.

Giunto a questo punto di non ritorno, a Brandon è negato qualsiasi spazio, anche il benché minimo interstizio, per instaurare una relazione sentimentale che vada aldilà di un amorfo eccitamento momentaneo. Ogni sua speranza appare definitivamente scontornata, dissolvendosi come d’incanto a contatto con la realtà fattuale, allorché questi cerca di recitare la parte del corteggiatore in un copione da lui stesso allestito, predisponendo ogni volta tutti i dettagli del caso. Ma, il suo corpo non obbedisce a questa inutile messinscena e si ribella. L’urgenza di Brandon di ricercare ripetutamente l’appagamento dei sensi trova davanti a sé una barriera invalicabile quando le sue mani scendono a palpare le rotondità di Marianne. Il motivo: la donna gli ha appena confessato di non riuscire a lasciarsi coinvolgere da storie di sesso tese a escludere di proposito qualsiasi coinvolgimento affettivo. Marianne è interessata solo e soltanto a un amore incondizionato, dove il congiungimento delle carni uguaglia quello delle anime, in un rispecchiamento fittissimo di puntuali rifrazioni prive di ombre. Nonostante la giovane abbia dichiarato sin da subito le proprie convinzioni etiche, il rampante manager decide di continuare a percorrere l’invisibile binario dell’itinerario amoroso, illudendosi che soltanto in questo modo possa rompere le catene che lo inchiodano alla colpevolezza della carne. É proprio qui, invece, che si annida l’errore. Per la persona che soffre di sexual addiction è un meccanismo del tutto innato quello di deumanizzare il partner, strumentalizzandolo e relegandolo al ruolo di mero oggetto da impiegare per i propri fini. S’innesca così un processo mentale attraverso il quale l’erotomane considera l’altro un’entità fisica da consumare hic et nunc e poi gettare via, una volta terminata l’esperienza tattile. Per Brandon, il fascino di una donna – se di fascino si può parlare – risiede nel suo arrestarsi sulla soglia di una mera funzione elementare come un bicchiere o un recipiente che, come direbbe il protagonista de La noia di Alberto Moravia, serve «per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda»[7]. L’universo d’uso di Shame è tutto scritto sul volto del suo protagonista. Sembra quasi che per McQueen non ci siano pensieri impossibili da fotografare: e, per rendere ancora più sottile l’interpretazione di Fassbender, il regista chiede all’attore di fare una piccola pausa prima di iniziare a parlare e poi continuare a mentire fino a quando il sipario non si strappi definitivamente, rivelando particolari scioccanti sulla vita in crisi del giovane uomo.

La punta dell’iceberg di questo fenomeno la si può scorgere allorquando Brandon si risolve, non in modo sporadico bensì in maniera piuttosto abituale, a far ricorso al sesso a pagamento. Per non parlare, poi, dei tentativi di abbordaggio che il nostro Don Giovanni dal piglio malinconico attua con perfette sconosciute nei locali pubblici. Simili strategie permettono al dipendente sessuale di trincerarsi dentro un guscio protettivo dalle valenze ermetiche. Brandon è inconsciamente consapevole che il barricarsi all’interno di questo nucleo lo preservi dalla penosa operazione di scrutare il proprio abisso interiore. Inoltre, rendere ciò che è umano meno umano o, addirittura, inumano è una forma di automatismo impiegato da Brandon per difendersi dalla profonda inadeguatezza avvertita nel condividere emozioni con gli altri che lo circondano.

