Sotirios Pastakas. Il nomadismo della poesia
Lea Melandri
Il ponte, che nella lirica Sarajevo di Sotirios Pastakas unisce le due sponde del fiume Miljacka e permette alla gente di “camminare su e giù, incontrarsi e scambiarsi abbracci”, è anche l’immagine che più si addice alla sua idea e al suo appassionato amore per la poesia.
Destinata a diventare essa stessa un ponte “lastricato” di voci diverse e tra loro sconosciute, la parola dei poeti è quella che può farsi strada nel mondo “senza paura” -dai vicoli ciechi dei drogati alle strade illuminate e tranquille delle città-, parlare la lingua della disperazione e dell’amicizia, dell’allegria e degli orrori della guerra. Non contenta di aver sconfitto il lutto, l’afasia e la morte stessa, cerca nella “traduzione” il marsupio che può farla rinascere più viva per altri luoghi, altre culture, altri lettori.
La certezza di poter trovare nella poesia la combattività, le risorse culturali e umanitarie per far fronte alla crisi economica e alle “ricette” disaggreganti del capitalismo -povertà, solitudine politica, egoismo, ecc.- sembra nasca, nel caso di Sotirios Pastakas, proprio da un radicamento del tutto particolare su sponde, piedi, colori tradizionalmente separati, come il bianco e il nero delle figure degli scacchi.
Lo sguardo che scava impietoso nelle ferite del corpo, nominando i risvolti “impresentabili” di un amore finito (L’esperienza del respiro), che si aggira tra interni di case, in una quotidianità grondante di teneri affetti per il proprio gatto (Jorge), è lo stesso che attraverso pochi versi scarni fa incontrare in cucine disadorne, su tavole quasi vuote e cibi sempre più poveri, “l’empasse economica” e la spinta a nuove forme di “collettività” e di altruismo (Rancio).
Se la poesia di Sotirios Pastakas arriva così “semplice” e “chiara”, spoglia di giochi e bardature linguistiche, tanto da far sobbalzare il cuore di un qualsiasi sconosciuto lettore o ascoltatore, è per quel suo raro “nomadismo” avvezzo ad attraversare corpo e parola, vicinanza ed estraneità , il tempo sospeso di una città di provincia, la lentezza dello sguardo innamorato che registra le inclinazioni della luce, l’ondeggiare del mare, la direzione del vento, con la curiosità onnivora dell’ “animale da compagnia” che osserva, ascolta, considera riuscita la serata in cui si è fatta lettura di poesia, se uno sconosciuto viene a stringerli timidamente la mano.
A Massimiliano Damaggio, che gli chiede del suo rapporto con l’ambiente, le persone che lo circondano, Sotirios risponde:
“Essendo andato via di casa molto giovane, si è radicato in me lo sguardo del vagabondo e del nomade. Capacità di vedere la ‘situazione umana’ come con gli occhi di un moribondo. Un moribondo che in ogni momento afferra bulimicamente il meglio che può dagli uomini e dai luoghi”.
(da Versante ripido, 5 aprile 2013)
Nelle foto che lo ritraggono coi “molti compagni d’amore” negli incontri di poesia, in Grecia e nei Festival internazionali a cui ha partecipato, il suo viso sorridente, divertito, non lascia intravedere ombre, così come non fa pensare al tempo sonnolento della provincia la passione instancabile con cui Sotirios affianca ormai da anni alla carta stampata riviste digitali, blog, pagine face book e trasmissioni radiofoniche. La risposta ho creduto di leggerla ancora una volta in Sarajevo.
La vita, come la poesia, può trovare un inaspettato, “insolito fremito vitale”, proprio là dove crollano ponti, certezze, lontananze scambiate per ostilità.
Ma se la poesia nasce dal gelo, è solo quando si fa corpo essa stessa, nominando l’innominabile dell’esperienza che ognuno fa di sé e del mondo, che apre la strada della comprensione anche per lo sconosciuto che non frequenta Accademie e convivi letterari.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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