Al poeta Antonin Artaud
Hugo Claus
Da noi, gli stranieri, i dispersi,
i mai sbarcati, i disadattati,
è morto un pallido capitano.
Non gli vedo più le vene
pulsare sulle tempie.
Il suo viso, ciottolo inciso,
è finalmente immobile.
Che siamo corrosi per la vita
loro lo sanno, le nature uguali,
le anime imperturbabili
in ciascuna delle loro monotone ore.
Gli spezzarono la fragile spina dorsale.
Lo rinchiusero con una sedia, del pane e della paglia.
Lo chiamarono malato e pazzo.
Ne ebbero pietà.
Lo incontrerò ancora
sotto i ponti, nella stazione vuota.
Mi metterà un braccio sulla spalla.
Verso il mattino comincerà a trapanarmi,
a sfregare le mie fibre
di modo che io griderò. Artaud, Artaud.
Non gli vedo più le vene
pulsare sulle tempie.
Spezza il cerchio dell’impotenza.
Frantuma la conchiglia della sterilità.
Mio levriero in rovina,
mio morticino sanguinante,
uomo carbonizzato,
Antonin Artaud.
[Versione di Franco Paris, tratta da Hugo Claus, Le tracce, Crocetti, Milano 2007]