Spettatori, carnefici o vittime? Dialogo con Alessandro Dal Lago
di Jacopo Guerriero
Walter Benjamin la nominava povertà dell’esperienza. Hannah Arendt diceva desolazione, indicava il destino degli uomini, in epoca totalitaria. Storia di non appartenenza, era -la nostra- di osservazione e incidenza zero, morte di quelle relazioni che costituiscono l’esistenza umana . Eppure: anche ora che lampante è l’arroganza della tecnica, una reazione collettiva non accade. Forse anche da queste premesse avrà mosso Alessandro Dal Lago nella scrittura di Carnefici e spettatori (Raffaello Cortina editore, Milano 2012).
Tra i maggiori sociologi al mondo, dispari della sinistra italiana, l’autore, nel suo nuovo volume, parte dal riconoscimento di un’assenza che è anche constatazione: da 25 anni l’Occidente combatte guerre in mezzo mondo senza che la sua vita quotidiana subisca alterazione, senza che questo produca scandalo. Solo indifferenza. La religione civile della notizia -non importa più se vera o falsa, e non è dettaglio- detta tempi, liturgie, ma la lingua spettacolare annulla, la commozione del male è un ricordo. Cos’è cambiato, allora, nel nostro sguardo? Tra presente e passato -la polemica contro la rappresentazione falsata dell’intervento occidentale nelle primavere arabe e in Libia da parte dei media istituzionali, e la retrospettiva degli autori maggiori che si sono cimentati nel racconto della guerra, negli ultimi secoli- ecco un libro che comincia dove finisce l’eclissi del giornalismo.
È un problema di metodo, professore? Se le notizie sono tutto e dappertutto ma senza effetto, dove cercare forza di verità?
Alessandro Dal Lago: Penso che si tratti di trovare un punto di osservazione antropologico – dotato, letteralmente, della stessa estraneità curiosa e scientifica con cui un tempo gli antropologi studiavano le culture “altre”. Naturalmente, nel caso della nostra cultura (occidentale, sviluppata ecc.) è necessario che lo sguardo sia fondato su una certa consapevolezza storica. Ma in ogni caso si dovrebbe cercare una sorta di stupefazione o, se vuole, di “epoché” fenomenologica.
Con quale obiettivo?
Alessandro Dal Lago: Solo questa potrebbe consentirci di affrontare un’assenza, come appunto la non-rappresentazione della guerra. Oppure, di discutere fenomeni così singolari da passare inavvertiti, anche se sotto gli occhi di tutti. Le farò un esempio: gli incontri di arti marziali professionistiche maschili e femminili trasmessi dalle tv a pagamento. Alla fine dei match, gli atleti e le atlete hanno quasi sempre il volto insanguinato e tumefatto, non sono infrequenti fratture agli arti o lussazioni. Ebbene, come è diventato normale tutto questo? Credo che lo sguardo antropologico sia indispensabile per comprendere la funzione anche di questi spettacoli.
Tornando alla guerra è anche un problema di mediatori. Nel libro lei polemizza con Bernard H. Lèvy. E’ ancora possibile pensare a un ruolo degli intellettuali nella società?
Alessandro Dal Lago: Le retoriche auto-celebratorie dilagano e questo è un fenomeno tipicamente italiano, anche se opinion maker narcisisti esistono anche altrove (sì, il caso di Bernard Henry Lèvy è uno dei più clamorosi al mondo). Il problema è che questo modello (si potrebbe chiamare della denuncia narcisistica) coinvolge scrittori di successo (Saviano), magistrati e neo-leader (Ingroia, penso al suo libro Io so), personaggi come Santoro e Travaglio e così via, ed è usato da certi media in chiave d’influenza pubblica: non c’è praticamente malefatta organizzata su cui Saviano non si esprima. E non parliamo dei comici (Grillo, ecc). È come una riedizione dei muckraker (letteralmente, i rivoltatori di fango), i giornalisti d’inchiesta che all’inizio del secolo XX, negli Usa, scoprivano e denunciavano i lati peggiori della società americana. Con la differenza che i muckraker lottavano contro le macchine politiche e amministrative da una posizione marginale (scrivevano tutti per la stampa indipendente o di provincia), mentre quasi tutti i personaggi citati sopra hanno alle spalle o potenti macchine mediali o movimenti politici. Si realizza così il paradosso che un Saviano, una vera potenza della comunicazione pubblica, un intoccabile e incriticabile (lo so per esperienza personale), parla di censura appena qualcuno non è d’accordo con lui. Io credo che gli intellettuali – come diceva Hannah Arendt – perdano qualsiasi capacità di autentica persuasione quando sono in condizioni di potere.
