philosophy and social criticism

Lavorare nelle tenebre. Maurice Blanchot

"Milton"

di Marco Dotti

«Noi lavoriamo nelle tenebre, facciamo quel che possiamo, diamo ciò che abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione e la nostra passione è il nostro compito. Il resto è la follia dell’arte». A queste parole, riprese da Henry James, Maurice Blanchot affidava il compito – ambizioso, ma chiaramente improbabile – di lambire, senza tentare per questo di definirla, la “strana esigenza di scrivere”.

Un’esigenza non di rado capace di sconfinare nella “follia” e nel silenzio, ma che nulla ha a che vedere con la ricerca di consensi, fama e popolarità. L’occasione, per tornare brevemente sulle parole «del nostro vecchio maestro James», gli fu offerta, nei primi anni Ottanta, dalla richiesta, presentatagli da un redattore di “Le Monde”, di rispondere a un questionario sul tema “gli scrittori e la gloria”. Tema vagamente «bizzarro», per non dire ridicolo, in cui, notava Blanchot, «non si parla più di immortalità, tanto questa rivendicazione, che è stata propria di tutte le epoche, può ormai apparire eccessiva».

Ancora nel 1922, però, André Gide riteneva che l’ambizione e la ragione più intime e segrete che lo spingevano a scrivere potessero ricondursi all’esigenza di «salvare qualcosa dalla morte». «Qualcosa o se stesso?», si chiede giustamente Blanchot. Scrivere per non morire, confidando – speranza del tutto vana – nell’immortalità delle opere, proprio perché, residuo di una vecchia concezione romantica, l’opera altro non sarebbe che «la morte resa vana o trasfigurata». Ma, aggiunge Blanchot, dieci anni prima di Gide, in una pagina del suo diario, Franz Kafka rifletteva sullo stesso problema, seguendo una linea di pensiero quasi contraria. «Scrivere, ma perché scrivere? Per poter morire». Comuque sia, per “noi”, chiudeva Blanchot, non si tratta di rivaleggiare con politici, militari e glorie di popolo. Si tratta di essere «più modesti, ossia più immodesti». Nella sua risposta, sottilmente umoristica, Blanchot sostiene infine che appare del tutto «derisorio accontentarci della gloria dei musei, al fine di perseverarvi nella pigra eternità degli idoli». Scrivere è certamente un lavoro, ma per nulla ozioso. È un lavoro «del tutto irragionevole, che non chiede niente, che non si giustifica e che nessuna ricompensa potrebbe soddisfare». È una esigenza anch’essa bizzarra, ma che risponde a un dettame più «etico che estetico», in quanto “obbedisce” a un «si deve» senza obbligo e senza sanzione. Un «si deve» a cui è necessario il silenzio, poiché è proprio «in ciò di cui non si può parlare» che la scrittura trova le proprie risorse e il proprio segreto. Il silenzio, la distanza, l’invisibilità personale, coltivata quasi fino alla trasparenza, sono termini di base che contraddistinguono il particolare lavoro critico condotto da Blanchot. Termini a cui, suggerisce Giuseppe Zuccarino, andrebbe aggiunto quello di amicizia. Il colloquio tra amici e il «monologo a più voci» – reso possibile dal doppio gioco di prossimità e distanza – con e attraverso la loro scrittura appaiono, difatti, caratteristiche prevalenti nella tarda produzione saggistica dell’autore di Quain. A questa particolarissima attitudine critica si devono, fra gli altri, i saggi dedicati a Henri Michaux, Louis-René des Forêts e Samuel Beckett che Zuccarino ha raccolto in una preziosa e accurata antologia titolata, appunto, Noi lavoriamo nelle tenebre (Joker-I libri dell’Arca, Genova 2006).

Per Blanchot, la scrittura saggistica si unisce dunque a una particolare forma di rinuncia «a conoscere coloro ai quali ci lega qualcosa di essenziale», rinuncia che prelude alla possibilità di meglio «accoglierli nel rapporto con l’ignoto in cui essi ci accolgono, anche noi, nella nostra lontananza».

Come osserva ancora Zuccarino, la predilezione per questo dialogo a distanza si sposa con una forma, quella della plaquette, in cui si condensano illuminanti slanci critici e attestazioni di riconoscenza nei confronti di autori particolarmente significativi, non solo per la sua strategia antibiografica, da Char alla Duras, da Bousquet a Foucault. Particolarmente intenso, fra gli altri, appare il legame che lega Blanchot a Louis-René des Forêts, scrittore come lui appartato e schivo. Ridotto a lottare contro l’inattività e il silenzio, dopo la scomparsa della giovane figlia des Forêts meditava sul ritorno alla scrittura affidando i resti di questa lotta a un’autobiografia, composta da frammenti di grande intensità poetica, uscita integralmente solo nel 1997 per Mercure de France col titolo Ostinato. Il lavoro, fin dal titolo, appariva come una notazione musicale, «un tema senza variazioni, un motivo accanito che torna e non torna. Alban Berg lo sente in Schumann, e anche io lo sento, come quella nota unica che non cessava di risuonare nella sua testa senza potersi sviluppare».

Forse, suggerisce Blanchot commentando «l’amara bellezza» di Ostinato, de Forêts si è reso conto «che, per non scrivere più, si dovrebbe scrivere ancora, scrivere senza fine fino alla fine o a partire dalla fine». Gli spazi bianchi esistono «solo se c’è del nero, il silenzio solo se la parola e il rumore si producono senza cessare». Nulla appare «più pericoloso che la scrittura a cui mancano la concatenazione del racconto o il movimento necessario dell’argomentazione». Se si segue un tragitto, è comunque «un tragitto cieco», un movimento nel nero, una lavoro sotterraneo, un attraversare, senza requie, il silenzio e le tenebre.

 

tysm literary review

vol. 12, no. 19

september 2014

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