Una foto in via De Amicis
Damiano Palano
Nel corso dei decenni, l’espressione «anni di piombo» – entrata nel nostro lessico dopo il film omonimo di Margarethe von Trotta – è andata progressivamente a identificare quel lungo periodo della storia italiana che inizia con il 1968 e giunge fino all’inizio degli anni Ottanta. Nel dibattito pubblico, e nella memoria collettiva, la durata degli «anni di piombo» si è così progressivamente dilatata. Ha cessato di identificare soltanto la stagione del terrorismo e della lotta armata – quel periodo in cui il conflitto sociale e politico si trasforma in una dolorosa, nichilista, «guerra civile a bassa intensità» – ed è diventato qualcosa di più, la formula con cui rappresentare un decennio di follia, in cui l’Italia si muta in una fucina di violenza incontrollabile, di odio viscerale, di follia ideologica. Una simile dilatazione distorce, almeno in parte, la realtà. Quantomeno perché, proprio negli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, l’Italia vive forse uno dei periodi più vivaci della sua storia, una stagione di straordinaria creatività pressoché in tutti campi della sua vita culturale. Ovviamente, l’Italia di quel periodo è anche un paese lacerato da fortissime passioni politiche, da tensioni ideologiche capaci di investire in profondità la vita quotidiana, e che in modo non episodico hanno anche risvolti violenti. Ma gli «anni di piombo» – gli anni in cui, effettivamente, le armi, lo scontro militare, la simulazione della guerra civile, si impadroniscono del proscenio – cominciano solo sul finire di quella stagione, e si consumano, tra omicidi, esecuzioni, delazioni e vendette, tra la fine degli anni Settanta e il principio degli anni Ottanta.
Con ogni probabilità, il 16 marzo 1978 – con la strage di Via Fani – e il 9 maggio 1978 – con l’esecuzione di Aldo Moro – rappresentano in modo inequivocabile l’ingresso in quella drammatica fase. Ma, prima ancora di quei giorni tragici, e prima ancora che le Polaroid di Moro prigioniero delle Br vengano a fissare per sempre il ritratto emotivo di un’epoca, un’altra foto – anch’essa celebre, e legata a un evento altrettanto tragico – riesce a restituire il momento preciso in cui hanno inizio gli «anni di piombo», e in cui finisce la stagione di mobilitazione collettiva incominciata un decennio prima. Quella foto ritrae un estremista con il volto coperto da un passamontagna, che, con le gambe divaricate e leggermente piegate, e con le braccia distese orizzontalmente, stringe fra le due mani una pistola, puntata verso un obiettivo che rimane fuori dall’inquadratura.
Nel corso del tempo, quella foto si è impressa nell’immaginario collettivo ed è diventata l’«immagine-icona» degli «anni di piombo», perché, come altre foto celebri del Novecento (alcune delle quali si possono ritrovare nel recente volume di Hans-Michael Koetzler, 50 icone della fotografia. Le storie degli scatti, Taschen, pp. 304, euro 19.99), riesce a fissare per sempre, o qualche volta a ‘costruire’, una condizione emotiva. Non è d’altronde eccezionale o fortuito che la memoria degli «anni di piombo» sia condensata in quel fotogramma, o nelle Polaroid di Moro. «Per quanto l’800 sia il secolo in cui la fotografia è nata», ha scritto Marco Belpoliti, «è nel ‘900 che il valore d’icona delle foto diventa centrale, per via della diffusione degli apparecchi di riproduzione, e della stampa delle foto in giornali e periodici, delle mostre e dei libri». Così, «diventa naturale affidare alla fotografia la memoria del passato», «elevare un’immagine a simbolo stesso degli avvenimenti», perché, come i ‘simboli’, una foto è in grado «di ‘mettere insieme’, quello che è accaduto e la comprensione immediata del fatto» (Quando uno scatto diventa un’icona, in «Tuttolibri – La Stampa», 18 giugno 2011, p. VI).
