L’inferno dell’edonismo. Su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”
René Schérer*
Anche se è impossibile vedere in Salò un’illustrazione delle Centoventi giornate di Sade, nel film non ci sono schematizzazione e tradimento, come spesso si è sostenuto. Pasolini si serve del riferimento, dell’ “attrezzo” Sade, nella sua ambiguità per esporre e smontare le conseguenze di una logica paradossale dei Lumi, della loro etica utilitaristica e edonista. La sessualità, trattata come puro consumo, diviene dispositivo e strumento di potere e distruzione. Attraverso Salò non è il fascismo storico prima maniera che viene preso di mira, ma il secondo, quello ancora invisibile della società dei consumi; e con questo il tracollo del corpo e dell’eros nel linguaggio della comunicazione e della trasparenza integrale degli affetti.
Che cosa è stato dunque Sade per Pasolini? Quale fu la sua lettura? Come mostrano i titoli di testa del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, questa è stata fortemente guidata da tutti gli studi sadiani, dalla “sadologia” contemporanea costituita dalle prefazioni e dai commenti di Klossowski, Bataille, Blanchot, Barthes; o ancora di Sollers, di cui egli cita a proposito di Sade L’écriture et l’experérience des limites. La scrittura: altrettanto e più che sul contenuto narrativo della sessualità e dei suoi “crimini”, l’interpretazione pasoliniana, o meglio l’utilizzo pasoliniano di Sade, poggia su considerazioni relative allo strumento stesso della narrazione, della forma del racconto, della lingua.
Pasolini ha approcciato Sade da semiologo, a partire dalle proprietà del suo linguaggio. E se senza dubbio non può essere annoverato tra gli ammiratori incondizionati dell’autore delle “Centoventi giornate”, se certamente non è “sadiano”, è perché a questo linguaggio manca ciò che potrebbe condurre ai livelli più elevati dell’opera letteraria: l’espressività. Il linguaggio di Sade è denotativo, “constativo”; censisce i corpi e i comportamenti come in un racconto pornografico che si cura solo degli oggetti del godimento immediato, del consumo edonista, che conosce un solo soggetto – quello dominatore della rappresentazione possessiva – e non sa dar vita e sentimento a nessuna altra creatura.
Più avanti ci si soffermerà in dettaglio sulla funzione dell’espressione, dell’espressività in Pasolini, e in particolar modo nel cinema. Qui basterà definirla e trattarla secondo l’accezione datane dalla linguistica, da Bühler a Jakobson [2]: la funzione di espressione che manifesta l’attitudine del locutore, i suoi sentimenti, le sue disposizioni soggettive. È la mancanza di espressività il difetto di Sade. In un testo contemporaneo a Salò, nel marzo del 1974, a proposito della recensione di un libro di Guido Almansi (L’estetica dell’osceno) Pasolini scrive che “la ragione per la quale Sade non può essere considerato uno dei più grandi scrittori del mondo (pur essendolo potenzialmente) è chiara: non solo non utilizza l’espressività, ma sembra ignorarla completamente. La sua pagina non è mai (nel senso specifico che i linguisti attribuiscono al termine) «espressiva», e nemmeno vivente” [3].
Il linguaggio di Sade è puramente informativo, comunicativo, o –cosa che nel vocabolario e nel pensiero di Pasolini è equivalente – “giornalistico”. I suoi romanzi diventano “enormi litanie” con poche varianti (che ne aumentano il carattere di “ossessionalità”).
Un passaggio dello stesso articolo chiarisce mirabilmente in che modo Pasolini ha fatto ricorso e ha utilizzato Sade; passaggio per noi tanto più prezioso in quanto contiene il riferimento ad un’altra opera sulla quale il cineasta si è basato, e che aveva ispirato un precedente film, il Decamerone di Boccaccio: “in un romanzo (Le centoventi giornate) Sade ha tentato un esperimento straordinario. Ha preso lo schema del Decamerone, lo ha reso infinitamente più rozzo, disadorno, meccanico, numerico; e, in questo schema, ha inserito seicento novelle – poco più che informazioni del resto – raccontate da quattro narratrici, con funzioni diverse esattamente calcolate”.
Indicazione preziosa, ancora, perché si completa di un altro riferimento, quello a Dante del quale allo stesso modo viene sottolineata la costante presenza: “non è detto che Sade non abbia tenuto conto anche della Divina Commedia, della sua forma piramidale, costruita con brevi blocchi narrativi”.Accostamento immediatamente sfumato, svalorizzato da un modo di narrazione e di scrittura, da una superficialità “di carta”, comparata alla materia robusta e profonda di Dante (di puro tufo, peperino o marmo in Dante, di cartapesta in De Sade).
