philosophy and social criticism

Una lettura di Politiche dell’Autismo

di Marco Minniti

Il genere della autie-biography, ovvero quello dell’autoracconto da parte delle persone autistiche della propria esperienza (oltre, e spesso contro, il paradigma medico dominante) è un filone letterario che da circa un decennio – pur con un notevole ritardo rispetto al mondo anglosassone – ha preso piede anche in Italia. Un filone che si è sviluppato, qui come altrove, soprattutto grazie al potere trainante dei social media, nonché delle tante comunità e micro-comunità che sono proliferate sul web a seguito del cosiddetto neurohype (il particolare interesse acquisito, nel discorso pubblico, dalle condizioni considerate neurodivergenti o neuroatipiche, e soprattutto da come le persone interpellate le narrano). In questo fermento che mescola, come non mai, “personale e politico”, ma anche istanze talmente eterogenee da entrare a volte in contraddizione, sono apparsi negli ultimi anni alcuni volumi collettivi, scritti a più mani: composizioni di voci singole – a volte anche prive di esperienze di scrittura propriamente dette – che sono andate ad affiancarsi alle opere di quegli autori che, precedentemente, si erano già posti come punti di riferimento del panorama (tra questi, citiamo almeno Fabrizio Acanfora e Claudio Ughetto coi rispettivi Eccentrico e Ad ampio spettro). È proprio in questo panorama che si inserisce questo Politiche dell’autismo – Etica, epistemologia, attivismo, uscito nella primavera 2025 per DeriveApprodi, composto di sedici saggi di altrettanti autori, e curato dai tre giovani dottorandi Alberto Bartoccini, Giulia Russo e Lorenzo Petrachi.

 

All’origine del volume c’era una call diffusa sui social dal titolo La triade dell’autismo: Etica, epistemologia, attivismo, che alla fine ha generato una quantità di materiale tale da trovare spazio in due libri: il primo, che ha ripreso direttamente la nominazione della call, è uscito nell’autunno 2024 per LEM Edizioni (col trascurabile contributo, tra i tanti, di chi sta scrivendo questo articolo), mentre il secondo, quello qui preso in esame, è giunto in libreria alcuni mesi dopo per DeriveApprodi. L’idea, lanciata dall’esperto italiano di Disability Studies e Critical Autism Studies Enrico Valtellina – il cui contributo apre qui il volume – era quella di rovesciare la cosiddetta triad of impairments con la quale, nei primi anni ‘80, la psichiatra britannica Lorna Wing aveva descritto le manifestazioni dell’autismo: in questo caso, proprio in contrapposizione con l’idea di stampo medico della mancanza o dell’impedimento (da mettere in conto alla persona coinvolta) si vuole evidenziare la natura sociale, situata, storicamente determinata di ciò che viene oggi ricondotto al significante “autismo”; ovvero di tutte quelle “non conformità relazionali, sensoriali, cognitive, esistentive” (nelle parole del già citato Valtellina) che sono state racchiuse in quella che è, di fatto, una diagnosi amministrativa. Una diagnosi che più di altre – anche in virtù del suo sviluppo collocato a metà del secolo scorso, e di come si è trasformata nel tempo – rivela oggi il suo carattere contingente.

 

Lo sguardo qui adottato, coerentemente con l’impostazione del filone dei Critical Autism Studies, è proprio quello “da dentro”, ovvero legato all’esperienza diretta dei soggetti interpellati: in questo Politiche dell’autismo – Etica, epistemologia, attivismo, sono autori e autrici autistiche a sviluppare le proprie riflessioni (più o meno personali, più o meno intrecciate con quelle degli altri) sul macro-argomento “autismo”, seguendo le tre linee argomentative riassunte dal titolo (comunque non da intendersi in senso rigido o “direttivo”). Lo stesso titolo, di suo, contiene e mette in evidenza innanzitutto il lemma “politiche”: seguendo la linea dei citati Critical Autism Studies (recente emanazione dei britannici Disability Studies, originatisi oltre un cinquantennio fa) quella autistica viene identificata come minoranza oppressa, ovvero oggetto di marginalizzazione e disabilitazione da parte di una società tarata su standard normativi (nonché escludenti per tutte le non conformità). In questo senso, tutti i contributi presenti nel volume – la cui linea viene illustrata nella prefazione, firmata dai tre curatori – condividono quest’ottica che è innanzitutto trasformativa, legata a quel filone delle scienze sociali che vuole farsi interprete della realtà ma anche veicolo di un suo possibile cambiamento. A dispetto della varietà di stili e approcci, quindi, qui più che nel volume “gemello” la prospettiva e le finalità si fanno mirate innanzitutto a una presa di parola (idealmente) collettiva: una presa di parola che, pur senza tralasciare l’autoracconto del singolo, mira a un possibile storytelling sulla condizione che possa riappropriarsi positivamente dell’individuazione categoriale di origine medica. “Nothing about us without us”, per riprendere appunto il vecchio slogan che caratterizzava i movimenti che diedero origine ai Disability Studies.