Per la prima volta, quella fotografia divenuta «icona» e «simbolo» venne pubblicata il 16 maggio 1977 dal «Corriere d’Informazione», e nei giorni seguenti fu ripresa da molti altri giornali, in Italia e estero. Nei trent’anni successivi, quell’immagine è stata d’altronde riprodotta migliaia di volte, non soltanto perché, molto più di ogni editoriale o di ogni altro resoconto giornalistico, riesce a dar conto della realtà di una violenza incontrollabile, estrema. Ma anche perché, indubbiamente, si tratta di una fotografia esteticamente formidabile, tanto da suscitare persino il dubbio che sia in qualche modo artefatta o costruita. Questi caratteri non passarono inosservati a Umberto Eco, che, pochi giorni dopo la prima pubblicazione, nella propria rubrica sull’«Espresso», esaminò la fotografia. «Se è lecito (ma è doveroso) fare osservazioni estetiche in casi del genere», scriveva Eco, «questa è una di quelle che foto che passeranno alla storia e appariranno su mille libri» (Una foto, raccolto in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983). Quella foto aveva infatti gli stessi elementi di altre celebri immagini, come quella del miliziano ucciso di Robert Capa, quella dei marines che piantano la bandiera su un isolotto del Pacifico, o quella del cadavere di Che Guevara. «Ciascuna di queste immagini» – continuava Eco – «è diventata un mito ed ha condensato una serie di discorsi. Ha superato la circostanza individuale che l’ha prodotta, non parla più di quello o di quei personaggi singoli, ma esprime dei concetti. È unica ma al tempo stesso rimanda ad altre immagini che l’hanno preceduta o che l’hanno seguita per imitazione. Ciascuna di queste foto sembra un film che abbiamo visto e rimanda ad altri film che l’avevano vista» (ibidem). Ma la fotografia pubblicata dal «Corriere d’Informazione» non si limitava a fissare un gesto, un’azione criminale. Al tempo stesso, ‘diceva’ qualcosa di più e di nuovo, contribuiva alla costruzione di un ‘ragionamento’. «Non interessa sapere se si trattava di una posa (e quindi di un falso); se era invece la testimonianza di un atto di spavalderia cosciente; se è stata l’opera di un fotografo professionista che ha calcolato il momento, la luce l’inquadratura; o se si è fatta quasi da sola, scattata per caso da mani inesperte e fortunate. Nel momento in cui essa è apparsa il suo iter comunicativo è cominciato: e ancora una volta il politico e il privato sono stati attraversati dalle trame del simbolico che, come sempre accade, si è dimostrato produttore di realtà» (ibidem). In altre parole – ed era questa la tesi principale di Eco – la fotografia dello sparatore rivelava il passaggio dall’immagine della rivoluzione consolidata dall’iconografia (e dunque dall’idea della rivoluzione come fatto collettivo) a qualcosa di diverso, all’immagine di un’azione individuale e al modello dell’eroe solitario: «Cosa ha ‘detto’ la foto dello sparatore di Milano? Credo abbia rivelato di colpo, senza bisogno di molte deviazioni discorsive, qualcosa che stava circolando in tanti discorsi, ma che la parola non riusciva a far accettare. Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era schematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria, che quando ha messo in scena un uomo solo lo ha sempre visto come vittima, agnello sacrificale: il miliziano morente o il Che ucciso, appunto. Questo eroe individuale invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West – non più cari a una generazione che si vuole di indiani. Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Di colpo ha prodotto una sindrome di rigetto. Essa esprimeva il seguente concetto: la rivoluzione sta altrove e, se anche è possibile, non passa attraverso questo gesto ‘individuale’» (ibidem).
A trentaquattro anni di distanza, il contesto in cui nacque quel celebre scatto viene oggi restituito da Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, un volume ricco di illustrazioni, curato da Sergio Bianchi (Derive Approdi, pp. 166, euro 20.00). Quel fotogramma ritraeva infatti un momento delle sequenze più drammatiche di una manifestazione che si svolse a Milano, il 14 maggio 1977, in occasione della quale, in via De Amicis, un piccolo gruppo di manifestanti innescò uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine. La sparatoria provocò la tragica morte di Antonio Custra, venticinquenne Vice Brigadiere di Pubblica Sicurezza, che lasciava la giovane moglie in attesa di una figlia.
