Fake news e post-verità
Marco Dotti
Il 13 luglio 1969, in un articolo pubblicato su un supplemento de L’Espresso col titolo “Il lavaggio dei lettori”, Umberto Eco osservava che «il giornalista non ha un dovere di obiettività». Ha, casomai, un dovere di testimonianza. La distinzione è sottile, ma non scontata e, oggi, in un contesto comunicativo multipolare, sempre più dissociato da criteri univoci di oggettività, può offrire spunto per alcune riflessioni attorno alle cosiddette fake news.
Chi testimonia per il testimone?
Per Eco, il giornalista «deve testimoniare su ciò che sa e deve testimoniare dicendo come la pensa lui. Compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che gli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che egli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre. Il giornalista che rispetta il lettore deve lasciargli il senso dell’alternativa».
Ma che cos’è una testimonianza? A un livello elementare potremmo dire che una testimonianza è una particolare relazione instaurata tra un soggetto e un evento. Come spesso accade, a soccorrerci e guidarci verso strati più profondi del concetto è l’etimologia. Due sono le vie per definire il testimone e, di conseguenza, la sua parola, la sua testimonianza. La prima si riferisce a chi è sopravvissuto (superstes) a un evento, attraversandolo. Superstes è, letteralmente, il superstite: colui che a quell’evento ha preso parte. La seconda via ci conduce alla parola testis, mutuata dal discorso giuridico, un terzo che rende conto di uno o più eventi ai quali ha assistito, senza prenderne parte. Entrambe le sfumature del concetto di testimonianza possono riguardare il nostro discorso, anche una pretesa oggettività viene predicata soprattutto per il testimone inteso come terzo.
Oggi il giornalista è sempre meno testimone (sia inteso come superstes: la fine del reportage e la surrogazione dei dispacci degli inviati di guerra con notizie acquisite da agenzie specializzate è lì a dimostrarcelo; sia inteso come testis: il suo ruolo di terzo garante è messo in forse da una partigianeria sempre più smaccata, ma sempre meno esplicitata) e sempre più mediatore passivo di messaggi.
Fake vs false
Le fake news sono al tempo stesso sintomo e concausa della crisi del sistema di intermediazione dell’informazione socialmente condivisa nello spazio pubblico.
Potremmo definire fake news quel particolare tipo di notizie che, introducendo elementi di sostanziale menzogna in contesto e ambiti di verosimiglianza formale, saturano ogni possibilità di alternativa in nome di un relativismo totalizzante.
L’effetto di feedback della fake news è non solo la manipolazione dei criteri di scelta, ma la paralisi di ogni reale percorso alternativo nella comprensione di un fatto. Le fake news rappresentano il risultato di un salto logico, nei cui confronti ben poco può una critica fondata sull’aristotelico principio di non contraddizione. Per questa ragione, più che criticate le fake news fanno disinnescate: ed è qui che appare fondante il criterio di un giornalismo-testimonianza.
Non è un caso se proprio le fake news (che dobbiamo distinguere da semplici false news: bugie, falsità, menzogne ancora interne al sistema delle contraddizioni logiche) si presentano tipologicamente nella forma della verità alternativa.
Eventi-notizia e gesti-messaggio
Dieci anni dopo aver pubblicato il proprio intervento sull’Espresso, Umberto Eco tornava sull’argomento (Obiettività dell’informazione: il dibattito teorico e le trasformazioni della stampa italiana, in Umberto Eco, Marino Livolsi, Giovanni Panozzo, Informazione. Consenso e dissenso, Il Saggiatore, Milano 1979). Il nodo critico dell’obiettività si era già esteso dalla carta stampata ai media in generale, toccando l’intera filosofia – o ideologia, scriveva Eco – del giornalismo e delle sue fonti. Ed è qui che cominciava a porsi una questione, a tutt’oggi cruciale: di che cosa è fatta la fonte di un messaggio? Di fatti o di altri messaggi?
L’avvento di quella che Guy Debord chiamerà società dello spettacolo introduceva un nuovo regime di (s)radicamento della verità nel tempo, che il teorico francese così sintetizzava: lo spettacolo del mattino, cancella persino la memoria dello spettacolo della sera precedente. Inseguire il penultimo spettacolo era la nuova missione di chiunque aspirasse alla visibilità. Lo stesso Eco scriveva: «il bonzo vietnamita che si cosparge di benzina, il giovane americano che brucia pubblicamente la cartolina precetto, il radicale che digiuna- tutti eredi spirituali del primo genio che intuì le possibilità date da una società delle comunicazioni, e cioè il Mahatma Gandhi – sono sati tra i primi a praticare un’attività che possiamo chiamare “produzione di messaggi per mezzo di messaggi”.