 

Eviteremo di avventurarci, in questa sede, in un’analisi puntuale di ogni singolo contributo, specificando comunque che il loro livello qualitativo resta, mediamente, piuttosto alto: preferiamo semmai tracciare alcune linee di tendenza che attraversano gli scritti, lasciando poi a chi legge la possibilità – e il piacere – di sviscerare i temi nel dettaglio. La natura più politica del volume, oltre che nella citata prefazione a firma Bartoccini, Petrachi e Russo (dal titolo eloquente: Uno spettro si aggira…) la troviamo nel secondo contributo (Schiacciati dal mito di Gramsci) in cui lo stesso Alberto Bartoccini esplora le criticità del mondo dell’attivismo “classico” rispetto alle esigenze della soggettività disabile, prendendo come esempio la figura di Gramsci: la sua fragilità fisica, unita alla determinazione instancabile, ne ha fatto (suo malgrado) un mito “performativo” per gli ambienti militanti, finendo per replicare deleterie logiche abiliste e di inspiration porn (“se ce l’ha fatta lui, allora posso farcela anch’io”); alla stessa area tematica si ricollega lo scritto di Lorenzo Petrachi, che con un titolo provocatorio (1875/2025 Affinità e neurodivergenze fra il compagno Marx e noi) mette in evidenza una possibile lettura in chiave marxista dell’originale paradigma della neurodiversità, accentuandone ulteriormente il carattere in nuce radicale e trasformativo; di carattere politico, nel senso di rapporto diretto con le istituzioni (in questo caso col sapere-potere psichiatrico) è poi il pezzo del sociologo Luca Negrogno (Premesse a un dialogo tra deistituzionalizzazione e neurodiversità) che mira a recuperare, nella sua complessità, la figura di Franco Basaglia per cercare un ponte tra l’attuale movimento della neurodiversità e quello che fu il grande movimento per la deistituzionalizzazione; l’auspicio è quello di far dialogare due soggetti – gli attivisti per la neurodiversità, e i cosiddetti survivors/refusers delle strutture manicomiali – che spesso si sono guardati con sospetto reciproco.

 

Le problematiche legate più specificamente all’attivismo (terzo elemento della triade del titolo) emergono innanzitutto nel testo a firma Alessandro Monchietto e Alice Sodi, dal titolo Desiderare con strategia – L’attivismo come esercizio di responsabilità: qui vengono messe in evidenza – da una prospettiva riflessiva, cioè quella di due persone direttamente coinvolte nel discorso – le criticità dell’attuale attivismo social per la neurodiversità, che spesso finisce per confondersi (consapevolmente o meno) col mondo dell’influencing adottandone le logiche performative, ignorando o sottovalutando la presa di voce idealmente collettiva (e quindi la responsabilità) che ogni istanza portata avanti in nome di una comunità comporta. Di attivismo, seppure in un’ottica storica e comparativa, tratta anche lo scritto di Alice Scavarda – posto in fondo al volume – dal titolo “Radicalmente differenti?” Una storia culturale dell’autismo in Italia, che analizza il modo peculiare, e come si è detto tardivo rispetto a molti altri contesti nazionali, in cui le istanze della neurodiversità sono state recepite ed elaborate (e a volte fraintese) nel nostro paese. Le tensioni tra attivismo e mondo (e sguardo) medico risiedono invece al centro di un contributo come quello di Caro Gervasi (Devirilizzare l’autismo. Contro l’extreme male brain theory) che smonta in modo vivace, argutamente polemico quanto ben argomentato, la vecchia teoria dello psicologo Simon Baron-Cohen, che vedeva nel cervello autistico una variante più spinta e portata all’estremo dei tratti associati alla maschilità; tensioni che emergono inoltre tanto nello scritto di Giulia Russo (Esperienze di autodiagnosi tra epistemologia e politiche della cura) incentrato sul complesso tema dell’autodiagnosi, e su quello collegato del riutilizzo in chiave identitaria e affermativa di un’etichetta medica; quanto in quello della ricercatrice Eleonora Marocchini (Le comunità autistiche: comunità di conoscenza rifiutata o alternativa? Equilibrismi epistemologici tra ingiustizia epistemica e postura simmetrica) che invece punta il suo sguardo proprio sulle criticità della ricerca, che spesso piega il soggetto autistico a una narrazione, e a una conseguente produzione di conoscenza, che è quella del mondo clinico in luogo della sua.

