philosophy and social criticism

Come definire il cinema latinoamericano?

di Néstor García Canclini

traduzione di Elisa Fiorucci

Quando, durante l’ultima cerimonia degli Oscar, nel maggio 2010, El secreto de tus ojos ottenne il premio come miglior film straniero, nelle strade di Buenos Aires e nei mezzi di comunicazione si sperimentò un’euforia paragonabile a quella che esplode in seguito al trionfo di una squadra di calcio argentina in un torneo internazionale. Eppure ci fu anche chi si chiese se potesse considerarsi argentino un film il cui finanziamento maggioritario proveniva dalla Spagna. Infatti, alcuni mesi prima, durante l’assegnazione del Premio Goya, il principale riconoscimento cinematografico spagnolo, quello stesso film di Juan José Campanella risultava in competizione sia nella sezione spagnola che in quella latinoamericana.

Di cosa abbiamo bisogno per definire la nazionalità di un film? Un dibattito simile ebbe luogo nel 2007 quando la selezione per gli Oscar incluse 5 nominations per El laberinto del fauno, un film di Guillermo del Toro, con attori spagnoli e con la guerra civile spagnola sullo sfondo, e 7 nominations per Babel di Alejandro González Iñárritu, girato con finanziamenti statunitensi in vari continenti, in cui il Messico compare solo per pochi minuti. Si discusse a lungo se fosse o meno il caso di celebrare il trionfo messicano di due registi di tale nazionalità che vivono da più di 10 anni all’estero e riescono a distinguersi con opere la cui produzione, i cui attori e le cui storie non sono affatto rappresentativi del loro paese. Molti critici affermarono che, anziché di successi messicani, si trattava piuttosto del successo personale di registi migranti il cui avanzamento professionale ad Hollywood o in Spagna evidenzia il fallimento della cinematografia messicana come industria.

Sono anni che discutiamo su quale sia il fattore decisivo per considerare un film di un certa nazionalità: la sua localizzazione, l’argomento, la nazionalità del regista e degli attori, l’origine delle risorse economiche o lo stile narrativo, che alcuni ritengono espressivo di ciascuna cultura. Questo dibattito continua a ripresentarsi senza possibilità di soluzione perché dipende da una modo di riflettere sulle identità nazionali e sulla definizione de “lo iberoamericano” proprio di una tappa della teoria della cultura che si è dimostrata improduttiva.

A partire dalla dimostrazione di Benedict Anderson che le nazioni sono “comunità immaginate”, i discorsi intorno al nazionale e al latinoamericano furono considerati alla stregua di messe in scena. Le identità continuano a rivendicarsi come modi di rappresentare la storia dei gruppi, delle etnie e delle nazioni. Sono quindi solite rilevare in quanto condensazioni simboliche per la lotta politica. Tuttavia una vasta letteratura storica e antropologica (Appadurai, Ortner) ha dimostrato che ciò che chiamiamo identità non sono essenze o sostanze che definiscono a priori le caratteristiche dei gruppi sociali, bensì costruzioni storiche variabili, che nemmeno tutti i membri di ciascun gruppo interpretano allo stesso modo. Se ha poco senso parlare di un’identità argentina, cilena, messicana, ancora più difficile risulta lavorare con la nozione di identità latinoamericana.

Le celebrazioni del 2010 del bicentenario dell’indipendenza nazionale in Argentina, Cile, Colombia, Messico e Venezuela, sono un occasione per ripensare al nostro perseverare nell’idea di una storia comune e di differenze identitarie. I governi, i musei e i mezzi di comunicazione celebrano l’anniversario, ma nell’ultima inchiesta continentale di Latinobarómetro emerge che il 37% dei latinoamericani non sa da chi si rese indipendente il suo paese. Ricerche anteriori avevano già mostrato che le nuove generazioni conoscono poco dei loro predecessori e si identificano piuttosto con un repertorio disperso di attori, attrici, cantanti, brand globalizzati e altre icone di ciò che Renato Ortiz definisce “la cultura internacional-popular”.

Nonostante ciò, l’inerzia ideologica mantiene ancora i riflessi del vecchio nazionalismo mentre le politiche culturali rimangono incapsulate nei mercati interni o tentano di ampliare, ogni paese in maniera autonoma, la propria proiezione internazionale. Per riformulare il dibattito intorno a “lo latinoamericano” mi sembra produttivo ricorrere al modo in cui si è riformulata la domanda “che cos’è l’arte” nelle teorie sociologiche. Siamo passati dal chiederci “che cos’è l’arte” ad indagare “quando c’è arte”

I filosofi e i sociologi (Edelman, Goodman, Heinich) che riformulano in questo modo la questione si rifanno all’insieme di relazioni sociali fra artisti, istituzioni, curatori d’arte, critici, pubblico e persino imprese e dispositivi pubblicitari responsabili del riconoscimento di certi oggetti come artistici. Allo stesso modo mi piacerebbe postulare che la domanda non dovrebbe essere “che cos’è il cinema latinoamericano” bensì “quando c’è cinema latinoamericano”

Nonostante le critiche concettuali, prendere in considerazione ciò che continua ad esistere de “lo latinoamericano” o “lo iberoamericano” mi sembra giustificato soprattutto nel cinema. Dal 1998 si è sviluppato un programma vasto di coproduzione cinematografica, Ibermedia, con inversioni pubbliche maggiori rispetto alle altre aree della cultura, che ha creato migliori condizioni per l’esistenza della “iberoamericanidad”. Né le arti visive, né la letteratura, né la radio, hanno potuto contare, su scala regionale, su di un programma così strutturato, che riuscisse a coinvolgere Spagna, Portogallo e 16 paesi dell’America Latina.

