Terrorismo e globalizzazione
Aldo Masullo
Ogni fenomeno sociale, per quanto semplice, è il «campo di un gioco di forze umane, personali e impersonali, materiali e immateriali». Le forze vi s’incontrano e vi si scontrano, vi si raggruppano e vi si dividono, via via alcune diventando egemoniche e altre riducendosi a subalterne, tutte più o meno rapidamente cambiando ruolo e peso, e poi deperendo fino a sparire, mentre altre nascono e fresche entrano in campo.
Non è il campo a rendere possibile il gioco, ma il gioco determina il campo. A loro volta le forze e il campo si determinano reciprocamente. Il pacifico mercato e la guerra sono due «campi di gioco di forze», l’uno e l’altro tendenzialmente globalizzati nel nostro tempo ipertecnologico e sovrapopolato. Da ciò consegue che ogni variazione nei rapporti tra le forze in uno scacchiere particolare tende a ripercuotersi in tutti gli altri, quasi per l’irresistibile propagazione di giganteschi tsunami.
Come i ben difesi mercati dell’economie nazionali son oggi travolti dalla irruenza degli scambi senza frontiere, così tendono a estinguersi i molti terrorismi regionali, tutti diversamente motivati ed esercitati, ma ognuno confitto finora come acuminata spina nel corpo di uno Stato.Non si dimentichi che il nostro tempo, con l’introduzione dell’atomica, è iniziato sotto il segno dell’irrevocabile minaccia di annientamento dell’umanità intera, al punto che la pace si è chiamata «equilibrio del terrore».
Ed è evidente che con la globalizzazione del campo di gioco delle forze organizzate, il terrorismo non avrebbe alla fine potuto non globalizzarsi a sua volta. Il «campo di gioco di forze» in cui consiste il terrorismo ha un carattere tragico come tutti gli stati di guerra, cioè ogni mano e ogni partita del suo terribile campionato non possono concludersi se non con la morte di esseri umani. Tale tragicità come sempre culmina nelle «stragi degl’innocenti», o meglio degli incolpevoli, militi coatti o pacifici non giocatori. Però il terribile paradosso del terrorismo è che le sue vittime non sono non volute, come gl’ignari pedoni falciati da un’auto di criminali che fuggono dinanzi all’inseguimento poliziesco, ma anzi sono lo strumento essenziale del suo gioco.
Le vittime non solo non entrano nel gioco se non passivamente, come vittime, non fortuite, e necessarie al gioco, crudelmente volute, ma non sono state scelte per le loro individuali identità, bensì solo come occasionale campione di una collettività.
Il terrorismo toglie alle sue vittime il volto, prima ancora che la vita. La sua arma più potente è la programmatica indifferenza all’identità e quindi l’assoluta imprevedibilità dei bersagli. Il suo indifferente bersaglio è l’uomo della modernità estrema, o postmodernità, il celebre «uomo senza alcuna propria qualità» immortalato da Musil.
Il fenomeno è il campo di gioco delle molteplici forze umane, materiali e immateriali, nell’epoca della globalizzazione, nella vorticosa dinamica dei più disparati fattori, del cui incalcolabile combinarsi il punto d’arrivo, in ogni momento del processo, è la situazione del singolo, di ognuno di noi preso nella sua imprevedibile e irripetibile singolarità. In effetti ogni uomo oggi non è tanto «senza qualità proprie», quanto si è ridotto incapace di aver coscienza di tale privazione. Altro che scontro tra «le» civiltà diverse ! Il terrorismo è il sintomo dolorosissimo del forzoso dissolversi delle molteplici e diverse civiltà «nella» unica nascente civiltà globale. Ne siamo tutti, occidentali e orientali, ugualmente responsabili e destinatari finali.
Noi occidentali, secondo il modello ideologico intuito da Goethe e da Hegel, abbiamo impiegato e consumato le nostre qualità nell’ oggettivarle, nel produrre le cose, i beni da consumare, e i mezzi per produrle, le tecnologie: abbiamo così perseguito la libertà, la «libertà dei moderni», cercando la nostra identità sempre meno in noi stessi e sempre più fuori di noi, sempre più nei piaceri artificiali e imitativi e sempre meno nella gioia della sia pur modesta invenzione personale, sempre più nei meccanismi istituzionali e sempre meno nella ricerca etica.
Gli orientali in genere hanno percorso la strada opposta: hanno temuto che, per la libertà, si corresse il pericolo di perdere l’identità e, nel suo produttivo oggettivarsi, di annullarla. A loro è sembrato che della libertà bastasse quanto consentiva l’ordine immutabile, la tradizione. A noi è parso invece che nessun ordine valesse la libertà e che a questa se mai, per naturale sovrappiù, seguisse l’identità.
Certo, dietro tutte queste impalcature culturali stanno i fattori economici e le strategie di potere, ma nel singolo, in me, nel mio concreto personale, sono i loro effetti culturali che muovono il dinamismo esistenziale, il mio sentirmi sicuro o insicuro, in pace o in guerra con me stesso. Il problema del terrorismo, indipendentemente dalle immediate difese, sacrosante, contro l’immediatezza delle aggressioni, non può essere risolto se non si coltiva la convinzione che, nel campo di gioco del mondo storico, gli scontri tra le forze son fenomeni oggettivi e come tali vanno compresi; e che né «noi» né «loro» siamo chiamati a salvare la civiltà propria contro l’altrui, ma nel naufragio incombente di ambedue «le» civiltà, siamo tutti, «noi» e «loro» parimenti impegnati non a salvarle ma a costruire la nuova, comune, globale civiltà, aiutandoci reciprocamente, a curare i nevrotici complessi, il «loro» di perdita dell’«identità» e il «nostro» di perdita della «libertà».
[cite]
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philosophy and social criticism
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