Uccidersi, digiunare, esporsi alla condanna per rifiuto della leva senza che nessuno lo venga a sapere è un gesto inutile». All’interno di questo spazio (il)logico un gesto non si consegna all’inutilità, solo se di quel gesto si parla: se diventa messaggio. E proprio perché se ne parla, quel gesto passa dall’essere un fatto materiale (la mia morte, il mio digiuno, etc.) all’essere un gesto simbolico (le ragioni ideali per cui muoio, digiuno, etc.). Di che cosa si occupa, allora, il giornalismo? Di fatti materiali o di gesti simbolici? Di concrete relazioni comunicative fra soggetti o di mere interazioni strategiche fra eventi-notizia?
Il puro valore-notizia
Fin dalla nascita dei circuiti di informazione, osserva Eco, gesto simbolico e trasmissione della notizia «sono diventati fratelli gemelli». Le industrie della notizia hanno bisogno di atti eclatanti, di gesti eccezionali, di fatti bruti spinti al parossismo. Allo stesso modo, i produttori di quegli atti, di quei gesti, di quei fatti hanno bisogno di quelle industrie per conferire un significato simbolico al loro agire. Spinta oltre un certo limite, però, ogni gesto diventa un gesto-notizia: lo si produce o lo si pratica unicamente affinché diventi notizia. O affinché aumenti la quotazione di quella che, in gergo, viene chiamato newsworthines (notiziabilità) di un fatto-notizia rispetto ad altri. Ma è proprio in fondo al tunnel di questa autoreferenzialità sempre più sradicata, sempre più assoluta che appare il tema delle fake-news intese come puro valore-notizia.
Tale contesto, giustamente definito di post-truth (post-verità) auspica l’avvento di una nuova soggettività: l’homo globalis completamente immerso in un reticolo digitale che proprio mentre ne definisce e ridefinisce continuamente l’identità, lo isola. Come essere socialmente isolato, l’homo globalis può contare e quindi essere solo se è riconosciuto. Può esserci solo in quanto è visto, tradotto in immagine, da uno dei tanti sistemi di classificazione e digitalizzazione del sé. Conta, quest’uomo, non come lavoratore, non come possessore di merci, ma in quanto merce o commodity dotato di un valore-contatto o di un valore-presenza le cui quotazioni salgono e scendoto a ogni istante. Conta in quanto merce esposta nel Global “I” commodity market. Il soggetto diventa tutt’uno con la pseudo-testimonianza (lo storytelling ne è la forma-tipo) che lo valorizza, quantificandolo e riducendolo a commodity.
Potremmo definire fake-news l’unità minima di funzionamento in un regime dell’informazione che ha perso ogni referenza e ogni centro di controllo dei flussi dall’alto e si regge oramai per pura autoreferenzialità.
I gesti simbolici diventano segni afasici che si consumano senza alcuna referenza. Al circuito delle informazioni si è sostituito il loro corto-circuito permanente: una “verità alternativa” (una post-verità) che irretisce, anziché liberare.
La logica del serpente
Molto importante appare, per la comprensione e la critica di questo contesto informazionale, il messaggio di Papa Francesco, per la cinquantaduesima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali sul tema: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
«L’efficacia delle fake news», leggiamo nel messaggio del 24 gennaio 2018, «è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione». La loro diffusione può contare «su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento», ma non sono tipiche della società in rete. Al cuore del problema delle fake news c’è il tema antico della seduzione, ossia la negazione stessa della relazione comunicativa (mutua inter homines communicatio): seducere (separare) è, fin nell’etimo, il contrario di conducere, riunire. Già Tertulliano, d’altronde, aveva colto nel tema della sedutio il tema della devia vita: l’instradamento ingannevole verso il baratro.
Per questo, leggiamo ancora nel Messaggio papale, «il giornalista, custode delle notizie (…) nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone». Delle concrete relazioni fra persone, oggi, va data testimonianza. Non spettacolo.
[cite]
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philosophy and social criticism
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