Questo programma si fonda, più che nell’esaltazione identitaria, nella concezione di uno spazio audiovisivo latinoamericano. Promuove l’integrazione delle imprese e dei progetti di questa regione in reti sovranazionali, così come lo scambio degli esperti dell’industria cinematografica, mediante aiuti finanziari e assistenza tecnica alla coproduzione di film per il cinema e per la televisione da parte di produttori indipendenti iberoamericani.

Nei 15 anni anteriori alla creazione di Ibermedia, dal 1982 al 1998, vennero coprodotti solo 59 film fra Spagna e America Latina, mentre nei sette anni successivi alla creazione di Ibermedia se ne produssero 164. Perché i risultati di Ibermedia sono marginali ed episodici? Nella valutazione del programma effettuata nel 2009 si menzionano difficoltà note. La prima è la struttura oligopolistica del mercato, controllato da imprese statunitensi che danno preferenza ai loro prodotti cinematografici negli schermi latinoamericani. Inoltre si segnala la debolezza dei canali di commercializzazione recettivi del programma Ibermedia e la necessità di dare impulso non solo alla coproduzione ma anche alla codistribuzione. Tuttavia, in questa sorta di autocritica, si menziona anche la necessità di completare la proiezione in sala con l’inserzione dei film in circuiti video e televisivi.

La recente trasformazione tecnologica modificherà questo panorama di limitata eco del cinema latinoamericano?

a) Le nuove modalità di archiviazione audiovisiva ed elettronica stanno cambiando il processo di produzione e circolazione dei film, finanche delle nozioni di cinema e video, riscrivendo i loro stili storici. In Youtube vengono caricati ogni giorno una media di 65.000 filmati, costituiti da film e cortometraggi di tipo classico, diari intimi, documentari di avvenimenti politici e culturali, musical, videogiochi, opere sperimentali e molti altri tipi di prodotti audiovisivi che saranno visti da chi non compra mai dischi né film.

b) Gli studi sulle abitudini culturali nella prima decade del XXI secolo mostrano che le nuove generazioni si sono formate come spettatori “multischermo”: vanno al cinema, vedono la televisione e soprattutto passano il loro tempo di fronte al computer, dove vedono i film, i loro programmi televisivi preferiti, leggono giornali, riviste e blogs in cui si trasmettono informazioni, commenti e interviste relativamente a tutta questa offerta culturale. Ciascuno programma la propria funzione fruitiva senza bisogno di previi avvertimenti e con tutte le interruzioni che vuole. Come ironizzava un adolescente spagnolo “Ora i genitori non minacciano più i figli di punirli togliendo loro la tv, bensì di privarli del computer” (Grau, 2010:24)

c) D’altra parte, fra le generazioni più giovani emergono molti registi che, riducendo i costi grazie alla produzione digitale e sommando risorse pubbliche, private e indipendenti, nazionali e internazionali, ampliano il numero di film nei paesi che hanno ancora una bassa tradizione di produzione cinematografica, come Uruguay, Chile e i paesi centroamericani. Alcuni di questi film hanno ottenuto premi in festival di seconda linea, riescono ad integrare i loro ingressi vendendo copie a televisioni europee o di altre regioni e riproducendosi via Internet. Alcuni festivals, sempre organizzati dalle giovani generazioni, contribuiscono a dare eco a questi film: penso alla maggior parte dei film presentati al Bafici, il festival annuale di Buenos Aires, e ad Ambulante, progetto messicano organizzato da attori giovani legati alla notoria Canana Films, la casa di produzione diretta da Gael García Bernal e Diego Luna. Ambulante, alla sua 5° edizione, nel 2010, proiettò più di 140 film di tutti i continenti in cicli ripetuti in 12 città messicane, in più di 100 sedi; inaugurò Twitter, un suo canale su Youtube e una piattaforma in linea che permette agli usuari di scaricare i contenuti in maniera simultanea al percorso del festival.

d) Qualcosa di simile è accaduto quest’anno quando il Sundance Film Festival, che offriva già dal 2000 cortometraggi online, ha lanciato 5 film su Youtube per 4 dollari ciascuno. Il festival newyorkese di cinema Tribeca ha creato anche quest’anno un festival virtuale che permette di accedere direttamente da casa a 8 lungometraggi, 18 corti, tavole rotonde in diretta e feste con tappeti rossi. Che altro? Ci saranno competizioni cinematografiche in linea? Quanto si guadagna con la diffusione transnazionale e internazionale e quanto si perde in incontri e dialoghi, in esperienze di socialità? 

da SalonKritik, 06.06.2010

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tysm literary review, Vol 7, No. 11,  January 2014

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