Il volume curato da Bianchi riporta un cospicuo materiale iconografico – tra cui spiccano gli scatti relativi proprio ai sessanta secondi di follia della sparatoria contro gli agenti – che aiuta a comprendere non solo la dinamica dei fatti, o i restroscena di una celebre fotografia, ma anche da cosa nascesse quell’attacco, e dunque quali fossero le motivazioni che condussero una parte (marginale, ma non minoritaria) dell’estrema sinistra ad abbandonare, di fatto, la piazza e la mobilitazione per impugnare le armi da fuoco e indirizzarsi verso lo scontro armato. E, anche per questo, Storia di una fotoconsidera quegli eventi come il culmine di un crescendo che era iniziato alcuni mesi prima. In effetti, quella milanese del 14 maggio non fu la prima manifestazione in cui facevano la loro comparsa le pistole. Un momento di snodo, da questo punto di vista, era stata la manifestazione romana del 12 marzo 1977: una manifestazione indetta all’indomani dell’uccisione a Bologna del militante di Lotta continua Francesco Lorusso da parte delle forze dell’ordine, che vide sfilare nella capitale decine di migliaia di persone, e in cui, oltre alle bottiglie Molotov, furono utilizzati in modo massiccio pistole e persino fucili. Quello stesso giorno, a Milano un corteo giunse sotto la sede di Assolombarda, in via Pantano, scaricando pallottole e bottiglie incendiarie contro le vetrate del palazzo deserto.
Se quel giorno non si registrarono vittime, due mesi dopo, il 12 maggio, le cose andarono diversamente. Nel corso di una festa indetta dal Partito radicale per celebrare l’anniversario del referendum sul divorzio (e per sfidare il divieto di manifestazioni politiche stabilito per la città di Roma dall’allora Ministro degli Interni Francesco Cossiga), alcuni colpi sparati da agenti in borghese uccisero la studentessa diciannovenne Giorgiana Masi. Proprio in questo clima, ulteriormente arroventato dall’arresto di due noti avvocati di Soccorso Rosso, le diverse formazioni della sinistra extra-parlamentare milanese decisero di organizzare una manifestazione di protesta per il successivo sabato 14 maggio. Tra i promotori, erano comprese tutte le diverse anime dell’estrema sinistra, e dunque anche ciò che rimaneva dei ‘gruppi’, come Lotta continua, ormai in via dissoluzione dopo la batosta elettorale del 20 giugno 1976 e lo scioglimento di qualche mese dopo, e il Movimento del Lavoratori per il Socialismo, l’organizzazione di impostazione stalinista, nota soprattutto per il suo servizio d’ordine quasi paramilitare, che raccoglieva in parte l’eredità del vecchio Movimento Studentesco di Mario Capanna. All’interno di questa galassia, in via di rapido disfacimento, un ruolo rilevante era però rappresentato anche da quanto rimaneva dei collettivi studenteschi e dei collettivi giovanili, un movimento magmatico ed eterogeneo che, alcuni anni prima, aveva ottenuto una forte visibilità, ma che, dopo le esperienze disastrose del Festival del Parco Lambro e della contestazione della Prima della Scala, nel dicembre del 1976, ormai aveva anch’esso imboccato la china discendente. A tentare di esercitare una funzione di indirizzo su forze così eterogenee, si muovevano, in costante competizione, alcune organizzazioni più o meno informali, che in genere venivano ricomprese all’interno della cosiddetta ‘area dell’autonomia’. In particolare, Paolo Pozzi ne individua tre diverse componenti: in primo luogo, il collettivo del Casoretto, il cui servizio d’ordine esprimeva ancora una struttura piuttosto consolidata; in secondo luogo, il gruppo di Rosso, legato all’omonimo giornale, nato alcuni anni prima dalla confluenza di anime molto diverse, che nel corso degli anni si era fatto portavoce sia degli organismi autonomi di alcune fabbriche milanesi, sia dei collettivi giovanili (e delle loro istanze ‘controculturali’); infine, la formazione raccolta attorno al foglio «Senza Tregua», nata in gran parte da una scissione da Lotta continua e promossa da gruppi di operai della Magneti Marelli, dell’Innocenti e di altre fabbriche milanesi (e dalla quale, pochi mesi più tardi, avrebbe preso forma il gruppo armato Prima Linea).
