L’osceno godimento del tiranno
Massimo Recalcati
Dalla parte degli uomini le notti di Arcore aprono un interrogativo serio che scuote innanzitutto la natura inconscia del fantasma maschile: perchè limitare il godimento a una sola? Perchè non possederle tutte? Silvio Berlusconi non realizza forse perversamente questo fantasma che i nevrotici possono solo coltivare nei loro sogni? Il godimento fallico è infatti un godimento che dà luogo ad accumulazioni seriali, anonime, ripetitive, dove ciò che conta è il consumo appropriativo dell’oggetto elevato a feticcio. Lacan stigmatizzava il godimento fallico come godimento dell’idiota. Godimento dell’Uno da solo, masturbatorio, godimento dell’Uno senza l’Altro. Nel godimento maschile chi gode è infatti solo l’organo.
I resoconti dei testimoni di quelle notti sembrano dare credito a questo inseguimento farsesco della potenza idiota del godimento fallico mostrandone anche la disperata solitudine che fatalmente lo circonda. Il godimento fallico, vero tarlo della psicologia maschile in quanto tale, se è godimento dell’organo è un godimento che non stabilisce legami, evitando accuratamente il rischio del desiderio e dell’amore. Il protagonista di quelle notti sembra infatti dedicarsi più a coltivare la potenza virile del proprio organo (drogato, stimolato, idolatrato) che a qualunque forma di scambio. Il denaro serve a dare credito all’illusione del suo fascino irresistibile. L’idolo fallico diventa così un parafulmine della sciagura inaggirabile del tempo e della morte. È ciò che la finezza tragica e farsesca di Fellini mette in forma magistralmente nella scena finale del suo Casanova: il rapporto umano ed erotico tra i corpi lascia il posto all’incontro con la macchina senza vita e senza cuore del puro godimento.
Il consenso apparentemente inespugnabile di cui gode Silvio Berlusconi va tarato anche sulle dinamiche pulsionali della nuova psicologia delle masse dove il capo non è più l’emblema dell’Ideale, della Causa o, più semplicemente, di una concezione del mondo – com’era ancora nella nostra storia più recente -, ma è l’incarnazione perversa di un modo di godimento che non conosce limiti, senso di colpa, vergogna.
La fascinazione che questo potere emana non deve essere sottovalutata perché si radica nel cuore più pulsionale dell’essere umano: perché mai limitare il godimento dell’Uno, perché rinunciare a godere di tutto (o di tutte)? Per quale ragione? Per quale civiltà? Per quale Dio? L’etica post-ideologica, orfana di tutti i suoi ideali, confrontata, come direbbe Sartre, con la drammaticità del cielo vuoto sopra le nostre teste, è davvero in grado di rispondere sensatamente a questa domanda che il berlusconismo pone così scabrosamente? Lascio volutamente aperta questa questione cruciale per toccare almeno un altro punto che mi sta a cuore.
Diversamente da quello che ritiene una cultura falsamente libertaria, l’esperienza della psicoanalisi insiste nel mostrare che il sesso senza amore tende alla serialità anonima, spinge a ricercare compulsivamente il «nuovo» senza considerare affatto che questa mitologia del «nuovo» e del sesso senza amore perpetua in realtà sempre la stessa insoddisfazione mortifera. Qui possiamo toccare un punto sensibile relativo alla differenza tra i sessi: il femminile esige che l’amore si annodi al godimento; il maschile teme invece questo annodamento e tende a separare l’amore dal godimento perché l’accesso all’amore appare ingombrato dalla presenza del fallo e dalla sua idolatria. Se il godimento dell’idiota non arretra, se l’ingombro fallico persiste a ottundere il corpo e la mente rendendo anche la fantasia erotica schiava delle sue condizioni feticistiche, se, insomma, il corpo erotico del desiderio non si lega alla dimensione dell’amore, il rischio è che ciascuno diventi sadianamente oggetto di puro consumo per l’altro.
L’amore è amore per il nome, diceva Lacan. L’amore è sempre amore per il dettaglio, per gli aspetti più particolari, singolari, irripetibili di una vita. L’amore non è mai amore dell’universale. Non esistono partiti dell’amore. Solo il tiranno dichiara retoricamente il proprio amore sconfinato per il suo popolo (facendo in realtà i suoi interessi più personali). Solo il tiranno gode degli altri che lo circondano come puri oggetti interscambiabili, anonimi, privi di un nome proprio, pezzi di corpo, macchine sessuali. Se l’amore è per l’uomo un modo per dare senso alla rinuncia al proprio godimento immediato, per svuotarsi del proprio ingombro fallico, per accedere all’incontro con l’altro, la corte del tiranno bandisce l’amore oltraggiando anche, e non a caso, il valore simbolico della paternità. «Papi» è il significante che rivela più apertamente il carattere osceno e incestuoso dell’«utilizzatore finale». Come raccontava una mia paziente a proposito della frase che un padre tirannico le rivolgeva in ogni occasione di insubordinazione: «io ti ho fatta e io ti distruggo!».
[da Il manifesto, 10 febbraio 2011]
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