philosophy and social criticism

Umberto Eco e gli “uomini della P38”

Francesco Paolella

Nota su: Sergio Bianchi (a cura di), Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, DeriveApprodi, Roma, 2011.

Essere felici è dif/fucile.

La fotografia di Paolo Pedrizzetti è una bella fotografia. Il contesto: siamo a Milano, in via De Amicis, è il 14 maggio 1977, e ci sono scontri fra autonomi e polizia. Un giovane dal volto coperto, un “giovane P.38”, si piega sulle ginocchia per sparare.


È una fotografia riuscita, ma è anche qualcosa di più, di diverso. È, come tante altre, una fotografia diventata ben presto, anche a causa di modifiche e forzature, una icona, un simbolo all’apparenza capace di rappresentare gli “anni di piombo”, e condannandoli. Sono stati anni di lotte, di errori terribili e miopi, ma anche in un certo senso profetici, anni di “repressione democratica”, sui quali oggi è molto faticoso riuscire a fare discorsi che non siano confinati nel dominio giudiziario o nella memorialistica delle vittime (e dei loro eredi).

Questa fotografia ha assunto proprio nella primavera del’77, dopo tutto quanto accaduto a Milano, a Roma e a Bologna, un significato che andava ben oltre quello che in realtà mostrava: il simbolo di una “rivoluzione” fallimentare e disperata, fatta da piccoli gruppi isolati e marginali, fuori della storia potremmo dire. Una immagine che, diffusa dalla stampa – a partire dalla prima pubblicazione sul “Corriere d’informazione” –, è diventata un oggetto di consumo, un’arma politica, usurandosi.

Una fotografia di reportage che è diventata l’icona di una fallimento, di una storia indifendibile. Gli “uomini della P.38”, sintetizzati in quello sparo, non erano mossi da alcuna tensione rivoluzionaria (o pre-rivoluzionaria), ma erano soltanto criminali destinati alla morte.

Questo libro pubblicato da DeriveApprodi cerca invece, senza cadere nella retorica della nostalgia o della giustificazione, di mettere davanti al nostro sguardo il contesto di quella immagine, di renderla comprensibile, di riportare alla luce tutto quello che veniva prima, assieme alla memoria dei vinti per così dire, le loro testimonianze, i tentativi di autocritica, ma anche la rivendicazione della propria identità.

In sintesi, come scriveva qualche anno fa Franco Berardi: «Il senso, la ragion d’essere, la vitalità di un movimento devono essere valutati pensando alla consapevolezza che esso ha reso possibile, alla fecondità di lungo periodo dei valori che esso ha portato ad emergenza. In questo senso io credo che il ’77 debba ancora essere interrogato. Né l’occhio del magistrato, tutto intento a stabilire le colpe e le responsabilità, né l’occhio dello storico-politico, tutto intento a valutare chi ha vinto e chi ha perso, e quali problemi e quali soluzioni di governo ha reso possibile, possono vedere le cose che nel ’77 vale la pena di vedere. La speranza e la disperazione. Queste sono le cose che vorrei riuscire a vedere» (Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre corte, 1997, p. 33). Il ’77 può dirci molte cose: sulle trasformazioni del lavoro, sul destino del “politico”.

E però c’è quella fotografia, finita accanto a quella del Che morto o a quella del miliziano di Robert Capa, ad aver provocato una “crisi di rigetto”, ad aver fatto dire a tutti o quasi: “la rivoluzione sta da un’altra parte”. Questa è la conclusione a cui è giunto Umberto Eco, il famoso storico delle idee, in un articolo apparso sull’“Espresso” nel maggio del ’77: quel ragazzo che prende la mira è sì diventato subito un’icona, ma l’icona di un anti-eroe, di un individuo isolato: rappresenta per Eco la fine dell’idea di rivoluzione così come è stata pensata e vissuta nel Novecento. Eco si chiedeva: ma dove è finito il collettivo? Qui c’è rimasto solo un anonimo pistolero.

Altri saggi raccolti in questo volume da Sergio Bianchi cercano all’opposto di smontare questa condanna; e per fare questo, oltre a smentire la lettura non proprio corretta che anche Eco ha fatto di quella foto – ritagliando l’immagine dello sparatore, isolandolo –, si cerca di recuperare la dimensione plurale di quei giorni di lotta: «Lo scatto del “Corriere” viene rimaneggiato nel taglio, così da ottenere una “valida”messa a fuoco: si esclude l’ambiente, e il militante, estratto dalla “massa”, si muta in monumento al terrorista. Si piega l’immagine a una diversa semantizzazione. Trovare questa variante “traditrice” è facilissimo. Appare sotto la voce di Wikipedia “anni di piombo”, con tanto di norme e cavilli sulla licenza d’uso (mistificazione della mistificazione!), e sta a significare “un’estemizzazione della dialettica politica che si tradusse in violenze di piazza e terrorismo”» (Paolo Fabbri, Tiziana Migliore, 14 maggio 1977. La sovversione nel mirino, p. 140).

Insomma, quasi a smentire la fotografia che riproduce, alla fine del libro, la lapide a ricordo della morte del vicebrigadiere Custra, colpito a morte in via De Amicis il 14 maggio, non possiamo accontentarci di verità giudiziarie, né delle commemorazioni alle vittime del terrorismo. In questi ultimi anni soprattutto c’è stata la scoperta delle vittime, del terrorismo ma non solo. La storiografia e la politica hanno imparato a ricordarle (e a usarle), saturando tutti gli spazi di memoria e di dibattito. Servirebbe invece una specie di archeologia del trauma.

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ISSN:2037-0857