In Sade non vi è che superficie, leggerezza e leggibilità della pagina. L’espressività – infatti ce n’è una che lo differenzia dalla semplice oscenità di un racconto privo di pretesa letteraria – viene dall’accumulazione, dalla ripetizione delle situazioni: “una infinita accumulazione iterativa”.
La pagina isolata è semplicemente informativa, ma il loro insieme raggiunge una grandiosa “dilatazione” – ed è ancora dir poco (“si caricano a vicenda fino a una dilatazione che chiamar grandiosa è poco”, scrive Pasolini).
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C’è un sublime sadiano che prevale su ogni semplice oscenità del dettaglio. A partire da queste indicazioni di Pasolini si scorge come sarebbe possibile spingere Sade dalla parte di un sublime-parodia, che “deturna” quello che analizza Kant nella sua concezione estetica di un’idea incommensurabile della ragione che l’immaginazione evoca senza potervi attingere [4]. Tanto più che, se è vero che Pasolini non arriva all’evocazione del sublime, vede e dice comunque che l’effetto espressivo di Sade è ottenuto attraverso questo movimento eccessivo di una Ragione spinta fino al suo limite estremo, e al di là (“Francesi, ancora uno sforzo”). Spingere la logica tanto della descrizione pura del corpo con le sue posture sessuali (pornografia), quanto del godimento possessivo dei corpi, fino all’eccesso, fino alla mostruosità dell’eccesso, una volta che il corpo e i suoi atti sono stati integralmente desacralizzati tramite l’esame della ragione e dell’esercizio dei “lumi”: in Sade il mostruoso è prodotto dalla logica stessa dell’Illuminismo. Lo stato selvaggio, le aberrazioni del suo universo non sono in opposizione alla ragione, ma sono la conseguenza del suo esercizio sistematico. Da questo punto di vista non è il sonno, ma il risveglio della ragione che genera mostri, a condizione che questa non esiti a seguire imperturbabilmente la sua direzione fino all’infinito.
Meraviglioso e ambiguo potere di una facoltà che, nella sua ossessione rivolta contro tutto ciò che è sacro, giunge a desacralizzarsi rovesciandosi contro se stessa: “De Sade – questo meraviglioso provocatore che, attraverso la razionalità illuministica, ha dissacrato non solo ciò che l’illuminismo dissacrava, ma l’illuminismo stesso, attraverso l’uso aberrante e mostruoso della sua razionalità” [5].
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Primo punto, dunque, che lo spettatore di Salò deve ricordare se vuole comprendere l’uso di Sade in questo film, se vuole concepire ciò che è stato Sade per Pasolini, il De Sade ambiguo di Pasolini. Egli è l’uomo della ragione iperbolica che ha partorito mostri. Non più del resto – aggiungiamo tra parentesi – di quanto faccia un altro autore razionalista e ambiguo anch’esso, lo strano Spinoza che appare nella pièceteatrale Porcile e che abiura, davanti al figlio dell’industriale fascista Giuliano, una ragione borghese da cui sono sorte le deviazioni e i crimini della società e degli Stati moderni [6].
Un simile raffronto con l’incongrua comparsa di Spinoza in Porcile permetterà di contestualizzare meglio l’incontro di Sade con la repubblica fascista di Salò, nel film che, in modo esplicito, Pasolini ha definito come una “metafora” – non l’illustrazione di un Sade “condito” da qualche regista che prova malessere per la modernità, né la rappresentazione pittorica di presunti “costumi segreti” dei nazisti storici.
Innanzitutto restituiamo la sua interpretazione, così come lui l’ha esposta di fronte a un pubblico universitario di Lecce nell’ottobre del 1975: “ho fatto un film che si intitola Salò, tratto da Sade, in cui si vedono cose spaventose che, in realtà, prese una ad una, viste fuori dal loro contesto, sarebbero pornografiche; ma, nel loro contesto, penso che non lo siano, perché il contesto è quello della commercializzazione che il potere fa dei corpi, e allora tutti questi rapporti sessuali sono una metafora della mercificazione che il potere fa dei corpi, cioè della riduzione dei corpi a cosa, e allora tutti questi rapporti sessuali sono una metafora di questa mercificazione” [7]. Spiegazione completata da un riferimento a Hitler che ha praticato fisicamente, realmente, un genocidio: la stessa cosa – ed è ciò che il film vuole rendere sensibile – che il nuovo potere capitalista sta praticando oggi. Genocidio generalmente non palese, che la metafora dell’immagine filmica ha per funzione di manifestare attraverso la congiunzione di una rappresentazione della violenza sessuale associata al nome di Sade e delle immagini di un fascismo storico che per il comune spettatore incarna il massimo di ogni orrore possibile.