A dispetto della complessità degli schieramenti, nel maggio del 1977 gran parte di queste formazioni appariva ormai in seria difficoltà, sia perché le inchieste giudiziarie avevano iniziato a colpire i leader più noti, sia perché l’escalation del livello dello scontro aveva sfoltito notevolmente la schiera dei militanti. Ma proprio questa situazione di oggettivo sfaldamento fu all’origine della sparatoria che, il 14 maggio, ebbe come teatro via De Amicis. Privo ormai di una autentica strategia, e anche di qualsiasi capacità di mediazione, un gruppo come Rosso si trovò di fatto imprigionato fra la necessità di evitare che la violenza si indirizzasse contro lo Stato (ossia, contro le forze dell’ordine) e l’impossibilità di rinnegare l’esaltazione della violenza. Un’esaltazione della violenza che «Rosso», sulle sue pagine, aveva coltivato in modo sempre più ambiguo nel corso del tempo, nel tentativo di non perdere la guida sulle frange estreme, ormai indirizzate verso la lotta armata. Al tempo stesso, trovavano uno spazio sempre maggiore le iniziative, ormai da qualsiasi progetto politico, portate avanti da alcuni componenti dei collettivi di quartiere, i cui membri erano spesso studenti delle scuole superiori. E fu in effetti proprio il Collettivo Romana-Vittoria – composto da giovanissimi come Marco Barbone, allora diciannovenne – a essere protagonista della folle sparatoria del 14 maggio. Se due mesi prima, in occasione dell’assalto alla sede di Assolombarda, la violenza si era diretta solo contro le cose, il 14 maggio l’obiettivo divenne infatti tragicamente diverso.
Da quanto emerge dalle carte processuali, riassunte nel resoconto di Bianchi, la sparatoria di via De Amicis non fu premeditata, anche se era stata pianificata un’azione contro il carcere di San Vittore. Se, dinanzi al carcere, il corteo era sfilato senza incidenti di rilievo (per l’intervento, pare, dell’ex leader di Potere Operaio Oreste Scalzone), l’incontro fortuito con una colonna di polizia del III° Celere, proveniente da via Molino delle Armi e diretta alla caserma di Sant’Ambrogio, offrì invece alla ‘squadra armata’ Romana-Vittoria l’occasione per un attacco contro le forze dell’ordine. Mentre il corteo transitava da via Olona verso via Carducci, una piccola pattuglia di giovani mascherati, armati di pistole e Molotov, imboccò via De Amicis per una cinquantina di metri, arrivando fino all’altezza dell’incrocio con la piccola via Caroccio. A un primo lancio di bottiglie incendiarie, attribuito dalla ricostruzione giudiziaria ad alcuni studenti dell’Istituto Cattaneo, seguirono i colpi di arma da fuoco, che, sempre secondo la sentenza definitiva, furono esplosi dalla componente armata del collettivo Romana-Vittoria, e in particolare da Marco Barbone, Enrico Pasini Gatti, Giuseppe Memeo, Marco Ferrandi e Luca Colombo. Ed è proprio a questi attimi che si riferisce il celebre scatto diventato l’immagine icona degli «anni di piombo». Il gruppo degli armati fu infatti seguito in via De Amicis da una pattuglia di ben cinque fotografi – Dino Fracchia, Paolo Pedrizzetti, Paola Saraceni, Marco Bini e Antonio Conti – che ripresero, da diverse prospettive, i circa sessanta secondi dell’attacco armato. E Pedrizzetti, posizionato sul marciapiede di destra, fissò il momento cui il giovane incappucciato – in cui in seguito verrà riconosciuto Memeo – sparò in direzione della polizia, con le braccia unite e le gambe piegate.
