Jean-Martin Charcot fra “miracolo terapeutico” e teatro dei nervi
di Marco Dotti
Nell’ottobre del 1885, Sigmund Freud arrivò a Parigi con una borsa di studio e perfezionamento. Sua destinazione: la moderna clinica della Salpêtrière, un tempo fabbrica di salnitro (salpêtre) che a ogni passaggio di secolo vedeva cambiare la propria “destinazione d’uso”, ma non la propria fama sinistra.
Se Luigi XIV aveva trasformato la fabbrica in un ospedale generale, con molto più cinismo la Rivoluzione se ne era servita come ci si serve di un carcere minore: non sottoposto a codici e norme, fossero pure dettate dallo stato d’eccezione, ma solo a «disposizioni di salute pubblica» e di natura amministrativa. Accadde così che tra le sue celle, vere e proprie stanze cieche significativamente chiamate «Les loges des Folles», si trovassero rinchiusi in promiscuità bambini e minorati di ogni risma, mendicanti, serve e amanti ripudiate, prostitute colpite da malattie veneree e, soprattutto, malate di mente appartenenti alle classi meno abbienti.
Fu in quel luogo, che il linguaggio e l’immaginario popolare – chissà quanto involontariamente calcati sulle fantasie di un altro detenuto del tempo, il marchese De Sade – definivano «castello stregato», che nel 1792, avvennero alcuni fra gli episodi più oscuri della prima fase rivoluzionaria, conseguenza abietta di quelli passati alle cronache come «I massacri di settembre». Torture, abusi, atti di gratuito cinismo e infine esecuzioni sommarie colpirono le donne rinchiuse nelle Loges, in conseguenza di quella sorta di rivolta à l’envers che, dal carcere dell’Abbaye passando per la Concièrge, per cinque giorni aveva visto i secondini “insorgere” contro i carcerati di diritto comune.
Riqualificato come hôpital, al volgere del Diciannovesimo secolo fu proprio alla Salpêtrière, fra le ombre poco nobili scampate ai “Massacres de septembre” che trovò spazio il «teatro dei nervi» di uno dei più avanzati sperimentalisti del tempo: Jean-Martin Charcot. Dal 1882, Charcot, formatosi come anatomopatologo e ben presto nominato chef de service per il crescente successo riscosso dalle sue lezioni, aveva ottenuto dal ministro Gambetta – fatto unico in Europa, dove la disciplina non godeva di uno statuto a sé – la costituzione di un cattedra autonoma di Clinica delle malattie nervose.
Già da alcuni anni, le lezioni di Charcot – nel quale una rigida formazione clinica e scientifica non aveva evidentemente contribuito a spegnere l’innato interesse per i fenomeni di magnetismo umano o animale, sull’uso terapeutico dei metalli e l’induzione di stati ipnotici – attiravano studiosi, ricercatori e curiosi da ogni parte del mondo. Un fermento simile non si registrava dai tempi in cui Mesmer, il medico guaritore che aveva sondato le, a suo dire, infinite potenzialità catartiche dell’estasi magnetica. Mesmer era stato costretto dalle autorità e dall’avversione degli ambienti accademici a fuggire dalla sua splendida villa viennese e si era “rifugiato” in Place Vendôme dove aveva preso a sedurre le folle con il suo «baquet», la vasca elettrizzata in cui si dava corpo a guarigioni miracolose. A generare lo scandalo che servì da pretesto per la cacciata di Mesmer furono, allora, non meno i sospetti sul suo uso smodato della glassarmonica – lo strumento a vetri sfregati, perfezionato da Benjamin Franklin e prediletto anche dal giovane Mozart, a cui si imputavano effetti perversi sul piano cerebrale – che le dicerie alimentate dal fallimento nella cura della pianista cieca Maria Paradis.
Nelle sue lezioni del martedì, rigorosamente verbalizzate e aperte al pubblico, anche se in un primo momento per “pubblico” si intendeva semplicemente un gruppo ristretto di persone debitamente selezionate, Charcot si rifaceva largamente, ma in maniera evidentemente non ingenua, all’esperienza di Mesmer. In uno scritto-testamento, pubblicato in lingua inglese e francese poco prima della morte e significativamente titolato La fede che guarisce (The Faith Healing, La foi qui guérit), Charcot ribadirà la propria filiazione da Mesmer riguardo al cosiddetto «miracolo terapeutico», ovvero su come sia possibile “guarire” da malattie di origine «dinamico-isterica», grazie una sorta di terapia “contestuale” determinata dalle sedimentazioni culturali dell’ambiente (un santuario, il luogo di un antico rituale, la sede di qualche credenza popolare persa nella notte dei tempi, e via discorrendo), dall’immaginario collettivo e da una serie di indici non secondari riscontrabili nei contesti geografici più disparati.