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D’altronde la metafora non è semplice. Non designa qualcosa di chiaro, di evidente; ma qualcosa di sottile che può solamente essere suggerito, e attraverso deviazioni e biforcazioni. La scelta di Sade lo mostra, precisamente perché Sade è spesso – se non sempre – ambiguo ed ha un’espressività segreta nella sua scrittura apparentemente informativa, uno spessore insondabile della sua leggibilità. La sola chiarezza sarebbe quella degli organizzatori dell’orgia, dignitari del regime, magistrato, capitalista ed ecclesiastico, anche se queste figure perdono la loro leggibilità se si deve intendere che questo fascismo volgare (il primo fascismo nella terminologia pasoliniana) non è che una metafora del secondo, l’obiettivo polemico a cui realmente mira il film, cioè quello della nuova società dei consumi: il consumismo.
Se metafora c’è, questa non è semplice ma composta da molteplici strati e prospettive compenetrate. Sarebbe forse meglio dire che vi è una tangenza di due universi,di due blocchi: quello del fascismo vecchia maniera e quello di Sade. È un “concatenamento” (agencement ndt.), come direbbero Deleuze e Guattari. O ancora, sarebbe meglio dire che il fascismo della repubblica di Salò e le centoventi giornate forma i dati di un “teorema” a partire dai quali si tratta di dedurre ciò che succederà. Pasolini stesso si presta a questa interpretazione teorematica, a questo metodo al quale , aldilà dello stessoTeorema, allude in certi passaggi.
Il teorema: dato che Sade può essere assunto a paradigma dell’edonismo gaudente e che il fascismo porta in sé, virtualmente o attualmente, la distruzione sistematica dei corpi, il genocidio – questo potere distruttore – applicato all’edonismo della nuova concezione mercificante della sessualità trasformerà questo (l’edonismo appunto) in fascismo. In altri termini, Salò è la manifestazione visibile di una formula analoga a: “non è il fascismo che è edonista, ma è l’edonismo che è fascista”. Intendendo con edonismo il nuovo “dispositivo di sessualità” della società consumista, per dirla con Foucault.
Un simile riferimento a Foucault non è arbitrario. Anche se la sua concezione del tempostorico non è quella di Pasolini, egli dà una versione analoga della funzione del “sesso” nella società contemporanea, dell’invenzione del sesso come operatore di verità. I suoi propositi contro “questo malinconico deserto della sessualità”, contro “la monarchia del sesso” richiamano immagini molto simili a quelle tramite cui Pasolini denuncia il nuovo modo consumista di concepire e vivere la sessualità. Entrambi si ritrovano intorno alla constatazione o alla deplorazione di forme precedenti di vita e di sensualità. L’edonismo della società di mercato non è più quello dell’ “uso dei piaceri” (Foucault) o della naturalezza e dell’innocenza dei corpi (Pasolini); e, a maggior ragione, non ha niente a che vedere con l’idea spinozista della gioia. Una visibilità e una leggibilità reale o intenzionale del “sessuale” hanno fatto scomparire tutto un linguaggio indiretto con le sue allusioni, i suoi silenzi, i suoi segreti.
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Ma non è solo per analogia, per accostamento dei commenti che Foucault può e deve essere evocato a proposito del cineasta. Egli ha saputo far sua una delle sfumature più sottili della critica pasoliniana nei confronti della società dei consumi: la diffidenza rispetto ad una tolleranza che si presenta come progressista e liberatrice, mentre è umiliante e foriera di segregazione ed oppressione. Tolleranza, trappola e veleno delle società contemporanee, tanto più pericoloso quanto più seducenti sono le sue apparenze. Come tanti altri valori speciosi, sotto la sua forma attuale di parola d’ordine dal valore consensuale, la tolleranza vale solamente se opposta al suo contrario: l’intolleranza. Ma non ha in sé nulla di positivo, di affermativo. Non rimanda a un’accettazione integrale, bensì a un tirarsi indietro; ed è talvolta più dannosa di una sincera contrarietà.
