philosophy and social criticism

Lapucci, quel vecchio pop di strada

di Francesco Paolella

Nota su Carlo Lapucci, Eroi senza lapide. Le vite dei filosofi popolari, Clichy, Firenze 2014.

Fra un secolo (o più probabilmente ci vorrà molto meno tempo), qualche scrittore si troverà impegnato a raccogliere in un libro le invenzioni di oggi: le applicazioni per smartphone più strampalate, inutili ma che sembravano (sembrano) così promettenti, o le idee per creare delle start-up che avrebbero dovuto (dovrebbero) risolvere il problema del lavoro in un’epoca senza lavoro.

Per il momento possiamo tornare agli inventori di ieri, e specialmente ai “mattoidi” che si sono applicati a scrivere romanzi e poesie, progettare religioni, attrezzi o edifici che fanno riflettere. Se ne è occupato con risultati notevoli Paolo Albani. Nella stessa direzione ecco ora i filosofi popolari raccontati da Carlo Lapucci. Sono stati uomini che in anni più o meno lontani vissero (molto spesso letteralmente) per le strade italiane, nelle città, nei paesi. Uomini in carne ed ossa è il caso di dire, che amavano tanto la consolazione che soltanto le osterie potevano dare alle loro fatiche di pellegrini senza meta; uomini che, seppur spesso derisi dai loro concittadini e spesso inseguiti da code di ragazzini sfottenti, erano comunque adottati dalle loro comunità. E non erano semplicemente tollerati, ma realmente sfamati e difesi.

Uomini poveri, va da sé, che non avevano studiato o quasi, che temevano più di ogni altra cosa la fatica e la noia del lavoro, ma che apparivano a loro modo come dei saggi, come i portatori di una saggezza spontanea da ammirare. Filosofi popolari che non avevano lo snobismo proprio di tanti dilettanti (le masse di scrittori di oggi!), ma che puntavano piuttosto a divertire il proprio pubblico estemporaneo, raccontando, declamando, mostrando dal vivo la propria creatività. Inetti eppure saggi, naturalmente anarchici perché avversari delle autorità e del regime di turno (fascista o antifascista) e perché nemici del potere che le proprie parole potevano avere: come scrive giustamente Lapucci, erano “intellettuali” che avevano rifiutato il proprio “intellettualismo”, anche soltanto potenziale. Non avevano pretese pedagogiche, non volevano essere i missionari di una teoria o di una nuova, ipotetica, chiesa.

Una volta – prima che la nostra vita diventasse essenzialmente una vita produttiva – c’era senza dubbio più spazio per questi marginali, sempre prossimi a cadere (o a essere fatti cadere) nella “follia”, e nell’emarginazione.

«Col cambiamento dei sistemi produttivi l’economia stringe le maglie sociali regolando con leggi rapporti, responsabilità, prevenzioni e sicurezza nel lavoro, disciplina dei salari, previdenze, divieti, interventi pubblici. Soprattutto il lavoro non consente più, per la presenza di opifici, fabbriche, aziende, l’inserimento di questa gente in un qualunque angolo, nel quale non possono essere di danno a sé, agli altri e alla produzione» (p. 13).

Magari impegnandosi all’occorrenza in campagna o come sagrestani, potevano trovare un angolo dove stare più o meno comodi. Eppure – e il libro di Lapucci lo mostra bene – la memoria collettiva conserva ancora oggi tracce della loro presenza, della loro saggezza buffa, della loro originalità senza pretese. Come se fossero dei monumenti mortali, questi eroi hanno raccolto su di sé, sui loro nomi, le voci, le fantasie, le leggende di città intere. Alla libertà povera di quei vagabondi, le generazioni hanno voluto aggiungere nel tempo sempre nuove sentenze, nuove gesta, nuovi divertimenti.

Di libri come questo – che ci parla di tanti mendicanti più o meno dissimulati e più o meno ingegnosi, di tantissimi bevitori refrattari al lavoro – se ne potrebbe scrivere uno per ogni città, per ogni vallata. E non sarebbe un lavoro da pedanti e nostalgici, per libretti da vendere nelle edicole di provincia. La storia locale, intesa in primo luogo come ricerca sulle memorie, è una fonte a volte prodigiosa, mai banale. Scrive in conclusione Lapucci, che ha fatto spesso e volentieri ricorso ai suoi ricordi personali:

«E’ bene ricordare che, mentre il testo scritto è univoco, quelli orali non lo sono. Se cercate in un paese notizie di un suo personaggio caratteristico, anche vivente, vi accorgerete che ogni testimone ha il suo, che non coincide mai perfettamente con quello degli altri. I dati in gran parte concordano, ma spesso discordano nei particolari e talvolta anche nella sostanza: fatti di altri attributi a una persona, dati biografici vaghi, circostanze diverse, fantasie fatte realtà, scivoloni della memoria» (pp. 248-249).

Di molti non rimangono che pochi proverbi – e di altri vere e proprie biografie, come queste di una sedicente e seducente guida turistica fiorentina:

«Era detto “Sefrèsc” dagli amici, il “professor Sefrèsc” dagli ammiratori, che non erano pochi nella Firenze di fine anni Cinquanta e degli anni Sessanta. Il nome non aveva bisogno di spiegazioni: quando arrivava alla testa di un gruppo di turisti in un luogo d’interesse artistico, si fermava vicino a una cannella, se c’era, una fontana, beveva profondamente come a una fonte alpestre e quindi, satollo, asciugandosi con gesto elegante la bocca con la manica della giacca, diceva con aria da intenditore:

– C’est fraiche…

Così faceva davanti alle fontane del Tacca in piazza Santissima Annunziata, al lavabo della Sacrestia Vecchia del Duomo, perfino del Porcellino e ovunque capitasse.

Era una guida “poco autorizzata”, come si definiva lui con i colleghi, mentre coi clienti era “professore d’arte antica all’Accademia prospiciente il Museo del David di Michelangelo» (p. 178).

tysm literary review

vol. 14, no. 20

NOVEMBER 2014

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