A proposito: a un certo punto del suo volume lei passa in rassegna le teorie di De Maistre e Girard contrapposte al cristianesimo di Tolstoj o al pensiero religioso di Gandhi. C’è stato un punto, poi, in cui si è cominciato ad avere orrore nel pensare un legame sociale basato sull’idea di sacrificio. E però: come spiegare, nel mondo secolarizzato, l’evidente crudeltà nei legami sociali?
Alessandro Dal Lago: Beh, credo che quella del progresso (assoluto o relativo) sia una mitologia a cui hanno contribuito importanti filosofi e pensatori come Blumenberg, Habermas e Popper, sociologi come Norbert Elias. Secondo me non di progresso si tratta, ma di neutralizzazione: il legame sociale è costruito, oggi come ieri, sulla violenza mimetica, ma questa – dalla metà dell’Ottocento in poi, più o meno – non si può mostrare (oggi, i riferimenti alle violenze di polizia, alle carceri ecc. sono sempre indiretti, e retorici, ma allusivi)
Insomma orrore silenziato..
Alessandro Dal Lago: Le sofferenze non si possono far vedere, nessuno è ritenuto mai direttamente responsabile, i governi sono indifferenti, perché sanno, forse, che in fondo i cittadini vogliono la punizione dei criminali e dei colpevoli e vogliono – parliamoci chiaro – che i detenuti soffrano. Io ho sempre simpatizzato per la sinistra radicale, ma oggi sono stupefatto dalla presenza di tanti sostituti procuratori nella cosiddetta sinistra, dal giustizialismo, dall’evidente ossessione per le manette.
Cortocircuito?
Alessandro Dal Lago: Che razza di sinistra è quella che rinuncia alla sua storica lotta per i diritti dei deboli e il superamento della penalità?
Allargandoci un poco rispetto al suo libro, allora, forse non è un caso che il Vietnam non sia mai stato detto da un grande romanzo –forse fa eccezione solo Marlantes con Matterhorn.
Alessandro Dal Lago: È la guerra in generale, come sopra, e non solo quella del Vietnam, a non essere raccontata o raccontabile oggi, se non in modo tangenziale, paradossale, metaforico (per contrasto si pensi allo straordinario successo, da quasi due secoli ormai, della narrativa criminale, gialla e noir: il delitto affascina, la guerra no). Per non parlare del cinema giallo e noir. Ma mi correggo: la guerra era massicciamente presente nel cinema fino agli anni Sessanta, come rievocazione del secondo conflitto mondiale (la lotta del bene contro il male), ma molto meno dopo e pochissimo oggi, e comunque senza successo.
L’ultima domanda è sulle possibili conseguenze di tutto quello che stiamo vivendo. Quali, quante e quando al pettine?
Alessandro Dal Lago: Credo che la neutralizzazione del dolore, di cui parlavo sopra, e l’esclusiva dimensione mediale di qualsiasi significato pubblico aprano la strada all’impensabile. Le faccio un esempio attualissimo: la terribile situazione della Grecia. Qualche tempo fa Galli della Loggia ha scritto un editoriale assai forte sull’incredibile indifferenza dell’Europa davanti a un paese in cui i bambini si stanno ammalando in massa per mancanza di cure adeguate e il 50% della popolazione è sotto la soglia della povertà (e tutto questo è implicitamente giustificato, soprattutto nell’Europa del nord, con lo slogan tipicamente protestante: “Se la sono voluta loro, così imparano a sperperare”).
Strana coppia lei e Galli..
Alessandro Dal Lago: Per una volta (non mi capita spesso) ho condiviso pienamente l’articolo di Galli della Loggia. Ma mi chiedo: la Grecia è un’eccezione? Penso di no. Un paese come il nostro è protetto per il momento dal destino della Grecia solo perché un crollo italiano affosserebbe l’economia europea e forse mondiale. La Germania non può rinunciare a un mercato come il nostro, le banche di mezzo mondo fallirebbero. Ma qualsiasi altro paese, quando è marginale nell’economia sviluppata, è lasciato al suo destino. La tecnologia ha un peso enorme in tutto questo, ma ancor più letale è il ruolo di un sistema globale dell’informazione che, quanto più produce news, tanto più ottunde la capacità di percepire sofferenze e ingiustizie.
[cite]
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tysm literary review, Vol 1, No. 3 – march 2013
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