Ingmar Bergman. Bellezza solare e tenebrosa dei corpi
Alessandro Cappabianca
La notizia della morte di Ingmar Bergman, passata la prima emozione, rischia di essere poco più di un evento di cronaca, nel deserto di silenzio che da un po’ di tempo s’era addensato attorno al suo nome e alla sua opera. Ci pare già di sentirli, i commenti: «cinema della spiritualità», il suo, film da allineare in una cineteca ideale accanto a quelli di Dreyer, Bresson e pochi altri. Cavalieri del Sacro, dove il cinema si dimostra capace di superare il suo congenito peccato d’origine spettacolare. Qualcuno al massimo tirerà in ballo la partita a scacchi del Cavaliere con la Morte nel Settimo sigillo, e noterà come partite simili, alla lunga, si finisce tutti per perderle.
Ma vediamo: il cinema, pratica di trasformazione dei corpi reali (reali sul set) in ombre e fantasmi (sullo schermo) – il cinema, che offre l’illusione della presenza dei corpi, nel momento stesso in cui ce ne mette sotto gli occhi l’irrimediabile assenza – il cinema, capace di distillare la quintessenza d’un attore o di un’attrice, di un oggetto o di un paesaggio, come in un’operazione alchemica – il cinema, dicevamo, non sa che farsene di filosofemi. Sospetto, anzi, che non esista filosofia, «filosofia del cinema», se non basata sull’evidenza del corpo, sull’illusione della sua presenza. E dell’amore di Bergman per i Corpi, le sue attrici sono lì a dare testimonianza. Inutile fare nomi. Corpi gloriosi, ma tutt’altro che «ideali». Corpi dai quali Bergman era in grado di distillare una bellezza carnale, solare e tenebrosa, meridiana e nordica.
Questo era il suo dono, al di là di tutti gli interrogativi sullo «spirito». «Spirito» combattuto, Bergman? Forse, ma lui non aveva mai evitato, fin dall’inizio, il passaggio attraverso i grandi interrogativi della bellezza corporea. Sarebbe sciocco ridurlo (come sarebbe sciocco ridurre Bresson e Dreyer) a regista di «anime» – e tanto più oggi che sul cinema in generale aleggia il pericolo (si, chiamiamolo pericolo, per brevità, benché il discorso sia più complesso) d’una riduzione ad «anime» tout court, ad «anime» nel senso di figurine elettroniche, dove si perde il collegamento col referente, il cordone ombelicale tra corpo e simulacro, quel lavoro della morte che scorre in sottofondo silenzioso dietro le immagini più rutilanti.
Il Corpo si sdoppia, tra Liv Ullmann e Bibi Anderson, tra il silenzio dell’attrice (Persona) e il suo vampirismo, molto oltre la metafora di se stesso che ogni corpo d’attore (e specialmente d’attrice) gia è di per sé. Bergman, come Don Giovanni, si è sempre incaricato di risanare l’occhio del Diavolo. Ma sopraggiunge la vecchiaia, certo, il decadimento fisico. Invecchia Liv Ullmann. Invecchia Erland Josephson, complice alter ego. Che succede, allora? Si punta sull’anima, si tenta di nascondere le rughe, le braccia scheletrite, i seni cascanti, le gambe ossute? O si ripiega su altri corpi, corpi giovani, i corpi inespressivi e senza storia di cui oggi come ieri si nutre tanto volentieri il cinema? No.
Il paradosso (sublime) dell’ultimo Bergman è questo: mostrare anche la vecchiaia, mostrare il corpo attoriale, che è poi sempre in qualche misura anche corpo proprio, e comunque corpo del cinema, nel suo disfacimento naturale, senza pudori e paure. Senza lamentazioni, comunque, nell’asciutta secchezza della sua decadenza. Al massimo, come in Sarabanda, con il ricorso (discreto) alla musica. Già Emilio Garroni su Filmcritica, in occasione dell’uscita dell’ultimo film di Bergman, l’aveva scritto (e aveva ricordato, in proposito, anche Sussurri e grida): la musica interviene non come sottolineatura melodrammatica, ma laddove le immagini, al limitare dell’ineffabile, non certo per timore o timidezza, rischierebbero di «dire troppo» o in modo troppo esplicito.
C’è anche un «silenzio dell’immagine», insomma, cui Bergman non ha mai avuto paura di affidarsi. L’importante, passata l’emozione della scomparsa, è che non ricada su di lui il plumbeo silenzio della critica.
[da il manifesto, 31 luglio 2007]