“Le matin gris de la tolerance”, è il titolo dato da Foucault alla recensione di una delle opere meno viste (almeno in Francia) di Pasolini: “Comizi d’amore”, curiosamente tradotto con “Inchiesta sulla sessualità”, controsenso (intenzionale o no?) rispetto allo spirito e alle sfumature che questo film valorizza. Infatti non si tratta direttamente, né solamente, di sessualità, ma di amore con tutta l’ampiezza di accezione e l’imprecisione di questo termine; e non è un’ “inchiesta” da intervistatore televisivo, ma piuttosto un “convegno”, un “incontro”, con un carattere festivo che, a ragione, Foucault suggerisce. “Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull’amore”, scrive Foucault stigmatizzando, come del resto ha fatto Pasolini, la trasformazione profonda dei modi di essere e di porsi in rapporto al “sesso”; una trasformazione contemporanea di “questa confidenza pubblica con il sesso che oggi i nostri media diffondono” [8]. Le parole di Foucault devono essere considerate come un eccellente commento a quello che, alla vigilia del suo assassinio, Pasolini osservava e lanciava in monito agli studenti e agli insegnanti di Lecce: “ciò che attraversa il film non è – io credo – l´ossessione per il sesso, ma una specie di timore storico, un´esitazione premonitrice e confusa di fronte a un regime che allora stava nascendo in Italia: quello della tolleranza. Un “regime” (termine prossimo a “dispositivo”, e che lo completa) che riguarda e inquieta tanto i vecchi quanto i giovani. I primi perché rovescia tutti i loro “adattamenti, dolorosi e sottili, che avevano assicurato l´ecosistema del sesso” – altra espressione perfettamente adatta alle preoccupazioni pasoliniane, anche in altri campi (architettura, urbanismo) di natura ecologica (o “ecosofica”,secondo Guattari); i secondi, i giovani, perché diffidano e dubitano del fatto che questa permissività di superficie sopprima “le diseguaglianze dell’età, della fortuna e dello status”, e perché si interrogano sulla realtà dei diritti che accompagnano “questo processo di espansione-consumo-tolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo negli Scritti corsari” (il film è datato 1963) [9].
Progettato ai giorni nostri, Comizi d’amore rischia davvero di non essere compreso e di trovarsi confinato nei tempi che furono all’insegna del motto: “tutto è cambiato”, relativamente all’aborto, all’omosessualità, etc., che “sono entrati nei nostri costumi”. Davvero! Non è sicuro che questo “passo in avanti” non equivalga a “due passi indietro”; non solo per ciò che riguarda tutto questo contorno, questaaura imprecisata che avvolge e adorna ogni esercizio umano con la funzione sessuale, ma dal semplice punto di vista di una libertà, di un benessere del comportamento nelle relazioni sociali che, senza enfasi, potremmo chiamare “felicità” o “gioia” di vivere. Un sorriso, un gesto, la gioia nello sguardo dei ragazzi diRagazzi di vita, Amado mio, Atti impuri, Douce o de Gli Angeli distratti, quella evocata anche dalla stessa conferenza di cui parlavo, o anche da certi passaggi di Petrolio. Una felicità, una gioia della gioventù che hanno lasciato il posto ai “giovani” odierni, esangui e nevrotici [10]. Sembra proprio che siamo approdati ad un’altra epoca, che abbiamo superato la linea di demarcazione tra due periodi della storia.
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E, di nuovo, bisogna tornare a porsi il quesito Perché “Salò”? sotto una luce un po’ diversa. Precisamente quella di una rottura e di un fine comune, che “Sade”, “Salò” e la loro strana convergenza contemporaneamente “metaforizzano” (ma sarebbe meglio scrivere “allegorizzano”).
Sì, è questo, l’allegoresi di Salò, la congiunzione allegorizzante di due linee che si confondono, che alla fine si fondono , per dare forma ad una linea unica che segna la conclusione di un mondo finito: opponendo una barriera insuperabile alla fiducia in ogni Progresso della Storia. Fine della Storia, ma anche fine dell’”innocenza del divenire”? L’ambiguità – si direbbe l’”indecidibilità” – del film solleva entrambe le questioni nel punto in cui le linee si congiungono: quella della Democrazia che termina nel fascismo, quella dell’edonismo tradotto in turpitudine e devastazione dei corpi. E la storia della ragione sprofonda nel maelström vorticoso di un Inferno. Perché “Salò”? Appunto, per destare alla coscienza di questo paradossale destino storico attraverso l’immagine, attraverso quella “lingua scritta della realtà” che è il cinema.