Non a caso, forse discorrendo sottotraccia anche di sé, Charcot parlerà di una vera e propria «messa in opera della faith-healing»,[1] accostando a quelle prodotte dalle cantilene delle preghiere scandite durante un rosario, le “guarigioni” generate dalla visita alla tomba di un patriarca, di un santo o di un marabutto.[2] In altri termini, si potrebbe congetturare che la faith-healing agisca grazie a questa «messa in opera», e non a una semplice «messa in scena», e a una potenza “iconica”, dove dentro e fuori, osservato e osservante, si trovano su un piano non tanto di correlazione, quando di compenetrazione.
Un piano (e un discorso) che, negli anni Trenta del secolo appena passato, dalle pagine della rivista batailliana “Documents”, lo storico delle religioni Charles-Henrich Puech definirà della “significazione”, prendendo spunto dalla necessità formulata da Artaud, Daumal e altri di superare la dimensione puramente statica e passiva della funzione osservatori/spettatori e trasportarla su un livello “dinamico”, più consono alle sfide dell’esistenza, con tutte le conseguenze, e i rischi, non solo in ambito estetico che questo “esperimento” comporta. Ma sperimentare, allora, significherà qualcosa che Charcot poteva soltanto – e ancora ingenuamente – intuire. Sperimentare vorrà dire, come osservava Ferruccio Masini, «rifiutare l’assoluto in ogni sua forma, come la fine e anche come il fine dell’esperimento». Per questa ragione, «la linea dell’esperimento si spezza di continuo e il tracciato del diagramma descrive un’ansa intorno ad ogni possibile momento assoluto. Si direbbe che chi esperimenta abbia una idiosincrasia per le linee ascendenti»,[3] e il corpo, che Charcot ancora considerava alla stregua della «macchina umana di La Mettrie»,[4] comincerà a rendersi secondo diagrammi via via sempre più disfunzionali. Eppure le basi si gettano allora, alla Sâlpètriere, o, quantomeno, è allora che si cristallizzano e si sedimentano in maniera irreversibile, a contatto con il corpo isterico di decine di donne e con lo scuotersi della loro “sostanza nera”.
A differenza di Mesmer, però, nel lavoro di Charcot non era tanto l’ambiente accuratamente preparato (Stefan Zweig descriverà lo spazio di lavoro di Mesmer come una sorta di «teatro delle meraviglie»), quanto, soprattutto, gli attori che in questo ambiente operavano ad attirare e stravolgere l’attenzione degli spettatori, anche dei più smaliziati ed esigenti. Freud parlerà di un «cambiamento» introdotto in lui dall’assistere alle séances orchestrate da Charcot… Egli, in effetti, si serviva solamente delle isteriche che, durante le sedute preparatorie e riservate, meglio rispondevano alle sue sollecitazioni. Fra queste, due nomi sarebbero entrati nella storia: Jane Avril, che dopo essere stata dimessa dalla Salpêtrière diverrà ballerina al Moulin Rouge (alimentando così i dubbi sull’autenticità delle sue performance cliniche) oltre che musa ispiratrice per le affiches de théâtre di Toulouse-Lautrec, e la misteriosa Blanche Wittman che in poco tempo, sostituendo la Avril, si sarebbe guadagnata la reputazione di possedere «una presenza scenica paragonabile a Sarah Bernhardt», ma della quale poco o nulla rimarrà dopo la morte. Capitò anche che a Blanche venisse richiesto di “esibirsi” per “herr August Strindberg” che trasse dall’esperienza materia per C’è delitto e delitto e, soprattutto, per Inferno. Per lui, al di là della considerazione esplicitamente, e superficialmente, antifemminista della donna vista come «mezzo-uomo» di tanti suoi scritti polemici (e di alcuni suoi drammi da “interno borghese”), il femminino rappresentava un territorio inesplorato e perturbante, il luogo altro in cui, come scrive acutamente Per Olov Enquist, «bisogna cercare il punto oscuro del grande romanzo umano che rende logico ciò che altrimenti è spaventoso e inspiegabile».[5]