 

Di soggettività autistica in senso filosofico, impatto individuale e sociale del dispositivo diagnostico, looping effect categoriale così come descritto dallo studioso Ian Hacking, e concetto sociale di interpellazione, parla invece il saggio di Enrico Valtellina (Classificazione, interpellazione) posto in apertura di volume e teso a fare una ricognizione sui temi più stimolanti offerti dall’autismo alla lente delle attuali scienze sociali, molti dei quali verranno poi ripresi negli scritti successivi; la natura contingente, storicamente e socialmente determinata del significante “autismo” viene poi fuori in Sulle tracce delle esperienze femminili autistiche nel Sud antico, dai riti dionisiaci all’internamento manicomiale, stimolante pezzo firmato da Francesca D’Egidio che individua un contesto di non conformità che, retrospettivamente, può essere senz’altro associato alle peculiarità della condizione; nel più contemporaneo Autismo nei media e sui social. Due racconti diversi e diversamente problematici, in cui Angelica Mereu evidenzia lo scarto, l’inconciliabilità tra il racconto dell’autismo portati avanti dal mondo dell’attivismo e della self-advocacy, e quello tuttora dominante sui media mainstream; nel collegato Violenza epistemica nella rappresentazione autistica. Il caso del programma televisivo Salvados, che vede la studiosa Silvia Maestre Liminana prendere come caso di studio una popolare trasmissione televisiva, per parlare più nel dettaglio di narrazione mediatica dell’autismo, distorsione interpretativa della comunicazione autistica, e ingiustizia epistemica (in questo caso sfociata in vera e propria violenza) nei confronti di molti soggetti interpellati dalla condizione che entrano nel circuito mediale.

 

Di intersezionalità – tema in realtà già toccato in modo più o meno diretto dai citati Schiacciati dal mito di Gramsci e Devirilizzare l’autismo – tratta nello specifico Giulia Gennaro nel suo Autistica e female presenting nello spazio pubblico, che prova a ridisegnare il rapporto tra autismo e identità di genere andando oltre l’ormai vieto e fuorviante concetto di “autismo al femminile”; su comunicazione e ricerca di ponti linguistici, fuori e dentro il mondo dell’autismo, argomenta uno specialista del tema come Andrew Dell’Antonio nel suo Parliamone chiaro. Etica comunicativa e linguaggio sull’autismo; sulla potenzialità e sui rischi di chiusura del linguaggio stesso, e sulla sua possibile espressione “autistica” in tutta una serie di campi comunicativi si incentra poi il contributo scritto a quattro mani dall’accademica Majia Nadesan (autrice del rilevante volume del 2013 Constructing Autism) e dalla psicologa Viviana Lopez Torres, Autismo e singolarità del senso. Nuovi percorsi per la comunicazione. Lasciamo in fondo quello che è senza dubbio uno dei contributi più interessanti del volume, ovvero Il labirinto dei desideri: uno scritto, tra l’autobiografia, la saggistica e la messa a confronto di ambiti sociali in apparenza lontani, in cui l’autrice e traduttrice Marialuisa Amodio fa un percorso che racchiude un po’ tutti e tre gli elementi della triade del titolo, con un’urgenza particolare – giustificata – di evidenziare quella dimensione etica (legata al riconoscimento di prospettive esistenziali, di narrazioni e quindi di epistemologie differenti) spesso trascurata anche dallo stesso mondo dell’attivismo e della divulgazione.