carey-mulligan-in-un-primo-piano-dal-film-shame-di-steve-mcqueenEppure, il velo della sua finta innocenza viene squarciato e il segreto svelato dall’irrompere sulla scena di Sissy (Carey Mulligan), sorella minore di Brandon che si guadagna da vivere facendo la cantante. Il disagio esistenziale e la vulnerabilità sentimentale di Sissy cozzano contro la sterilità effettiva del fratello, rompendo quello che a prima vista si sarebbe detto uno scudo assolutamente imperforabile. Il manager dalla carriera brillante ha paura del confronto con la giovane dal temperamento emotivo, perché sa che entrambi sono fatti della stessa materia. La difficoltà che l’uomo prova a denudare la propria coscienza di fronte alla sorella è resa visivamente ancora più abissale, per contrasto, dallo scarso imbarazzo che ciascuno dei due manifesta quando per mera casualità viene colto privo d’indumenti. Ma, man mano che scoprono reciprocamente i propri peccati, entrambi perdono la “veste di grazia” e Brandon non si fa scrupoli a trafiggerla verbalmente: «Non ti sai controllare. È disgustoso! […] Prova a fare qualcosa: sono le azioni che contano, non le parole. […] Certe persone sbagliano di continuo […]». I gesti che il protagonista rimprovera a Sissy derivano, in realtà, dall’incapacità di Brandon di perdonare e accettare se stesso. Come direbbe Sigmund Freud: «Una serie di accuse contro altre persone lascia supporre una serie di autoaccuse dello stesso contenuto. Basta ritorcere ciascuno dei rimproveri contro la persona stessa che li formula. Questo modo di difendersi da un’autoaccusa rivolgendo lo stesso rimprovero contro gli altri presenta qualcosa di automatico»[8]. A seguito di queste parole di ghiaccio, la cantante decide di ricorrere a un atto fisicamente autodistruttivo come recidersi le vene dei polsi: un danno al proprio corpo che riporta a galla i fantasmi mai davvero assopiti del passato. Invero, Sissy nella sua adolescenza aveva già sperimentato sintomi da sindrome di auto-lesionismo ripetuto, tagliandosi gli avambracci con una lametta affilata. A distanza di anni, la violenza ritorna di fronte a un dolore travolgente. Lo scopo di Sissy è probabilmente quello di provocare un effetto pragmatico in Brandon, innescando nel consanguineo un senso di rimorso. A spingere verso questa interpretazione è anche il modo con cui la ragazza dal suo letto d’ospedale si rivolge a Brandon (lo chiama “stronzo”), sebbene nella sua voce sia plausibile leggere una sfumatura di tenerezza affettiva.

Il tentato suicidio di Sissy lascia intendere allo spettatore che l’uomo sia ormai pronto per imboccare la strada che lo condurrà verso l’uscita di sicurezza. Tuttavia, nella sequenza finale ambientata nella metropolitana, il desiderio antico di Brandon si manifesta con tutto il peso della sua corporeità umana e l’ostentazione del binomio “vedere/esser visto” azzera ogni forma di speranza: una nuova donna è pronta a ricalcare gli archetipi di una feticizzazione immediata.


[1] Marino Niola, Il corpo mirabile: il miracolo, estasi, sangue nella Napoli barocca, Meltemi Editore, Roma, 1997.

[2] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 43.

[3] Tonino Cantelmi, Emiliano Lambiase, Adriana Sessa, “Quando il sesso fa male. La dipendenza sessuale”, in Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia. A cura di Vincenzo Caretti, Daniele La Barbera, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1991.

[4] Franco Avenia, “Il dipendente da sesso. Lettura fenomenologica”, in «Rivista di Sessuologia», n. 4, ottobre-novembre-dicembre 2005, Cic International, Roma, pp. 44-52.

[5] James Orford, “Hypersexuality: implications for a theory of dependence”, in «Br JAdd», 1978, pp. 299-310.

[6] Earle Ralph, Gregory Crow, Lonely all time. Recovery, understanding, and overcoming sex addiction, for addicts and co-dependents, Tri Star Visual Communications, Phoenix, 1998.

 

[7] Alberto Moravia, La noia, Bompiani, Milano, 2001, p. 8.

[8] Sigmund Freud, Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), in Opere, vol. IV, Boringhieri, Torino, 1984, p. 328.

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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013

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