La Grand Œuvre che, in quegli anni, ossessionerà l’autore svedese fino ad indurlo a rinunciare a quasi tutto per dedicarsi anima e corpo alla chimica,[6] avrà la figura per lui ancora incerta della donna. Dal 1892, dopo l’ennesimo auto-esilio seguito stavolta al divorzio da Siri von Essen, Strindberg si era infatti gettato a capo chino nella spasmodica ricerca dei segreti della trasmutazione del metallo vile in oro. Da Berlino, dove frequentò Edvard Munch (1863-1944), lo scrittore polacco Stanislaw Przybyszewski (1868- 1927), Adolf Paul (1863-1943) e il critico nicciano Ola Hansson (1860 – 1925),[7] si era trasferito a Parigi. Proprio nella città di Zola, nel frattempo, aveva visto realizzarsi il sogno – indice di una possibile svolta rispetto all’«année terrible 1892» e «alla tragicommedia della mia esistenza» – di vedere finalmente su una scena francese M.lle Julie. «Il mio dramma», osserverà non senza una punta di orgoglio, «è stato dibattuto a voce e sui giornali; molto entusiasmo e molto odio; ma alla fine, quelli che protestavano di non aver capito niente, sono stati smascherati come bugiardi».[8] Iscritto «come studente alla Sorbona, per utilizzare il laboratorio» e gli strumenti necessari ai suoi studi, impegnato nella ricerca di un «lavoro da aiuto giardiniere», per cinque anni gli interessi di Strindberg saranno quasi interamente dedicati a indagini chimiche e botaniche.
Quattordici anni più tardi, in una lettera che porta la data del 6 luglio 1906, indirizzata alla sua terza moglie, la giovane attrice Harrie Bosse, dopo aver parlato dei suoi disagi, ritornerà a quei giorni – gli stessi giorni in cui aveva incrociato lo sguardo con Blanche Wittman, alla Sâlpetrière – scriverà: «Che ho fatto? mi chiedo di solito. Non lo so! Devo Partire? Per dove? È uguale dappertutto. Ha scoperto di aver prodotto l’oro per dieci anni, ma l’ho sempre buttato via, perché si presentava nero come il carbone, marrone come il tabacco da fiuto. Ma non ho più la forza di litigare, perché nessuno si lascia convincere. Adesso ti lascio una ricetta da usare dopo la mia morte. Vetriolo di ferro Nitrato di rame Nitrato d’argento. Il tutto in soluzione molto debole. (A caldo, preferibilmente con una carta sul fondo della bacinella). Ci possono essere un numero infinito di varianti, sempre con un messo di soluzione e un precipitato…».[9] La soluzione era lì da sempre, forse solo intravista in quella vecchia fabbrica di salnitro. La consapevolezza, però, giungeva troppo tardi.
Un noto quadro di André Brouillet ritraeva Blanche priva di sensi fra le braccia di un internista, mentre un indifferente Charcot illustra al suo pubblico gli effetti della pressione sui «punti isterogeni» del corpo della paziente. Fu proprio in seguito a sedute come quelle immortalate da Brouillet, che gli interessi del giovane Freud si erano spostati «in modo irreversibile»[10] dalla neurologia all’isteria, all’ipnosi e a quanto, solo alcuni anni più tardi, prenderà il nome di psicoanalisi. «Voglio rinunciare al lavoro di anatomia del cervello», scriverà alla fidanzata Martha Bernay, «sono arrivati certi libri, mi sono comprato uno strumento, un dinamometro, per studiare i miei stessi stati nervosi» (Lettera del 27 gennaio 1886). A colpire Freud, oltre all’intelligenza e al metodo di Charcot, fu l’assoluta, precisa, calcolata, eppure così “naturale”, teatralità mostrata dallo stesso che, premendo sui punti esterogeni del corpo delle donne. Alla fine, col crescere dell’interesse per questo tipo di esperimenti, si arrivò le rappresentazioni vennero trasferite nell’Auditorium dell’ospedale. Fu chiaro allora che l’oggetto dell’osservazione scientifica, come ha acutamente osservato Per Olov Enquist, non sarebbe mai più stato «una donna in particolare, ma la Donna, la sua natura», le sue trasformazioni in un corpo sociale, comunque lo si voglia intendere, in movimento.