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Tuttavia non si guadagnerà nulla nel voler esplicitare troppo a fondo tutte le implicazioni di questa via espressiva, nel dispiegare delle implicazioni che, appunto, hanno valore solamente se restano raccolte nelle loro “pieghe”.
È quanto suggerirà, per concludere, la lettura di un altro testo che fa ancora allusione a Sade e alla repubblica fascista, una “Presentazione per il festival Andy Wahrol” a Ferrara nel 1975 [11]. Pasolini vi approccia frontalmente e fin dall’inizio il problema di questa incomprensione delle intenzioni e del senso della sua ultima opera. A che cosa mira? Che cosa significa questo “Salò”? Quell’acuto interlocutore di Man Ray – dice Pasolini – si è sbagliato e ha preso “Salò” per un “Salaud” francese [12]; confusione che, del resto, non gli era affatto dispiaciuta personalmente (“con mia completa soddisfazione”, scrive). Ma, senza dubbio, Andy Warhol – di certo non sadiano al contrario di Man Ray, entusiasta di Sade come lo furono i surrealisti – avrebbe manifestato la stessa ignoranza del luogo, dell’esistenza stessa della piccola repubblica fascista in questa annata 1945 che fu, tuttavia, agli occhi dell’Italia e dell’Europa la fine significativa di un’epoca.
In questo articolo pressoché testamentario, la posizione di Pasolini è che solo chi ha vissuto e pensa la storia a partire da una temporalità tragica è capace di comprendere il significato di un simile evento, di una simile congiunzione. Solo chi concepisce quello che è la “rottura” storica, la linea di cesura. Infatti l’importante è sapere ciò che qualcosa – quale data, quale nome – dice a qualcuno. Quali questioni formano un “groviglio”. E Salò, Sade, l’illuminismo, il 1945 sono tra queste: sono i punti notevoli che esse occupano nello spazio o nella storia, questi punti così singolari da non tollerare nessuna interpretazione chiara e semplicistica; sono grovigli di significati e di affetti. Diversamente –in maniera similare a quanto accade in Warhol, e come Pasolini scopre o ipotizza a partire dalle opere dell’artista – avremo la concezione di un mondo installato per l’eternità, il mondo americano; e avremo la visione “bizantina” di un’arte che si compone di variazioni serigrafiche sulla stessa immagine. Un mondo che “esclude ogni possibilità dialettica”, dice Pasolini.
Aggiungendo, tuttavia, che la visione “sclerotizzata” dell’artista veicola, nel suo funebre e crudele gioco imbalsamatorio, ciò che manca alla visione storica e che, per questo, rimane inestimabile: “una sostanziale e incredibile innocenza”.
L’innocenza degli assassini, l’innocenza di “Margherita”, l’ultima parola di questo film terribile.
[Traduzione di Alessandro Simoncini]
*Il testo è stato pubblicato grazie alla cortese autorizzazione dell’autore e della rivista francese Multitudesalla quale restano tutti i diritti. Una versione del testo è apparsa in R. Schérer, Giorgio Passerone, Passages pasoliniens, Villeneuve d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, 2006.
Note
1 Questo testo è estratto da Passages pasoliniens scritto con Giorgio Passerone ed è già apparso sul numero 18, 2004 della rivista Multitudes, al cui direttivo vanno i nostri ringraziamenti per aver concesso l’autorizzazione a tradurre.
2K. Bühler, Sprachteorie, Iena, 1934; R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris, 1963.
3P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, p. 2002.
4I. Kant, Critica del giudizio, L. II, §§ 23 e ss.
5 P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi, II, p. 2005.
6 Non avverrà lo stesso nel film che porta lo stesso nome, solamente nel suo progetto.
7P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi, II, p. 2858.
8 M. Foucault, Le matin gris de la tolerance, in “Le monde”, 23 mars 1977, ora in Id., “Dits et écrits”, III, Paris, Gallimard, 1994, pp. 269-271.
9 Ibidem.
10 P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi, II, p. 2858 e sg.
11 P. P. Pasolini, “Ladies and gentlemen”. Presentazione per la mostra Andy Wahrol a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, ottobre 1975, in Id, Saggi sulla letteratura, cit., p. 2710
12 Un termine che può essere tradotto con “carogna”, “stronzo”, “pezzo di merda”, “sporcaccione” (ndt.)