Della foto scattata da Pedrizzetti, il grande pubblico conosce non tanto la versione pubblicata dal «Corriere d’Informazione», quanto soprattutto una versione in gran parte tagliata, in cui appare quasi esclusivamente il giovane incappucciato. Era forse a questa versione che Eco si riferiva, perché in questo taglio risultano del tutto assenti non solo la folla dei manifestanti, che fugge lontano dal luogo della sparatoria, ma anche gli altri fotografi, che, posizionati esattamente dalla parte opposta della strada, ritraggono la medesima scena da una prospettiva diversa. Ora, nel libro curato da Bianchi, sono riprodotte tutte le fotografie scattate in quei momenti da Pedrizzetti, e dunque è possibile ricostruire i diversi momenti precedenti e successivi alla sparatoria. Ma nel volume sono presenti anche altri scatti, altrettanto importanti per ricostruire la dinamica dei fatti.
La storia di queste foto va d’altronde al di là del semplice interesse storiografico, perché ha avuto dei risvolti importanti anche nella vicenda giudiziaria. La ricerca del responsabile non si rivelò infatti così agevole, non tanto perché non fosse stato piuttosto semplice ricostruire l’identità dei protagonisti (soprattutto dopo il pentimento di alcuni di loro), quanto per l’accertamento delle responsabilità dei singoli nella morte di Custra e nel ferimento di alcuni passanti. Certamente, gli scatti di Pedrizzetti dovettero facilitare il lavoro degli inquirenti, e anche la registrazione della cronaca effettuata in diretta da Radio Canale 96 (la cui trascrizione è riprodotta nel libro) chiarì non poco la dinamica dei fatti. Ciò nonostante, alcuni degli indagati contestarono la ricostruzione dei giudici. Ma, soprattutto, le perizie balistiche scagionarono Memeo, il principale imputato, dall’accusa di avere ucciso il Vice-Brigadiere. Come in una nuova versione di Blow-up, la verità doveva essere cercata proprio nelle fotografie di quei momenti. Non solo in quelle di Pedrizzetti, ma anche negli scatti degli altri fotografi presenti il 14 maggio in via De Amicis. Poco dopo i fatti, gli inquirenti sequestrarono i negativi al fotografo Fracchia, ma non riuscirono a trovare quelli di Conti, il fotografo che, nel momento in cui Pedrizzetti fissava lo sparo di Memeo, si trovava sul marciapiede opposto di via De Amicis, parzialmente riparato dagli alberi. Quei negativi e quelle foto riemersero solo molti anni dopo, in seguito a una perquisizione dell’abitazione di Conti, e sono anch’essi riportati nel libro. Proprio grazie ai negativi di Conti – l’unico dei fotografi politicamente vicino ai manifestanti, che proprio per questo non consegnò i negativi – fu possibile ricostruire con maggiore chiarezza gli eventi. «I suoi scatti (ben 28 negativi) non furono mai pubblicati: finirono in un cassetto, riposti nel segreto e nella clandestinità. E, anzi, dodici anni dopo, come ha scritto il giudice Guido Salvini, sono state proprio quelle fotografie, dopo una perquisizione a casa di Conti, a trasformarsi in altrettante prove risolutive per fissare i termini processuali di tutto l’episodio» (G. De Luna, Controscatto, in «alfalibri – alfabeta 2», n. 2, giugno 2011, p. 3).