«Credo di trasformarmi profondamente», confessava Freud, e «Charcot, uno dei più grandi medici, un uomo dal geniale equilibrio, sconvolge semplicemente tutte le mie idee e i miei piani. Dopo certe lezioni esco da lui come da Nôtre Dame, con nuovi sentimenti di ciò che è perfetto. Ma mi mette molto alla prova; quando vado via, non ho più alcuna voglia di lavorare alle mie stupide cose; ora, per esempio, sono stato tre giorni senza far nulla e senza neppure rimproverarmene. Il mio cervello è saturo, come dopo una serata passata a teatro» (Lettera a Marthe del 24 novembre 1885). Alla Salpêtrière, Charcot aveva istituito un laboratorio fotografico, una biblioteca e un archivio: le pazienti venivano monitorate, interrogate, sollecitate giorno dopo giorno, tutto veniva documentato, e durante le lezioni del martedì, alcune fra le isteriche “preferite” mostravano l’effetto della pressione su alcuni punti precisi del loro corpo, interrogate si muovevano, si contraevano, sembravano dare forma alle più arrischiate ipotesi del loro pigmalione-terapeuta. Una visita allo studio privato del medico francese diede lo spunto a Freud per redigere un lungo, meticoloso elenco di quanto vi si trovava: una finestra con vista sul giardino, libri e riviste, manoscritti e cartelle cliniche, tavoli e quadri, vetri dipinti e specchi. Uno studio, confesserà alla fidanzata Martha Bernays, grande «come tutta la nostra futura abitazione, un pezzo degno del grande castello incantato dove abita» (Lettera del 20 gennaio 1886).
Fuori da lì, dal doppio regno di Charcot, la città si stava popolando di spettri. Parigi appariva dunque come «una gigantesca sfinge azzimata, che divora gli stranieri che non riescono a risolvere i suoi enigmi» (Freud, Lettera a Minna Bernays, 3 dicembre 1885). «Questo», proseguiva Freud, «è il popolo delle epidemie psichiche, delle convulsioni storiche di massa»: qualcosa era sfuggito al controllo del mite Charcot.
Note
[1] Jean-Martin Charcot, Lezioni alla Salpêtrière, a cura di Alfredo Civita, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 211.
[2] Un singolare accostamento della figura e della carica magnetica di Jean Genet a quella un marabutto è svolto da Juan Goytisolo ne Le settimane del giardino, traduzione di Glauco Felici, Einaudi, Torino 2004.
[3] Ferruccio Masini, Aforismi del buon neonato in La mano tronca, Dedalo, Bari 1975.
[4] Jean-Martin Charcot, Œuvres complètes, Lescrosnier & babé, Parigi 1886-1893, vol. III, p. 337, cit. da Alessandra Violi, “Il corpo delle meraviglie: l’isteria e i fantasmi dellla sensibilità”, in Locus solus. L’immaginario dell’isteria, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 15.
[5] Per Olov Enquist, Il libro di Blanche e Marie, traduzione di. Katia de Marco, Iperborea, Milano 2006.
[6] Cfr. almeno Sarane Alexandrian, Storia della filosofia occulta, a cura di Doretta Chioatto, Mondadori, Milano 1984, p. 296.
[7] Vedi Harold H. Borland, Nietzsche’s influence on swedish literature: with special reference to Strindberg, Ola Hansson, Heidenstam and Froding, Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Goteborg 1956.
[8] August Strindberg a Birger Mörner, lettera «strettamente riservata» del 26 gennaio 1893, in August Strindberg: vita attraverso le lettere, a cura di Franco Perrelli, Costa & Nolan, Genova 1999, pp. 221 ss.
[9] August Strindberg, Tuo Gusten. Lettere a Harriet Bosse, a cura di Torsten Eklund, edizione italiana curata da Graziella Tocchetti, Rosellina Archinto, Milano 1993, pp. 125-126. Sulla complessa strategia epistolare di Strindberg, cfr. almeno Kerstin Dahlbäck, “Strindberg épistolier”, Europe, n. 858 (2000).
[10] Luisa de Urtubey, Freud e il diavolo, traduzione di Linda Ferri, Astrolabio, Roma 1984, p. 15.
[cite]
tysm
philosophy and social criticism
vol. 25, issue no. 25
june 2015
ISSN: 2037-0857
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