Al di là della vicenda giudiziaria, quegli scatti costituiscono comunque – per l’osservatore e per lo storico di oggi – un materiale di straordinario interesse. D’altronde, come ha osservato il curatore: «l’intento del libro non era un ‘effetto Blow-up’, cioè far dire alle immagini il contrario di quanto detto sinora riguardo alla dinamica degli avvenimenti. Oltre al taglio dell’inquadratura, c’è la situazione di quel tempo» (Storia di ‘Storia di una foto’. Conversazione fra Sergio Bianchi e Andrea Cortellessa, in «alfalibri – alfabeta 2», n. 2, giugno 2011, p. 3). E la «situazione del tempo» coinvolge, retrospettivamente, la lettura che Eco fornì a caldo della celebre foto di Pedrizzetti. A ben vedere, infatti, quello del giovane incappucciato non appare più come un «gesto isolato», ma come un gesto – ovviamente folle, insensato, incosciente – che si inserisce in un determinato contesto, nel quadro di una dimensione collettiva, non solo rappresentata dal corteo in fuga verso via Carducci, che si intravede sul fondo della foto. È una dimensione collettiva che non diminuisce le responsabilità del singolo, e che non allevia neppure le responsabilità – politiche e umane, ben prima che giudiziarie – di quanti coltivarono un’ambigua fascinazione per la violenza. E, d’altronde, fu proprio quella fascinazione a sancire la fine della mobilitazione collettiva e l’inizio degli «anni di piombo». Anche se l’interpretazione di Eco era dunque forzata, essa si rivelò profetica. In qualche misura, come notano nel loro intervento Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, «il ‘frame’ interpretativo di Eco ha provocato poi il re-frame della foto!». In sostanza, «Eco ha fatto uso dell’immagine per la sua interpretazione, e questa interpretazione, sedimentata, è a sua volta stata usata e tradotta in una pratica. A Eco si è creduto, tanto da ritoccare lo scatto e ripulirlo dalla partecipazione collettiva, spacciata per superfluo», e, così, «qualcuno, in sordina, ha creato una trasposizione fotografica ad hoc di quel verbo, che ha preso a sostituire la versione ufficiale della foto» (14 maggio 1977. La sovversione nel mirino, in Storia di una foto, cit., p. 141).
Ma l’effetto non si limitò a una re-interpretazione successiva, a una ri-lettura degli «anni di piombo». L’effetto investì infatti gli stessi protagonisti, che, in qualche modo, ri-definirono l’immagine di se stessi sulla base della figura terribile e affascinante dello sparatore di via De Amicis, dell’«eroe solitario» di cui aveva scritto Eco. «Dal momento in cui i media attuano la loro operazione di riduzione e definizione», ha scritto proprio a questo proposito Maurizio Lazzarato, «il discorso sul terrorismo e la posizione combattentistica dentro al movimento crescono specularmente, presupponendosi l’un l’altro e trovando l’uno nell’altro risorse e ragioni per esistere e svilupparsi», tanto che, alla fine, «terrorismo e pratiche combattenti corrispondono». E, in effetti, ciò che rimaneva dell’estrema sinistra milanese (o della sua frangia estrema) imboccò proprio quel giorno un rapidissimo processo di decomposizione. Anche se «Rosso» continuò le pubblicazioni, trasferendo il baricentro fuori da Milano, la sua funzione di direzione politica venne di fatto superata dall’escalation militarista che inghiottì le vite di molti giovani e giovanissimi, tra cui anche quelle dei protagonisti del folle blitz di via De Amicis. Ferrandi – giudicato, al termine del processo, come l’autore del colpo di pisola che uccise Custra – aderì a Prima linea, formatasi pochi mesi dopo sull’ossatura di «Senza Tregua». Memeo entrò invece nei Proletari Armati per il Comunismo, la piccola formazione armata di cui fece parte anche Cesare Battisti, e in cui si fusero, senza ormai alcun collegamento con prospettive di azione politica, militanti di estrema sinistra e componenti della micro-criminalità. Colombo, De Silvestri e Barbone – insieme all’ex brigatista rosso Corrado Alunni e ad altri – diedero vita invece alle Formazioni comuniste combattenti, ma Barbone avrebbe proseguito la propria attività con la fondazione della Brigata 28 ottobre, la cui principale azione criminale fu l’assassinio di Walter Tobagi, il 28 maggio 1980. Ma, più in generale, l’immaginario fissato nella foto di via De Amicis divenne lo specchio in cui quei giovani potevano ritrovare i contorni di una nuova identità, ri-definendo se stessi come guerriglieri nichilisti. A partire da quel momento – per effetto anche della straordinaria e terribile forza suggestiva dello scatto di Pedrizzetti – quei militanti videro se stessi, sempre di più, come gli sparatori del cinema poliziesco. E finirono forse per pensare a se stessi come a un nuovo «mucchio selvaggio». Tanto da gettare il loro futuro sul piatto di una partita fatale.